Dahlan, un protagonista poco conosciuto e una analisi del prossimo viaggio di Sharon in USA
Testata: Avvenire Data: 13 aprile 2004 Pagina: 18 Autore: Francesca Fraccaroli - Graziano Motta Titolo: «Dahlan: Un'alleanza mondiale per uscire dal vicolo cieco - Bush vuole salvare la Road map, Sharon preme sul ritiro»
Mohammed Dahlan è poco intervistato dai media occidentali. Sarà forse perchè oggi nell'ANP Dahlan rappresenta l'unica vera opposizione ad Arafat. Anche se si esprime con le conprensibili cautele. Da Avvenire pubblichiamo una sua intervista:
"Dahlan: Un'alleanza mondiale in Medio Oriente per uscire dal vicolo cieco" di Francesca Fraccaroli Mohammed Dahlan è divenuto noto due anni fa, quando, in qualità di capo del servizio di sicurezza preventiva palestinese, negoziò la fine dell’assedio israeliano all’ufficio di Ramallah del presidente Yasser Arafat cominciato due mesi prima. Erano quelli i giorni dell’operazione "Muraglia di difesa" che portò alla rioccupazione israeliana delle aree autonome in Cisgiordania. E fu proprio dopo quella trattativa che i rapporti tra Dahlan e Arafat, sino a quel momento eccellenti, si incrinarono. Il capo degli 007 cominciò ad affermare la necessità di un profondo rinnovamento delle istituzioni palestinesi e finì per allearsi con Abu Mazen, l’architetto degli accordi di Oslo (1993) critico di Arafat, divenuto primo ministro con l’approvazione di Stati Uniti e Israele. Crollato in pochi mesi il governo ed uscito di scena Abu Mazen, Dahlan si è affermato come il principale rivale del presidente palestinese. Secondo fonti palestinesi Dahlan godrebbe del sostegno finanziario degli Usa ed ella Gran Bretagna, che guardano con favore al suo piano di riorganizzazione dei servizi segreti palestinesi e di contenimento dei movimenti islamici più radicali. Di recente avrebbe fomentato ribellioni anti-Arafat in Al-Fatah e ha creato una propria milizia alternativa alle forze di sicurezza dell’Anp. Lui però nega di manovrare contro il presidente palestinese e, in pubblico, continua a manifestargli piena fedeltà. Abbiamo incontrato Mohammed Dahlan in uno studio di produzioni televisive a Gaza, prima di un suo intervento via satellite su un canale arabo.
«Lei è indicato da molti come l’uomo forte di Gaza ed è ritenuto un potenziale successore del presidente Yasser aRafat, si ritrova in questa definizione?» Io non voglio essere il successore di nessuno, quello che vorrei è trovare una via d’uscita dal vicolo cieco nel quale il popolo palestinese è entrato, una soluzione per la mia gente, per il presidente Arafat. Il mio asserito potere deriva esclusivamente dai buoni rapporti con gli altri, e comunque, me lo sono conquistato in 25 anni di lavoro. Voglio utilizzare questa mia influenza nell’interesse della mia gente.
«A suo avviso di cosa hanno bisogno i palestinesi per uscire dal vicolo cieco nel quale –come ha detto lei- sono entrati?» Bisogna che ci sia la volontà della comunità internazionale che, come è stata in grado di creare una coalizione per combattere il terrorismo, così dovrebbe attivarsi per costituire un’analoga coalizione con lo scopo di attuare un processo di pace reale, applicabile sul terreno. L’altro compito spetta all’Autorità nazionale palestinese e in particolare al presidente Arafat, che ha il dovere di avviare riforme essenziali per il nostro popolo: nuove leggi ed elezioni. Infine, la comunità internazionale deve obbligare Israele ad applicare tutte le risoluzioni già da tempo emanate e ad attuare gli accordi sottoscritti dallo Stato ebraico. «Lei ha espresso più volte dubbi sull’opportunità di continuare l’Intifada, la rivolta palestinese contro Israele. E si è schierato a favore dell’immediata cessazione degli attentati kamikaze: le sue posizioni sono pienamente condivise in Occidente, ma trovano difficoltà a farsi largo fra i palestinesi convinti della necessità della lotta armata…» Ho cercato di spiegare che l’Intifada non è stata totalmente negativa in quanto ha portato i due opopoli alla consapevolezza che i loro sogni storici non sono realizzabili. Gli israeliani hanno capito che non potranno avere Erez Israel (la biblica «Terra di Israele», che comprende anche Cisgiordania e Gaza), i palestinesi sanno che dovranno vivere in uno stato su una piccola porzione della loro terra. Da parte mia sono contrario all’uso della violenza contro i civili delle due parti, così come sostiene l’Autorità palestinese e quindi condanno gli attentati suicidi. Meglio negoziare un mese intero che combattere anche per un solo giorno. «Di recente sono ripresi i colloqui tra le fazioni palestinesi relativi al dopo ritiro israeliano da Gaza. Lei è favorevole alla partecipazione delle