Un Arafat eroe e sorridente per due giorni consecutivi sul quotidiano dell'Ing. de Benedetti
Testata: La Repubblica Data: 26 aprile 2004 Pagina: 17 Autore: Alberto Stabile Titolo: «ISraele, pronto il piano anti-Arafat - "Sono pronto al martirio"»
Su Repubblica di ieri 25 aprile e di oggi vengono pubblicati due articoli firmati da Alberto Stabile su Arafat in seguito alle dichiarazioni di Sharon riguardanti la possibilità di colpirlo. Curiosamente entrambi gli articoli appaiono a pagina 17 e in entrambi appare la foto di un Arafat sorridente. Stabile, nel primo articolo, si sofferma sulla figura carismatica dell'anziano palestinese e ne evidenzia i pregi; lo descrive come una vittima, rinchiuso nella Muqata e costretto al martirio dal nemico israeliano di sempre: Ariel Sharon, il quale di lui non si è mai fidato. (i fatti danno ragione a Sharon, ma questo Stabile si dimentica di dirlo). Allo stesso tempo i palestinesi, nella laconica cronaca di Stabile, non possono fare altro che chiamare in causa l'Onu, che però ha le mani legate dal veto americano. Il quadro ora è perfetto: i poveri palestinesi contro i nemici dell'umanità, pacifintamente parlando, Usa e Israele. Nell'articolo di oggi invece, Stabile passa ad analizzare le opzioni del governo israeliano sui possibili modi di togliere Arafat dalla scena. Fin qui tutto corretto, tuttavia ci chiediamo come mai venga dato tutto questo spazio alla vicenda, dal momento che nessun altro giornale ne parla. Sembra di assistere ad un'opera di strenua difesa della figura di Arafat, che tanto cara deve essere al desk esteri de La Repubblica. Il quotidiano dell'Ing. de Benedetti non perde occasione di dimostrare la propria faziosità. Di seguito pubblichiamo i due articoli.
(a cura della redazione di Informazione Corretta)
La Repubblica, domenica 25 aprile '04: "Israele, pronto il piano anti-Arafat" gerusalemme- «Voglio dire a Sharon e alla sua banda che la montagna non può essere scossa dal vento», grida Yasser Arafat alla folla plaudente, rispondendo con parole di sfida alle ultime minacce lanciate contro di lui dal premier israeliano. Le dita allargate nel segno della vittoria, il presidente eletto dei palestinesi ha colto l´occasione per ribadire una sua filosofia ricorrente, davanti ai gravi avvertimenti di cui è sistematicamente fatto oggetto dai governanti israeliani. E cioè che è pronto ad abbracciare l´estremo sacrificio: «Siamo tutti martiri in attesa». La scena non è nuova. Il cortile della Muqata, residenza e prigione di Arafat. Una folla di due o tre mila persone che inneggia ad Abu Ammar e promette di sacrificare «sangue e anima» per il suo vecchio leader. Sullo sfondo, le macerie prodotte dall´assedio di due anni fa, diventate ormai parte inamovibile del paesaggio. Arafat appare all´improvviso dalla porta che immette ai suoi uffici, protetta all´interno da sacchetti di sabbia e bidoni di cemento. E´ lo stesso Arafat di sempre, kefia e foulard a scacchi bianchi e neri, divisa grigio verde un po´ stazzonata. Stesso tremore, ma un po´ attenuato, forse, dalla tensione di ritrovarsi nel mirino. Davanti alla folla che l´applaude e persino accenna a incrociare le danze in suo onore, Arafat non ha che da premere il tasto della retorica. Con Ytzakh Rabin e a Shimon Peres, non tanto tempo fa, era il guerrigliero convertitosi alla pace e, per questo, premiato col Nobel. Con Ariel Sharon, che lo ha sempre considerato un nemico da abbattere, anche quando Rabin e Peres gli stringevano la mano, Arafat è diventato il guerriero impotente pronto al martirio. «I palestinesi marciano verso al-Quds (Gerusalemme) da martiri», dice con veemenza. «Non è vero che siamo terroristi.. Combattiamo per difendere la libertà delle nostre sacre terre». Trentaquattro sono i palestinesi uccisi negli incidenti esplosi dopo l´«esecuzione mirata» del leader di Hamas, Abdel Aziz Rantisi. «Siamo tutti Fares Odeh» dice, allora, Arafat, ricordando il bambino ucciso fra le braccia del padre durante uno scontro, all´inizio della Seconda Intifada. Al di là della retorica, come pensa Arafat di arginare politicamente le nuove minacce alla sua vita? In mattinata, alla Muqata, Arafat ha convocato il gruppo dirigente dell´autonomia che gli ha confermato tutto il proprio appoggio. Poi s´è complimentato con Abu Ala, il premier che ha ventilato di dimettersi per protesta contro il ribaltone impresso da Bush alla tradizionale linea politica americana sugli insediamenti e sul diritto al ritorno dei profughi palestinesi. Viste le cose dette da Sharon, il primo ministro palestinese ha