domenica 24 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Libero Rassegna Stampa
07.04.2004 Toh, guarda, non è Lilli Gruber
cominciamo a capire quello che succede

Testata: Libero
Data: 07 aprile 2004
Pagina: 1
Autore: Francesco Ruggeri
Titolo: «La Bagdad che nessuno vuol raccontare»
Riportiamo il primo reportage sull'Iraq di Francesco Ruggeri, pubblicato su Libero di oggi, mercoledì 7 aprile.
Non ci ricorda Lilli Gruber.

Bagdad. «Excuse me, where is the war?», dov'è la guerra? È cominciata così, con una domanda ingenua la nostra seconda avventura in Iraq, un anno dopo la caduta di Saddam. L'abbiamo rivolta a tutti, dai driver all'interprete, dai comuni cittadini ai poliziotti dell'Icdc ai mercenari della security e di straforo anche ai soldati. Senza risposta. Quasi una replica della parodia sul west di Mel Brooks. Guardandola dai tg italiani pareva che la situazione dovesse essere esplosiva, le città irachene in fiamme, l'atmosfera tesa come corda di violino. Sparatorie e deflagrazioni a ogni angolo. «Sarà più pericoloso delle bombe», ammonivano amici e parenti prima della partenza, convincendoci a mettere in valigia un giubbetto antiproiettile, prestato da un collega delle guardie del corpo di Feltri: «non vedi che i giornalisti ce l'hanno tutti?». Il tempo d'appiccicare un'artigianale scritta "press", ed eccoci sull'autostrada Amman Bagdad, superato il doppio confine Al-Ruweishid Trebil. Il viaggio è lento, seguiamo un pullman di linea. Dodici ore di noia assoluta. Niente americani in giro, niente camionette Humvee a sfrecciare sul nastro d'asfalto a tre corsie, né elicotteri Chinook e Apache a rombare sulle nostre teste. Nemmeno un misero check point, sui 420 km dalla Giordania alla capitale. Scom- parsi pure gli scheletri dei veicoli sul tragitto, vestigia di un conflitto all'apice un anno fa. All'alba sfiliamo Fallujia, e ancora domandiamo con impa- zienza: ma dov'è la guerra? Un'oretta dopo l'ingresso a Bagdad, dove ad accoglierci, invece che un posto di controllo troviamo un familiare ingorgo mattutino, modello Milano tra le 7 e le 9. Nel serpentone immobile i giovani ascoltano la radio, gli altri parlano, ridono, fumano spaparanzati col braccio fuori dal finestrino, manco al ritorno da una gita. I mezzi militari, nell'infernale traffico di Bagdad non potrebbero fisicamente passare. Per trovare le prime insegne belliche bisogna arrivare in piazza Al Firdous (quella del monumento di Saddam), alla soglia della "green zone", compound occidentale il cui accesso è inter- detto alla popolazione. Sullo sfondo si stagliano alte le sagome dei grandi alberghi, Al Rashid, Palestine e Sheraton. Per riuscire a prendere alloggio in quest'ultimo superiamo infinite misure antiterrorismo, dai detector a paletta al cane (...) ( segue a pagina 2) (...) sniffatore (con padroncina yankee al sole in bermuda), facendoci largo nella gimcana di griglie buca-ruote, contenitori di cemento e blocchi vari. Qui gli uomini in armi abbondano, accanto a carri armati col cannone puntato alla strada, semoventi e soldati da mezzo mondo, in divisa e non. Come per magia, nel cielo torrido compare una coppia di Apache, sfiorando il tetto panoramico del 16° piano dell'hotel. Sembrano aquile che difendono il nido. Ecco finalmente la guerra, pensiamo, in un misto di sollievo e paura. E invece no. Ci vuol poco a capire che l'impressionante schieramento non è quello tipico di un esercito d'occupazione, bensì di un contingente assediato. Che difende con le unghie e i denti una minima porzione di spazio vitale in un vasto mare ostile fuori controllo. O meglio, lasciato fuori controllo. La scia di sangue deve aver convinto gli americani a ripiegare su una strategia di contenimento. Girando da un capo all'altro di Bagdad giornate intere si contano, ignorati, non più di una ventina di soldati a stelle e strisce, i più asserragliati dentro alte torrette in qualche svincolo importante. Scusi, dov'è la guerra? Solo un paio di volte si intravedono tank in pattugliamento lontano dalla green zone. Il grosso del contingente americano è barricato dentro una base esterna, il cui cruento stemma "Muleskenner" allude a sgozzatori di muli. Ma più che feroci assassini, questi G.I. americani sembrano e sono ragazzini spaventati. Vengono dal profondo Midwest (provincia diremmo noi). Ad esempio Rochester, Minnesota: «Do you know it?», la conosci, chiede il biondo sergente, mentre sogna la nostra Milano della moda (Beautiful!), e non aspira che a portare a casa la pelle. Sussurra a mezza bocca che l'Interceptor, il giubbotto con piastre in ceramica anti Kalashnikov, gliel'hanno spedito i genitori, e che l'Humvee lo stanno sostituendo col più corazzato Stryker e forse il verde dei tank col sabbia mimetico. Piccole sottovalutazioni, che potevano però fare la differenza per tante vittime americane. Siamo nell'ascensore dello Sheraton, qui non sente nessuno. Il giovane sergente va sul tetto, a far da guardia agli ultimi tre piani, trasformati dalle tivù americane in mega redazione around the clock con ristorante