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Il Foglio Rassegna Stampa
20.04.2004 Colpire la leadership di Hamas per indebolirne l'organizzazione
è una strategia che sta funzionando. Con i suoi rischi

Testata: Il Foglio
Data: 20 aprile 2004
Pagina: 4
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «Ora Sharon non può non andare fino in fondo con Hamas»
Riportiamo l'accurata ed approfondita analisi di Emanuele Ottolenghi sulle operazioni militari e strategiche che puntano a indebolire ulteriormente l'organizzazione di un gruppo terroristico fra i più feroci, Hamas. E' pubblicato sull'inserto del Foglio di oggi.
In rapida sequenza, il governo di Ariel Sharon ha in meno di un mese eliminato
due leader di spicco di Hamas a Gaza, lasciando l’organizzazione indebolita,
divisa e in difficoltà. All’indomani dell’uccisione dello sceicco Ahmed Yassin,
Hamas aveva giurato vendetta. Nonostante i molteplici tentativi di mantenere la promessa, dal 22 marzo Hamas non è riuscito a portare a termine con successo nessun attacco terroristico entro i confini d’Israele. L’unica eccezione è stata l’attentato a Erez, al confine tra la Striscia di Gaza e Israele, sabato pomeriggio, poche ore prima che il successore di Yassin, il pediatra Abd-el Aziz el Rantisi, venisse centrato da un missile israeliano nella sua auto. La risposta rabbiosa di Hamas, che ha promesso nuovamente vendetta, riflette la sua impotenza. Ogni giorno che passa senza che Hamas riesca a colpire Israele indebolisce l’organizzazione, la cui popolarità deriva dalla frequenza e dalla forza letale dei suoi successi terroristici. La decisione di Hamas di non rivelare il suonuovo capo a Gaza – anche se trapelano indiscrezioni secondo le quali sarebbe stato scelto come leader "occulto" il medico Mahmoud A Zahar – mostra con chiarezza l’attuale debolezza dell’organizzazione. I due centri israeliani, a così poca distanza l’uno dall’altro, e la precisione delle due operazioni, che non hanno causato danno collaterale tra civili, indicano a che punto Israele sia riuscito a infiltrare l’organizzazione. Soltanto un’ottima intelligence umana – quella che tragicamente gli alleati non hanno oggi in Iraq per far fronte all’indegno ricatto degli ostaggi – può garantire il successo di simili operazioni.
L’anonimato del nuovo leader riflette dunque la consapevolezza di non essere più sicuri come un tempo. Israele raggiunge impunemente i suoi leader: Hamas
passerà le prossime settimane e mesi a cercare di individuare le spie tra le sue fila; i suoi leader dovranno essere più circospetti e guardinghi di quanto
non fossero già; dovranno guardarsi le spalle e potranno fidarsi soltanto di pochi: se Israele ha in così poco tempo eliminato i suoi due più autorevoli leader, nessuno, anche nella cerchia più ristretta, è più sicuro. Tale situazione rende più difficile l’attività politica e la pianificazione di operazioni terroristiche. Chi spende tempo ed energie a nascondersi ha meno tempo da spendere a cercare di ammazzare gli altri.

