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Il Foglio Rassegna Stampa
08.04.2004 L'Iraq visto dall'America
serve più fermezza

Testata: Il Foglio
Data: 08 aprile 2004
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Poco polso»
A proposito degli ultimi sviluppi della situazione irachena e alle conseguenze che essa ha sulla campagna per le elezioni presidenziali negli Stati Uniti, Il Foglio dà spazio a chi tra gli americani richiede a Bush una maggiore fermezza nella gestione della crisi. Di seguito pubblichiamo due pezzi apparsi in prima pagina. Utili per comprendere.

1) "Analisti amici chiedono a Bush di usare nel dopoguerra in Iraq la stessa fermezza vista in guerra"

Roma. Giornali amici si ribellano e chiedono fermezza. La differenza rispetto
alle politiche deboli degli anni 90, la determinazione che era il più grande merito, la qualità costante, di George W. Bush, sono venute a mancare, e le esigenze della campagna elettorale lo stanno rendendo esangue? Non solo, il tallone d’Achille rischia di essere il comportamento del dopoguerra, i tentennamenti di questi ultimi tremendi giorni, e non lo sterile dibattito sul passato, le accuse sui primi mesi di presidenza, quelli che hanno preceduto
11 settembre. Inutile che la Casa Bianca ascolti i guru della campagna preoccupati di perdere punti nei sondaggi, perché solo presidente sicuro di sé può recuperarne, quello che tergiversa e continua a dire che 30 giugno è una deadline per il passaggio dei poteri, che non decide sull’invio di nuove truppe in Iraq, dà ragione all’avversario John Kerry. Il quale si consente il lusso di attaccarlo un giorno perché la guerra a Saddam è stata un errore e non andava fatta, un altro perché il dopoguerra è stato gestito in modo irresoluto. Più
duro del Wall Street Journal è Bill Kristol dalle colonne del Weekly Standard; tutt’e due sono compagni di strada, e nel secondo caso, un consigliere e persino un ispiratore della politica del presidente, divenuto di recente un osservatore critico, perché l’esercito non è stato potenziato, le truppe di terra in Afghanistan sono arrivate in ritardo, l’Iran non viene affrontato come il nemico che è, il finanziatore della rivolta fra gli sciiti, la pressione sull’Arabia Saudita, ancora culla del terrorismo, è troppo lieve. Ora, scrive Kristol, dopo Fallujah, è tempo di ritornare alla fermezza che fu del Bush comandante in capo dell’America attaccata; il dopoguerra è lungo impegnativo, non breve e facile, l’attacco e la rivolta vanno respinti nel modo più duro possibile, gli americani morti a Fallujah attendono di essere onorati, o sarà la
stessa onta che gli Stati Uniti subirono a Mogadiscio dieci anni fa. I sondaggi non danno ragione al liberal Kerry, gli americani pensano ancora che la guerra sia stata la cosa giusta da fare, ma gli altri dati aiutano a comprendere la tensione e le incertezze della Bush 2004 campaign. Il Pew research center è indipendente come lo Zogby, le loro interviste, fatte dopo gli scontri di Fallujah, confermano un calo dell’approvazione per il presidente, ora è fra il quarantatre e il quarantasette per cento, motivati dalla situazione recente in Iraq, tale da metterne in discussione la rieleggibilità. Il dato è legato naturalmente alla reazione emotiva, gli osservatori concordano che sia recuperabile, che gli americani siano pronti a restare a fianco del loro presidente. Purché scelga la chiarezza, dia loro indicazioni sulla sicurezza, spieghi se e quale è il piano per il dopo 30 giugno, nomini un successore forte a Paul Bremer, qualunque sia il titolo che gli verrà attribuito. Dall’analisi dei sondaggi, un’indicazione importante: se c’è un’istituzione alla quale non si affiderebbero per sentirsi protetti quella è l’Onu.
2) "Serve una riaffermazione della volontà americana anche dopo il 30 giugno. L'idea Wolfowitz". Tradotto dal WALL STREET JOURNAL.

I prossimi giorni in Iraq potrebbero essere i più critici da quando il presidente Bush ha ordinato l’invasione del paese un anno fa. Milioni di iracheni e milioni di americani aspettano di vedere se gli Stati Uniti stanno ancora combattendo per vincere. (…) differenza della determinazione dimostrata
da Bush quando ha rovesciato Saddam, il ritorno alla sovranità irachena è stato contrassegnato negli ultimi mesi da tentennamenti e indecisioni. (…) Ciò di cui ora c’è bisogno è una riaffermazione della determinazione americana, soprattutto nel campo della sicurezza, ma anche in quello della transizione alla sovranità irachena, persino se questo significa che non ci sarà nessun ritiro delle forze americane nel prossimo futuro. (…) Troppi iracheni stanno
già cominciando a sospettare che il 30 giugno abbia a che fare più con le elezioni americane che con quelle irachene. (…) Ieri, il presidente Bush ha ribadito il suo impegno per il trasferimento di poteri fissato 30 giugno. Ma la data precisa è molto meno importante del fatto che gli Usa non hanno finora alcun piano per essere pronti di fronte a ciò che accadrà quel giorno. (…) Bush
può mandare un segnale importante con scelta del successore di Bremer come
ambasciatore degli Usa in Iraq. La scelta peggiore sarebbe quella di un diplomatico. Noi raccomandiamo Paul Wolfowitz, il vicesegretario alla Difesa, che ha impegnato la sua stessa reputazione sul successo in Iraq che sarebbe considerato dagli iracheni come una persona seriamente dedicata. Anche Rudy Giuliani sarebbe un’ottima scelta. Confidiamo che Bush sappia bene che la
reazione americana ai fatti di Fallujah e alle dichiarazioni di al-Sadr è, per la sua rielezione, molto più importante delle rivelazioni del libro di Richard Clarke. (…)
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