privato, generatori d'emergenza, e decine di guardie del corpo civili persino dal Nepal, a contratto per la Kellog Brown and root. Da lì non escono se non per ritirare pacchi allo sportello della Federal Express aperto al piano terra. Oppure per il collegamento in piazza al Firdous. Non dimenticando di indossare ad arte il giubbetto antiproiettile, per dare l'immagine della guerra insieme alle sequenze di elicotteri in volo, girate in un'intera giornata di riprese fisse dalla finestra dell'albergo. In realtà il posto più pericoloso di Bagdad sono proprio gli alberghi con gli occidentali: la nostra prima notte in città un razzo colpì il 6° piano dello Sheraton, tre sopra di noi, e l'Al Rashid. Per questo la green zone è isolata, e per il silenzio irreale la chiamano the bubble, la bolla. Nel resto della metropoli il giubbetto non serve. La stessa guida irachena mi prende in giro, ipotizzando che per il fatto d'esser qui, in Italia mi ritengano un eroe. Certo, non vogliamo sostenere che il pericolo non ci sia. Se ti trovi nel posto e al momento sbagliato, per morire basta un attimo. Ma Bagdad è una metropoli estesa decine di chilometri, e se c'è uno scontro a fuoco contro una sola banda di sciiti nell'enorme sobborgo di Sadr City e tu sei in città, è come stare a Manhattan durante un fattaccio nel Bronx: se non guardi il notiziario non te n'accorgi. Strategia della disinformazione Quanto agli attentati o alle pallottole vaganti, il paragone è più con Gerusalemme che con Beirut o Saigon. O con la Palermo mafiosa. Cosicché, mentre i media invadono le case americane ed europee con scenari da tregenda, vi garantiamo per averlo constatato de visu, che la stragrande maggioranza del popolo di Bagdad vive nel frattempo una vita più che normale. E non sembri irriverente, ma di questi tempi, più che dalla febbre della guerra sembra pervaso da frenesie sinora semisconosciute, quali lo shopping e lo svago. Uno 007 lo definirebbe "perception management". Al Pentagono la chiamano disinformazione, e stanno creando un network da 6.3 milioni di dollari (sigla DVIDS) per diffondere notizie e video in proprio. Insomma per mostrare gli aspetti positivi del rinato Iraq, taciuti dalla stampa. Tale è anche l'intento di "Libero", e il modo più obiettivo per farlo era dal basso, ovvero calandosi di persona nel trantran quotidiano di una tipica famiglia irachena. Non un nucleo benestante ma nemmeno dei disperati alla fame, categoria che non manca altrove. Finchè Alì e Fatmah ci hanno aperto le porte della loro casupola, al civico n.27 di una viuzza secondaria nel quartiere semiperiferico di Al-Khar rada. Oltre al patriarca e a sua moglie, in quella modesta dimora abitano ben sei figli di età fra i 12 e i 24 anni. Uno straordinario caleidoscopio di opportunità e problemi dell'Iraq attuale. E cominciamo dalla prime. Il caso vuole infatti che la famiglia di Alì viva a due passi da una delle più lunghe vie commerciali della capitale, quella Al- Kharrada street che dalla fine della dittatura si è colorata di insegne luminose e moderni negozi. Nostro Cicerone nell'ultimo nato tra i "Suk" sul Tigri, il figlio maggiore Takwa, che ci guida tra banconi dall'odore molto più orientale che medio-orientale. Ma come piace il global La lingua ufficiale qui è il giapponese o in alternativa coreano e cinese, nel senso che le marche dei prodotti in vendita sono le principali dell'export dagli occhi a mandorla. Ma non manca neppure un italianissimo marchio quale DeLonghi. Televisori, videoregistratori, Dvd, antenne satellitari, cellulari da taschino, playstation, modem per internet, freezer, condizionatori, lavatrici, robot da cucina e via elencando. I consumatori iracheni devono recuperare trent'anni di astinenza. E si vede. Dalla quantità di scatoloni ancora imballati che vengono scaricati ogni giorno sui marciapiedi di Al Kharrada. E dai debiti che una famiglia come quella di Takwa sta contraendo con amici e parenti ricchi per potersi iscrivere alla corsa all'acquisto. Il fatto di essere islamici stranamente non li frena. E le tentazioni sono tante, basta guardarsi intorno. Lo stile di vita prima riservato ai papaveri della nomenklatura ormai è solo questione di portafogli, come in Italia, non più di potere. Mocassini italiani da 200 dollari? Li trovi al Roker Al-Anaka del non lontano quartiere di Al- Adhamiya. Un piatto di fettuccine o una pizza originale? Nell'esclusiva Arassat Al-Hindya street ha aperto il ristorante "Il Paese". Una partita a tennis o a squash? C'è il club Al-Alwyah, e in quanti ci giocano a ogni ora del giorno, proprio sotto le finestre dello Sheraton, mentre la sera si mangia a lume di candela con sottofondo musicale nel parco della piscina. Sempre in sottofondo, qualche scarica sorda o uno scoppio lontano ogni tanto arrivano, ma per non sentire basta alzare il volume. (1. continua)
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Libero. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.




redazione@libero-news.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT