Testata: Il Foglio Data: 08 aprile 2004 Pagina: 4 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «Perchè, nonostante tutto, Sharon è ancora in buona salute politica»
Emanuele Ottolenghi sul Foglio di oggi compie un'accurata analisi volta a capire le ragioni del successo politico di Ariel Sharon, il quale, tra scandali finanziari e una guerra di cui non si vede la fine, mantiene intatta la sua leadership.
Ariel Sharon da tre anni guida Israele. Eletto per vincere una guerra voluta dai palestinesi, ha preso le redini del paese nel febbraio 2001 e contro ogni previsione rimane ancora saldamente in sella. Questo, nonostante che il suo governo non abbia ancora vinto la guerra suicida di Yasser Arafat, nonostante Israele abbia pagato a caro prezzo di isolamento internazionale le politiche militari adottate da Sharon, nonostante la crisi economica in parte provocata dal crollo del processo di pace e dall’ondata di terrorismo, nonostante gli scandali che mettono in pericolo il futuro del vecchio statista, nonostante la mancanza di un orizzonte politico offerto dal suo governo fino a pochi mesi fa. Nonostante tutte le incertezze e le difficoltà, la forza politica di Sharon sta nella mancanza di un’alternativa al suo governo. La sinistra sta ancora pagando lo scotto della sua associazione col processo di Oslo, il cui fallimento è attribuito, in egual misura, al suo ingenuo ottimismo nella possibilità di porre fine al conflitto arabo-israeliano con concessioni territoriali e incentivi economici, e la propensione suicida della leadership palestinese a rifiutare ogni ragionevole compromesso. Pochi si spiegano la preferenza dell’opinione pubblica israeliana per un politico compromesso militarmente dal suo passato, politicamente dall’avventura degli insediamenti, e moralmente da scandali finanziari che potrebbero travolgerlo in una serie di processi. Sharon ha finora saputo aggirare tutti i potenziali ostacoli, grazie a due lezioni apprese dagli errori passati: mai fare una guerra senza il consenso nazionale e con l’opposizione degli americani. Fino all’ottobre 2002, Sharon ha condotto la sua campagna insieme ai laburisti. Dopo, pur avendoli persi per strada, ne ha sostanzialmente adottato le politiche. Di fronte ai sondaggi d’opinione, Sharon ha prima ceduto sulla costruzione della barriera lungo il vecchio confine con la Cisgiordania, e poi sul controllo di Gaza. Pur contrario a entrambe in origine, ha fatto sue le idee della sinistra: la barriera e il ritiro da Gaza, il cui annuncio e il cui avanzato stato di pianificazione hanno spiazzato mondo arabo, palestinesi e comunità internazionale; hanno vanificato le alternative politiche improvvide dell’iniziativa di Ginevra; e hanno ottenuto il sostegno diplomatico – forse anche economico – degli Stati Uniti. La doppia mossa della barriera e del ritiro da Gaza è coordinate con Washington e gli permette di mantenere il sostegno popolare che tre anni di guerra senza spiragli politici avrebbero invece irrimediabilmente minato. La mancanza di un’alternativa politica e la possibilità di creare coalizioni ad hoc attorno al grande centro, costituito dal suo partito e da Shinui, hanno permesso a Sharon di attuare un’efficace politica di austerità economica, che comincia a dare frutti. Rimane l’interrogativo dello scandalo. L’avvocatura dello Stato ha sostenuto la necessità di mettere il premier sotto processo per lo "scandalo dell’isola greca": Sharon avrebbe favorito un investimento di un suo amico in un’isola dell’Egeo, intercedendo presso il governo greco. Il costruttore, David Appel, avrebbe poi utilizzato una società dove lavora il figlio di Sharon, pagando una sostanziosa parcella. Il problema per chi deve decidere se intentare un processo o no (in Israele non c’è l’obbligo dell’azione penale) è se esistano sufficienti prove per dimostrare che il premier, nell’aiutare una società israeliana in un affare all’estero, abbia ecceduto nei suoi poteri e fatto favoritismi per figli o amici. Una cosa è pensarlo, un’altra è dimostrarlo in un procedimento penale, senza contare poi le conseguenze politiche di un processo al primo ministro nel bel mezzo di una guerra, specie se processo si risolvesse con l’assoluzione. Il 60 per cento degli israeliani crede che, se incriminato, Sharon dovrà dimettersi. Il procuratore generale provocherà una crisi politica, quindi, solo se riterrà l’accusa a prova di bomba. Intanto, il premier dice che ritiro da Gaza avverrà entro la prossima primavera e va a Washington a mettere a punto i dettagli del piano in coordinazione con Bush, coi laburisti che aspettano l’assoluzione per rientrare al governo. Probabile infatti che Sharon perda la sua maggioranza sul ritiro da Gaza più che per gli scandali, che i laburisti lo snobbino più per gli scandali che per Gaza. L’ostacolo principale è destra del suo partito, il Likud, ma può facilmente aggirarlo con il referendum lanciato tra gli iscritti. Se l’esperienza dei tre anni passati insegna qualcosa, ce la farà. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.