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Fiamma Nirenstein ci parla della guerra antisemita contro l'Occidente

Riprendiamo da FORMICHE.net, la video-intervista di Roberto Arditti a Fiamma Nirenstein dal titolo: "A che punto siamo in Medio Oriente. Intervista a Fiamma Nirenstein". 
(Video a cura di Giorgio Pavoncello)

Intervista a tutto campo a Fiamma Nirenstein di Roberto Arditti, a partire dal suo ultimo libro: "La guerra antisemita contro l'Occidente". Le radici dell'antisemitismo e perché l'aggressione contro il popolo ebraico in Israele è un attacco a tutto campo contro la civiltà occidentale. E una sconfitta di Israele segnerebbe anche la nostra fine. 



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Avvenire Rassegna Stampa
07.04.2004 Geninazzi conosce la storia, peccato che..
sia pieno di pregiudizi

Testata: Avvenire
Data: 07 aprile 2004
Pagina: 3
Autore: Luigi Geninazzi
Titolo: «Coloni via da Gaza. Un test per la pace - La storia di Gaza»
Luigi Geninazzi affronta il probelma dell'uscita da Gaza intervistando alcuni abitanti nei villaggi ebraici. Conoscendo il tono di Geninazzi ci saremmo aspettati di peggio. Nel complesso invece l'abituale astio è attenuato. Certo, Geninazzi vede e descrive gli israelinai di gaza come degli animali esotici. Un israeliano, arrivato in Israele dodici anni fa, viene descritto come "ebreo francese", tanto per rimarcare l'aspetto "coloniale". Nell'insieme il lettore è portato a giudicare severamente la situazione. Poco o nulla sui "pacifici" vicini palestinesi.
Ecco il pezzo:

I botti, in rapida successione, rompono il silenzio di un pomeriggio assolato ma Hamid non si scompone, s'attacca alla ricetrasmittente per avere informazioni e spiega con voce assolutamente tranquilla: «Erano colpi di mortaio, fortunatamente sono andati a vuoto». E' comunque un evento. «Quello di oggi è l'attacco numero 4000 subìto dalla nostra comunità», dice con l'aria impassibile di un contabile d'azienda.
Hamid, mitraglietta M-16 a tracolla, è il responsabile della sicurezza civile di Neveh Dekalim, il più grosso degli insediamenti ebraici all'interno della Striscia di Gaza. Gli abitanti ci hanno ormai fatto l'abitudine: tre, quattro volte la settimana l'aria è squarciata dai sibili dei razzi anti-carro sparati dal villaggio antistante di Khan Yunis, il campo profughi palestinese. Spesso colpiscono le case, qualche volta anche chi ci vive. Dall'inizio della seconda Intifada, tre anni e mezzo fa, negli insediamenti ebraici di Gaza che contano 7800 coloni, ci sono stati 26 morti e centinaia di feriti in seguito a bombe o attacchi armati. I ragazzi si spostano in pulmini blindati da quando, nel novembre del 2000, uno scuola-bus venne assaltato con delle granate da militanti palestinesi.
«Ma questa è la nostra terra e da qui non ce ne andremo mai», è il ritornello che ci sentiamo ripetere da tutti quelli che incontriamo. A Neveh Dekalim vivono 300 famiglie con numerosi bambini, in tutto 2 mila persone. Il nome significa Oasi delle palme e in effetti è un'isola di verde in mezzo al deserto. Ci si arriva percorrendo una sopraelevata che attraversa i territori palestinesi, un corridoio fortificato con muraglioni, barriere ad allarme elettronico e torrette di guardia in mezzo a poveri villaggi arabi e accampamenti di beduini.
Poi, di colpo, le dune di sabbia cedono il posto alle palme e alle aiuole fiorite, in alto sventola la bandiera bianco-azzurra con la stella di David e sui cartelli segnaletici c'è il simbolo del sole e della spiaggia ad indicare il m are che sta a due passi. Debbie Rosen è arrivata qui vent'anni fa e ne parla in termini entusiasti: «È un'esperienza meravigliosa di solidarietà: religiosi e non credenti, veterani dal Sinai e nuovi immigrati, viviamo tutti in grande armonia».
E con i vicini palestinesi? «Fino al 1993 fa siamo sempre andati d'accordo, non c'erano problemi. Poi c'è stata l'intesa di Oslo ed è scoppiata la guerra che non è ancora finita». Sì, dice proprio così. Non la pace ma la guerra di Oslo, un nome che per questa gente significa «resa alla violenza». Neveh Dekalim è un mondo alla rovescia, difficile capirne la logica.
A suo modo la signora Debbie, sorriso gentile e vezzoso cappellino rosso, cerca di aiutarci. Come responsabile delle pubbliche relazioni di Gush Katif, l'area che comprende le colonie ebraiche di Gaza, un striscia dentro la Striscia, ci fa omaggio di depliant che ne illustrano in dettaglio la fiorente agricoltura (Katif significa raccolto), le industrie alimentari, le numerose Yeshivà (le scuole religiose), le magnifiche serre. C'è perfino uno zoo. Insomma, una comunità felice se non fosse accerchiata dal nemico. Ma adesso c'è una minaccia più grande e inaspettata. Non proviene dai palestinesi ma da Israele, dall'uomo che fino a poco tempo fa si proclamava il difensore degli insediamenti ebraici ed ora ha intenzione di ritirare tutti i coloni da Gaza. Come mai? «Lo chieda ad uno psichiatra - è la gelida risposta di Debbie - Sharon dev'essere mentalmente disturbato».
Sotto le palme di Neveh Dekalim nessuno prende in seria considerazione l'idea di andar via. «Sono arrivato qui dodici anni fa e da allora questa storia del ritiro l'avrò sentita decine di volte», dice Ariel Pozad, ebreo francese, manager della ditta Bikurey Katif che esporta prodotti agricoli locali in mezza Europa. Ha appena deciso d'allargare l'azienda, non sembra affatto preoccupato per il "piano di disimpegno" di Sharon. «Finora non c'è stata alcuna informazione ufficiale, nessun preallarme di sgo mbero - assicura Debbie -. Il ritiro non ci sarà, né a giugno né mai».
Vi sono voci secondo cui ogni famiglia riceverà l'equivalente di 400mila euro per ricostruirsi una vita da un'altra parte. «Mai sentito nulla del genere. Io da qui non mi muovo. Figurarsi, sto ancora pagando il mutuo per la casa», è la sbrigativa risposta di una giovane mamma ortodossa, lunga sottana nera e sei bimbi.
Tutti ostentano grande tranquillità e indifferenza. «Perchè mai dovremmo andar via? - si domanda l'imprenditore d'origine francese - Il terrorismo non finirà di certo perché lasceremo Gaza, anzi Hamas canterà vittoria e intensificherà gli attentati suicidi. Quando i primi coloni sono arrivati qui c'era solo sabbia, non hanno rubato niente a nessuno. Questa non è terra palestinese, qui fino al 1967 era Egitto. L'idea di Sharon è completamente sballata».
Si diceva così anche nei primi anni Ottanta, quando in seguito al trattato di pace tra Israele ed Egitto Begin diede ordine di smantellare le colonie del Sinai. A Neveh Dekalim c'è un memoriale dedicato a Yamit, l'insediamento ebraico distrutto dai bulldozer israeliani nel 1982. È una tragedia - ricorda Roni Bakshy, uno dei tanti che fu costretto a trasferirsi nella Striscia di Gaza -. Ma non ci sarà un'altra Yamit. Mio figlio è sotto le armi e mi ha già detto che se ci sarà l'ordine del ritiro difenderà la nostra casa fino alla morte». Sotto sotto la paura c'è. «Paura? Noi ci conviviamo da sempre», minimizza Hamid, il responsabile della sicurezza mentre mostra pezzi di missili anti-carro e razzi Qassam che quasi ogni giorno piovono sull'insediamento.
Per contrastare l'altra minaccia più grave, quella del ritiro, non servono gli Uzi e gli M-16 che molti civili portano a tracolla. Per ora si affidano agli striscioni di protesta su cui sta scritto: «Ritirarsi da Gaza è dare più forza al terrorismo!». L'ha pronunciata Sharon qualche anno fa. Ariel Pozad ha avuto un'idea: dentro le confezioni di pomodori e carote che andranno a fini re nei supermercati d'Israele ci mette un volantino che riporta quella frase. Sperando di convincere i tiepidi connazionali di Tel Aviv o di Haifa, stanchi di pagare, in soldi e vite umane, per i coloni di Gaza.
Il pezzo che segue dimostra invece che Geninazzi la storia la conosce, come si deduce da una breve nota pubblicata accanto al testo principale. Il che ci convince ancora di più che il pregiudizio anti-israeliano che pervade i suoi articoli non è dettato da ignoranza ma da vero astio, ovvero pregiudizio.
Ecco la nota storica:

Se pensate che la Striscia di Gaza, a differenza dei Territorio in Cisgiordania (l’antica Giudea e Samaria), non abbia alcun legame storico con l’ebraismo, sareste subito smentiti dai coloni. «Questa è Eretz Israel, terra d’Israele», dicono orgogliosi. A Gaza, una delle più antiche città del mondo, transitarono Abramo e Isacco. Fu qui che avvenne il famoso episodio biblico di Sansone che fece crollare le colonne cui era legato per uccidere i Filistei (ma probabilmente i martiri-suicidi palestinesi non vi si riconoscono). E qui passava il confine meridionale del regno d’Israele all’epoca di Salomone. Nella città di Gaza si può ancora ammirare la Grande Sinagoga, testimonianza della presenza ebraica lungo i secoli. Non resta più traccia invece di cristianesimo e monachesimo primitivo dopo che gli arabi s’impadronirono della città trasformandola in una roccaforte dell’islamismo.
Secondo il piano di spartizione dell’Onu del 1947, Gaza sarebbe dovuta entrare nello Stato di Palestina. Gli arabi rifiutarono e così la zona passò sotto la sovranità egiziana fino alla guerra di Suez del 1956.
Riempitasi di profughi palestinesi, venne amministrata dall’Onu fino al 1967, quando scoppiò la guerra dei Sei giorni e fu occupata dall’esercito israeliano. Da quel momento nella Striscia di Gaza incominciarono ad insediarsi i primi «pionieri sionisti». Nel 1994, in seguito agli Accordi di Oslo, passò sotto l’amministrazione dell’Autorità nazionale palestinese. E per le colonie ebraiche tutto divenne più difficile.
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