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La Stampa Rassegna Stampa
06.04.2004 La globalizzazione dell'antisemitismo
in un'analisi di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 06 aprile 2004
Pagina: 26
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Contro Israele l’antisemitismo globale»
Riportiamo dalla Stampa di oggi una sintesi del discorso che Fiamma Nirenstein ha tenuto a Montreal alla Conferenza su «La dimensione globale dell’antisemitismo».

Per tre anni e mezzo giornalisti, scrittori, politici, gente legata a differenti organizzazioni non hanno fatto che discutere l’enorme sconcerto, lo stupore, il dolore, di fronte al diffodersi di un nuovo antisemitismo globale... Non lo voglio descrivere qui, l’ho già fatto altrove; mi sono molto diffusa sul divorzio a partire dal 1967 fra la cultura di sinistra, cui appartengo storicamente come la maggior parte degli italiani della mia generazione, e Israele. Il rifiuto arabo, la campagna terrorista dopo l’ennesimo no di Arafat nei confronti di Mubarak a Camp David, le difficoltà di combattere una guerra senza precedenti contro il terrorismo e l’incitamente a uccidere gli ebrei che ha accompagnato la scelta di Arafat... tutto questo ha fatto da cornice a un crescente odio nei confronti di Israele e di tutto quello che le è connesso, ovvero gli ebrei del mondo intero.
Non si trattava di critica a Israele, ma di pregiudizio, di odio, di antisemitismo: e il ministro israeliano per la diaspora Nathan Sharanskj, l’ex refusenik che ha imparato sulla sua pelle l’antisemitismo totalitario, ha definito e portato molti esempi delle «tre D» che mettono l’ebreo collettivo, Israele, al centro dell’odio antiebraico odierno; demonizzazione, doppio standard e denial, la negazione del diritto di esistere di uno Stato ebraico. L’Europa, sulla scia del Mondo Arabo, ha seguitato a negare per tre anni (dall’inizio dell’Intifada) che si trattasse di antisemitismo, sostenendo che questa era legittima critica della politica di Israele, o del perfido Sharon. Non destava sospetti che tale critica si esprimesse nelle caricature di Sharon nudo che mastica bambini palestinesi il cui sangue gocciola sul suo petto.
Oggi, tre elementi fondamentali vanno messi in rilievo. Primo: quando era del tutto evidente l’ondata antisemita, il diniego europeo è stato deciso tanto da rallentare enormemente la reazione, dando il tempo al fenomeno di diventare enorme. Secondo: l’enorme mole di elaborazione spesa su questo, la massa di articoli, di libri, di convegni, di risoluzioni... ha cambiato lo stato della conoscenza. Oggi si ammette che l’antisemitismo è un problema; che la sua prima fonte di importazione che ha trovato fertile terreno nelle antiche radici europee è tuttavia, oggi, l’islamismo estremo, che genera anche il terrorismo. Terzo: Israele è il cuore dell’attacco antisemita, il conflitto è stato letto attraverso una lente deformante a causa della mole immensa di propaganda araba, e della sua alleanza con i movimenti antiglobal e antiamericani. Ma, per la prima volta nella storia dell’umanità, gli ebrei si trovano a combattere con il loro Stato a fianco, uno Stato che ha un ministero per la lotta all’antisemitismo. E’ la prima volta nella storia che l’ebreo non è solo: e Israele è un corpo democratico, moderno, influente, la cui voce è moralmente e strategicamente ascoltata dai presidenti degli Usa (da Clinton a Bush), non come un risultato di una lobby (gli arabi ne hanno una più danarosa e più vasta) ma per il retaggio morale ebraico e il suo incredibile successo nell’economia, l’arte, le scienze pure nello scontro quotidiano con terribili nemici. Mai prima d’oggi l’antisemitismo è stato un argomento di controversia diplomatica ai livelli governativi e dei forum internazionali. Per la prima volta è un problema che investe rapporti economici, o militari, o di intelligence. Ora i rappresentanti eletti del popolo ebraico possono puntare ufficialmente un dito accusatore contro le risoluzioni e i documenti nell’assemblea generale dell’Onu; o contro la Comunità Europea. L’aiuto esterno, che gli ebrei della diaspora se ne rendano conto oppure no, dona loro una forza senza precedenti.
