La svolta di Israele e la diffidenza compromettente e cronica degli arabi in un'analisi di Emanuele Ottolenghi
Testata: Il Foglio Data: 28 aprile 2004 Pagina: 4 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «Sharon si muove, la sindrome del complotto paralizza gli arabi»
Sul Foglio di oggi, mercoledì 28 aprile '04, l'analisi di Emanuele Ottolenghi è dedicata alla situazione mediorientale e alle mosse che Israele compirà, sottolineando la paralisi del mondo arabo moderato di fronte al susseguirsi degli eventi. Ecco l'articolo.
Ariel Sharon, padre spirituale dei coloni, annuncia lo smantellamento di 21 insediamenti. Ordina, primo nella storia d’Israele, il ritiro da parte dei Territori, senza condizioni, senza contropartita, senza obblighi da parte dei palestinesi. E rinnova il suo impegno, almeno formale, a seguire la road map. Tutto questo dovrebbe scatenare una nuova stagione di attività diplomatica, creare disponibilità a trattare, indurre i sostenitori della pace a favorire le condizioni del ritiro. E’ un’opportunità di sbloccare il conflitto israelo-palestinese, un gesto senza precedenti. Potrebbe essere la svolta. Ci si dovrebbe aspettare entusiasmo, buona volontà e aperture. Invece tutto quel che si vede, in Medio Oriente come in Europa, è panico, opposizione, sospetto e denunce. Il piano di Sharon non piace. Non piace ai giordani, che si aspettano un’invasione di profughi palestinesi una volta che Israele abbia completato la barriera difensiva e concluso il suo ritiro parziale dalla Cisgiordania. Non piace agli egiziani, che temono l’osmosi di Hamas a Gaza e Fratelli Musulmani in Egitto e non vogliono prendersi la briga di intervenire o favorire il successo della transizione a Gaza. Non piace ai palestinesi che accusano Sharon di aver affossato la road map. Gli europei si uniscono al coro, anche se con qualche lodevole eccezione. In Europa e in Medio Oriente sono più quelli che si oppongono al ritiro israeliano da Gaza di quelli che lo sostengono. Temono tutti il trucco. Ariel Sharon, dicono, si ritirerà soltanto da Gaza, e poi nemmeno lì cambierà molto, perché Israele controllerà ancora i confini e gli accessi marittimi e aerei. In cambio si terrà la Cisgiordania. Laddove c’è un’opportunità, un rischio calcolato, la regione non riesce a vedere altro che il complotto. Questa inclinazione dietrologica l’ha tradita in passato, condannandola a rimanere prigioniera della sua paralisi politica. Invece che correre un rischio calcolato, stare al gioco e trarre il massimo vantaggio dalla situazione, l’inclinazione nel mondo arabo è quella di puntare i piedi, intuire la trama ostile in ogni offerta, individuare la congiura in ogni passo. La conseguenza è arroccarsi in un immobilismo passivo.
La regola del Medio Oriente Dopo 37 anni che gli arabi lo chiedono, gli israeliani se ne vanno. I palestinesi e i loro alleati nel mondo arabo potrebbero approfittarne, trasformare il ritiro israeliano in una vittoria della causa palestinese, annunciare la fine delle ostilità e intavolare un negoziato. Dopo aver criticato Sharon per non aver fatto abbastanza gesti conciliatori per aiutare Abu Mazen a combattere il terrorismo palestinese e ristabilire l’ordine, ora criticano Sharon per avere fatto un gesto troppo generoso nei confronti di Abu Ala, il quale potrebbe dimettersi invece che consolidare il suo potere. I palestinesi potrebbero sfruttare lo sblocco dell’impasse per fare la loro parte, attuare la prima fase della road map che richiede la riforma dei servizi di sicurezza e l’attiva lotta al terrorismo, e passare alla seconda fase, che prelude al vero negoziato e alla nascita di uno Stato palestinese, ancorchè provvisorio. Potrebbero intavolare una trattativa con Israele sul valore monetario degli insediamenti che Israele lascerà intatti una volta ritiratosi, creando un incentivo per gli israeliani a offrire di più o a cercare una formula simile per la Cisgiordania in futuro. Potrebbero. Ma non lo faranno. Staranno immobili mentre la storia passa loro accanto, incapaci di farne parte attiva e di cambiarne il corso, capaci solo di denunciare la congiura. Gaza non è l’eccezione. E’ la regola del Medio Oriente. L’Iraq offre la stessa penosa situazione, è un po’ come un paralitico che curato da un dottore, scriveva qualche giorno fa William Safire sul New York Times, gli getta addosso le stampelle prima di poter camminare senza. E privandosi dei mezzi per campare e allontanando chi glieli ha forniti, condanna se stesso alla paralisi. Per quanto riguarda l’Iraq, da mesi la guerra prima e l’occupazione poi vengono dipinti, in Medio Oriente e altrove, come un complotto. E mentre intellettuali e politici arabi – sostenuti da apologhi nostrani – si agitano a rivelare congiure inesistenti, si lasciano sfuggire l’opportunità. Non sorprende che chi dal riscatto dell’Iraq ha da perderci di più stia cercando di creare il pandemonio. Non stupisce che l’Iran sostenga gli elementi più radicali tra gli sciiti in funzione sia antiamericana che antisunnita. Non stupisce che lo stesso facciano i sauditi, al contrario però. Non stupisce che la Siria apra le proprie frontiere ai jihadisti, temendo che prima o poi tocchi a Damasco. Non stupisce che al Qaida e i suoi omologhi trattino l’Iraq come il fronte cruciale della guerra tra l’Islam militante e l’Occidente, come se l’Iraq fosse el Alamein o Stalingrado, la battaglia dove avverrà la svolta. Se l’Iraq diventa libero l’Islam militante, così come le satrapie regionali, avranno molto da spiegare ai loro cittadini sul perché per settant’anni non hanno fatto altro che impoverire la regione opprimendone le masse. Ma se l’Iraq sprofonda nell’anarchia e gli americani se ne vanno come hanno fatto gli spagnoli, la debolezza americana che ne risulterà farà cadere la regione intera. Ciò che stupisce è che gli iracheni facciano come il paralitico di Safire.
L’autocondanna Un collega arabo, davanti a queste coerenti teorie, dice sornione: "Gli americani non hanno capito niente. Credevano che il regime fosse malvagio, ma la società sana. Rimosso il regime credevano si sarebbero create le condizioni per la democrazia. Sbagliavano. Il cambio di regime non basta, perché è la società che è marcia. E non solo in Iraq, ma in tutto il mondo arabo. Siamo condannati a questo crudele destino, perché questa è la natura della regione". Indica sulla mappa il Sudan, dove è in corso una prova generale di genocidio, di sudanesi cristiani e animisti, massacrati per mano araba. "Credi che qualcuno si offenda, che gridi allo scandalo per questo nel mondo arabo?", dice. "Ti sbagli, ti illudi se ti aspetti qualcosa. Per il mondo arabo ogni denuncia di genocidio in Sudan è un complotto per screditarlo. Per loro quel genocidio non esiste. E il silenzio occidentale non è che una conferma". Sono tutti complotti, è tutta una congiura, dove il mondo arabo non ha ruolo, non ha parte, se non quella della vittima. E la tragedia in tutto questo è che la rinuncia da parte del mondo arabo di assumere un ruolo attivo nell’elaborazione del proprio futuro non solo condannerà il ritiro da Gaza e l’impresa americana in Iraq. Condanna gli arabi a essere vittime dei complotti che, esistendo solo nell’immaginario paranoico della loro cultura politica, ne paralizzano l’iniziativa. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.