organizzazioni islamiche, Hamas e Jihad, alla futura amministrazione politica dopo l’evacuazione delle colonie ebraiche?» Sono d’accordo sul fatto che i movimenti islamici partecipano alla gestione di Gaza e che collaborino con l’Autorità palestinese, ma solo se all’interno del nostro programma politico di accordo con Israele e se si attengono al progetto di pace. Per quanto riguarda il ruolo che questi gruppi possono giocare in un futuro governo, io credo che molto dipenderà dalla trasformazione che la comunità internazionale permetterà di dare alla nuova Striscia di Gaza. Se ci sarà davvero la volontà di investire, di portare sviluppo e crescita economica che coinvolga il popolo palestinese, queste fazioni saranno di fatto obbligate ad accettare il processo democratico e a rinunciare alla lotta armata. «Lei crede che Israele attuerà davvero il suo piano di evacuazione?» In realtà non ne sono affatto sicuro. Con questa leadership israeliana è ben difficile raggiungere un’intesa. Lo dimostrano le interviste rilasciate da Sharon nelle quali sostiene che il piano di ritiro da Gaza serve proprio ad evitare la nascita di uno stato palestinese. Se così fosse non sarà possibile raggiungere la pace tra i due popoli. Sharon sta per incontrare Bush. Pubblichiamo una analisi di Avvenire di Graziano Motta. Equilibrata, distante dalle due parti, informativa.
"Bush vuole salvare la Road map, Sharon preme sul ritiro" Il primo atto della nuova iniziativa diplomatica americana per la riattivazione del processo di pace israelo-palestinese, che ha avuto come protagonisti i presidenti americano Bush ed egiziano Mubarak –il loro incontro è avvenuto ieri nel ranch texano di Crawford- si è concluso con la solenne proclamazione di un compromesso politico che entrambi realisticamente perseguivano: con l’affermazione cioè che il piano unilaterale israeliano per il ritiro di coloni e soldati dalla striscia di Gaza e da alcuni insediamenti della Cisgiordania «non sostituisce la Road map ma è ad essa complementare». Al momento però soltanto un’affermazione di principio. Come possa calarsi nella realtà, resta tutto da verificare, visto che il primo ministro israeliano Sharon ha progettato il ritiro da Gaza in maniera non consensuale, non concordata, con i palestinesi, per l’impossibilità che questi avevano dimostrato di non attuare un impegno prioritario assunto con la Road map, quello cioè di smantellare quadri e infrastrutture dei gruppi armati dell’intifada. E visto che intende realizzare questo ritiro non solo con l’approvazione ma anche con delle «contropartite» concrete, politiche e finanziarie, degli Stati Uniti. Che ha già chiesto e intende soltanto definire, incontrando domani Bush a Washington. Sulla scena diplomatica si sono delineate quindi delle posizioni difficili da conciliare. Perché al di là delle affermazioni fatte a termine dell’incontro Bush-Mubarak –che cioè il ritiro israeliano da Gaza è «apprezzato» e costituisce uno «sviluppo positivo»- accompagnate da un nuovo appello per una pace "vera" in Medio Oriente, «non solo una pausa fra guerre»- restano intere tante preoccupazioni. A cominciare da quelle palestinesi, esplicitate ieri a Ramallah dal primo ministro Abu Ala in un incontro con i giornalisti. Ha ammonito Bush a non fare alcuna promessa a Sharon che possa danneggiare la causa palestinese; teme in effetti che possa essere pregiudicato l’esito del negoziato per una soluzione permanente del conflitto) tanto da ribadire che considera il ritiro israeliano da Gaza nel quadro globale di una azione diplomatica che ponga fine alla occupazione della Cisgiordania. E poi non si sono per nulla acquietate le apprensioni egiziane e giordane (ieri le ha espresse per lettera a Bush re Abdallah, che a fine mese andrà pure lui in America a incontrarlo) di un potere politico fondamentalistico islamico a Gaza, come conseguenza del ritiro israeliano. Entrambi i paesi vogliono che il "vuoto" israeliano sia colmato dall’Autorità palestinese, ovvero dall’establishment di Arafat con cui Sharon non intende avere a che fare. Ma che Bush tiene in considerazione, tanto che a fine settimana il ministro degli esteri Nabil Shaat sarà ricevuto a Washington dal segretario di Stato Powell. Su tutto questo scenario incombe, come ultimo atto, con tutta la carica di attesa che si porta addietro, il referendum sul progetto di ritiro da Gaza al quale saranno chiamati il 29 aprile i circa 200mila iscritti al partito Likud, di cui è leader il primo ministro Sharon. Progetto avversato da molti di essi e che rischia di essere clamorosamente bocciato. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Avvenire. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.