Tutto questo ci porta all’ultimo punto, quello strategico: la globalizzazione dell’antisemitismo va di pari passo con i suoi altri grandi problemi, sta dentro le sue contraddizioni, ed è qui che bisogna considerarla e combatterla. Il segnale di tromba lo si ha non a caso a Durban, nel 2001, quando una conferenza dell’Onu contro il razzismo si trasformò in una conferenza razzista contro Israele. Con un ritorno alla risoluzione Onu del 1975 «sionism is racism», si attruirono a Israele tutte le colpe del mondo moderno: pulizia etnica, razzismo, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, apartheid. Ciò ricorda quello che Emile Fakenheim scriveva: prima si dice «non puoi vivere fra noi come ebreo»; poi «non puoi vivere fra noi»; e infine «non puoi vivere». Nelle strade d’Europa si sono viste scritte parallele e opposte a quelle degli anni ‘30: allora si scrisse «Gli ebrei in Palestina»; oggi: «Fuori gli ebrei dalla Palestina»: una specie di «destinazione, il nulla».
In nome dei diritti umani, il messaggio globale di moda è divenuto quello della negazione che Israele appartenga alla famiglia delle nazioni, ma che sia uno stato criminale così come gli ebrei sono una nazione criminale. Questa fantasia nata nel palazzo dei sogni dell’estremismo arabo, si è innestata sulla crisi della globalizzazione europea: la fantasia sulla fame di potere degli ebrei ha sposato le teorie del complotto bellicistico giudaico americano post 11 settembre, si è accoppiato con il senso di colpa postcoloniale e con l’ira antiglobale antimperialista.
Un’Europa ossessionata dal problema dell’egemonia americana e dalla paura della guerra, incapace di perdonare agli ebrei di essere stata la sua vittima nella Shoah, ha accettato l’antisemitismo come pegno. Eppure, troppi cristiani sono stati assassinati in tante parti del mondo, gli americani sono stati attaccati, l’Europa si è trovata popolata da cellule terroristiche, Madrid ha pianto duecento morti. Questo, mentre facevamo di tutto per dimostrare che il mondo è più piccolo e più unito, più integrato, capace di superare le differenze. I milioni di musulmani che vivono a Londra, Parigi, Roma, hanno sucitato molte speranze. Ma ecco che si è mostrato il grande rift: l’idea di una umanità unita è retaggio occidentale, non necessariamente di altre culture. Molti musulmani vedono l’unificazione come un rischio di egemonia imperiale. Molti hanno tratto dall’esperienza nei paesi occidentali disprezzo e disgusto. Sessualità, ruolo della donna, diritti civili, decenza, onore... Le differenze sono diventate motivo di frattura.
All’inizio l’Europa ha fatto poca attenzione all’antiamericanismo-antisemitismo promanante da parecchie moschee. L’Europa, sempre pronta per l’antisemitismo e l’antiamericanismo, pure non è mai stata pronta ad ammetterli. Un vero antisemita esce, per la storia Europea, dalla dimensione della decenza, nessuno che sia antisemita è un vero candidato per la leadership, o nemmeno un invito a cena in una casa come si deve. Perdi la credibilità post 1945 dei diritti umani e civili se ti associ all’idea che gli ebrei e Israele siano assetati di sangue, la scoperta di essere diventati antisemiti è un lusso che solo i regimi totalitari arabi si possono permettere.
Una democrazia europea non può: la generale cultura dell’integrazione si è presentata invece, nel tempo, con questa macchia sempre più indecente, il suo senso comune si è macchiato di antisemitismo e terrorismo. Se le istituzioni e gli intellettuali che l’hanno permesso saranno finalmente costretti a ammetterlo, la battaglia non è del tutto perduta: approfondire le contraddizioni dell’attuale società globalizzata, criticarne la confusione fra vittime e aggressori, e valorizzare i segnali di consapevolezza (ormai tanti in Europa, congressi internazionali, incontri fra Paesi), affondare la spada nella follia delle istituzioni globali create quasi apposta per criminalizzare Israele, monitorare le istituzioni internazionali cadute preda di ideologie antiamericane, segnalare il rapporto fra antisemitismo e sviluppo del terrorismo in Europa... Tante cose si possono ancora fare. Studiare l’Olocausto? Questo è un tema a sé stante. A un fulmineo approccio, la sensazione è che non sia servito quanto si sperava.
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