rincarato la dose delle critiche alla Casa Bianca, accusando Bush di aver, «con il suo flagrante propendere a favore d´Israele, al punto da giocare d´azzardo coi diritti dei palestinesi», incoraggiato le minacce rivolte da Sharon ad Arafat. Abu Ala non s´è, tuttavia, fermato alla polemica. Il primo ministro palestinese che Sharon ha mortificato - dichiarando che non aveva neanche il potere di spostare un poliziotto da un lato all´altro della strada - ha chiesto alle Nazioni Unite d´intervenire sugli incessanti avvertimenti lanciati contro Arafat. Dal punto di vista palestinese, non c´è sede migliore dell´Onu per vedere riconosciuti i propri diritti, anche se mai il Consiglio di Sicurezza ha potuto adottare, grazie al sistematico veto posto dagli Stati Uniti, risoluzioni di condanna nei confronti d´Israele. È, dunque, con grande favore che i palestinesi hanno ascoltato i recenti commenti dell´inviato dell´Onu in Iraq, Lakhdar Brahimi, che nei giorni scorsi ha parlato della politica israeliana come del «veleno» del Medio Oriente, e ieri ha ribadito la sua posizione anche di fronte alle proteste israeliane e alle precisazioni arrivate dal Palazzo di Vetro di New York. La Repubblica, lunedì 26 aprile '04: "Sono pronto al martirio" gerusalemme - Le minacce lanciate da Sharon contro Arafat non saranno messe in pratica subito. Secondo l´interpretazione del pensiero di Sharon, offerta dal vice premier Ehud Olmert, rivelando d´aver detto a Bush che non si sentiva più vincolato dall´impegno contratto tre anni fa con la Casa Bianca di non colpire il leader palestinese, il primo ministro israeliano ha soltanto voluto affermare una «posizione di principio». E se Arafat sembra particolarmente spaventato dal nuovo avvertimento, secondo Olmert non può che essere un bene. Il coro di proteste sollevato dalle incaute rivelazioni di Sharon nell´intervista concessa al secondo canale della Tv, deve aver convinto il premier israeliano che per il momento era meglio tacere. Così ieri, al consiglio dei ministri convocato, come d´abitudine, per la riunione d´inizio settimana, Sharon non è tornato sul tema delle minacce ad Arafat, lasciando che fossero i suoi ministri a dire la loro. Con la sola eccezione del ministro della Difesa, Shaul Mofaz, uno dei pochi che Sharon non fa un passo, specie in materia di sicurezza, senza consultare, i membri del governo intervenuti hanno tentato, chi più, chi meno, di ridimensionare le minacce. Affermando, come ha fatto Olmert, che non sarebbero state tradotte in pratica «nè oggi, né domani, né nel corso della settimana». Mofaz, invece, ha voluto confermare le parole del premier, affermando che continua a ritenere che Arafat debba essere «rimosso» dalla scena politica. In questo dibattito singolare, dove un consiglio di ministri sembra piuttosto esercitare il ruolo di un tribunale speciale chiamato a pronunciare un verdetto di vita o di morte, ieri è giunta l´eco di una nuova rivelazione, stavolta del giornale Maariv, secondo cui Sharon starebbe in realtà preparando il terreno per deportare Arafat a Gaza, come parte del «piano di disimpegno» presentato nei giorni scorsi e avallato dall´amministrazione americana. Solo che costringere il presidente eletto dei palestinesi a lasciare forzatamente la Muqata, dove viene tenuto di fatto prigioniero, e trasferirlo a forza a Gaza sarebbe un´operazione estremamente rischiosa, che non solo non garantirebbe l´incolumità del Arafat, ma, secondo gli stessi esperti militari, potrebbe facilmente culminare con la sua morte. E questo è qualcosa che lo stesso stato maggiore della sicurezza fatica ad accettare. Altri oppongono al progetto di "trasferire", il capo dell´autonomia finirebbe con il riguadagnare il suo status internazionale che quasi tre anni di prigionia alla Muqata ha malamente danneggiato. A giudicare dalle rivelazioni di Maariv, comunque, tutto è pronto per l´ora X. Gli uomini delle squadre speciali sarebbero stati addestrasti al compito. Le prove generali del rapimento sarebbero già state fatte e il luogo dove dovrebbe essere trascinato Arafat sarebbe già stato visionato e approvato. Ma il successo non è garantito al cento per cento. Così come, argomenta sempre il giornale, non è certo che Arafat, stia dietro a determinate attività terroristiche, come si dice nei Tribunali, «al di là di ogni ragionevole dubbio». Altrimenti altro che deportazione. La condanna a morte sarebbe già stata eseguita. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla direzione de La Repubblica. 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