Perché la strategia funziona
Il nuovo status di vulnerabili obiettivi braccati da traditori e missili guidati costringe ora i leader a darsi alla macchia più che mai. Una delle forze dell’organizzazione stava proprio nel carisma dei suoi leader e nella loro frequente presenza tra la folla. Ne conseguirà inevitabilmente una minor visibilità dell’organizzazione, cosa che potenzialmente potrebbe indebolirla agli occhi dell’opinione pubblica palestinese.
La strategia israeliana per ora sembra funzionare. Israele mira a indebolire Hamas e a decapitarne l’organizzazione non soltanto per minarne la capacità operativa, ma anche per rafforzarne i concorrenti palestinesi in vista del ritiro unilaterale da Gaza. Dei molti scenari previsti per il giorno dopo il ritiro, quello di una presa del potere da parte di Hamas è, sia per Israele sia per i suoi alleati americani, quello meno desiderabile. Inoltre, memore
dell’impatto avuto sull’opinione pubblica palestinese del ritiro unilaterale
israeliano dal Libano a maggio del 2000, Sharon non vuole creare una simile impressione, dove Hamas potrebbe proclamarsi vincitore e spiegare il ritiro israeliano come fece già Hezbollah in Libano, come la conseguenza della lotta armata di cui Hamas è il principale fautore. Indebolire Hamas operativamente e sminuirne il potere politico lasciando un vuoto di leadership serve anche a raggiungere questo obiettivo. Il risultato, sperano a Gerusalemme, sarebbe di favorire forze politiche meno indigeste all’indomani del ritiro, primo tra tutti Mohammad Dahlan, uomo dell’Autorità nazionale palestinese, con cui Israele e gli americani mantengono un canale aperto e che viene considerato
come interlocutore credibile.

Perché è una strategia rischiosa
Ci sono tuttavia dei rischi nella strategia israeliana. Il vuoto di potere che si sta creando tra le fila di Hamas a Gaza potrebbe riportare il baricentro dell’organizzazione a Damasco, nelle mani di Khaled Mashal, suo commissario politico. Con il ritorno di Yassin a Gaza nel 1997 la leadership politica e le decisioni del movimento emanavano principalmente da Gaza, ed esprimevano una linea che prediligeva gli interessi locali ed era scettica sulla possibilità di collaborazioni jihadiste globali. Ora, con l’uscita di scena dei due principali leader locali, Mashal potrebbe riprendere le fila del movimento, perseguendo più aggressivamente la linea di cooperazione con Hezbollah e altre forze jihadiste globali. La morte di Rantisi inoltre potrebbe metter fine al recente negoziato tra Hamas e Autorità nazionale palestinese per condividere il potere a Gaza, dopo il ritiro israeliano. Se da un lato tale interruzione previene almeno temporaneamente ogni possibile inclusione di Hamas nel futuro assetto di potere di Gaza (ed eventualmente dello Stato palestinese), dall’altro potrebbe spingere Gaza nella direzione del confronto/scontro
tra nazionalisti e islamisti. E nel caso di anarchia – il secondo peggior scenario per Israele e Stati Uniti, dopo la presa di potere di Hamas – esiste il rischio di internazionalizzazione. Se Gaza scivolasse nel caos, insomma, non è da escludersi che l’Onu e altre organizzazioni internazionali, prima tra tutte l’Unione europea, caldeggino l’invio di forze di interposizione e di osservatori per ristabilire l’ordine e far fronte all’inevitabile crisi umanitaria. Paradossalmente, tale sviluppo potrebbe favorire i palestinesi nel lungo periodo, vista la loro predilezione per l’internazionalizzazione e l’indubbio sostegno che la loro causa ne trarrebbe da una presenza internazionale. Israele si troverebbe limitato nel suo potere di rappresaglia in caso di attacchi, e le forze internazionali – a giudicare dalla passata esperienza di forze Onu in Egitto tra il 1949 e il 1967 e in Libano dal 1978 a oggi – con tutta probabilità fungerebbero da ostacolo a Israele ma non al terrorismo palestinese. L’uccisione di Rantisi, dopo l’eliminazione di Yassin, rappresenta dunque un ulteriore rischio calcolato, che darà i suoi frutti soltanto se Israele continuerà con successo ed efficacia a colpire la leadership di Hamas, a Gaza e altrove, fino al preannunciato ritiro dai territori palestinesi. Le eliminazioni di Rantisi e di Yassin insomma devono essere soltanto l’inizio di una campagna di uccisioni mirate che decapitino tutta la leadership politica e militare di Hamas prima che Hamas possa riorganizzarsi, allearsi con altre organizzazione terroristiche, o beneficiare di un intervento internazionale per recuperare le forze.
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