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La Stampa Rassegna Stampa
29.03.2004 Sulla democrazia in Medio Oriente
la posizione del governo americano

Testata: La Stampa
Data: 29 marzo 2004
Pagina: 7
Autore: Maurizio Molinari
Titolo: «Democrazia in Medio Oriente. Due ricette del governo Bush»
Un articolo come sempre bene informato ed accurato quello di Maurizio Molinari sulla Stampa. Lo riportiamo integralmente.
Chiedere le riforme ai leader degli Stati arabi o scommettere sul successo della ricostruzione in Iraq per diffonderle «dal basso»: è questo il bivio strategico di fronte al quale si trova l'amministrazione Bush, alle cui spalle c'è un pensatoio di islamisti che se un anno fa era compatto nel condividere la necessità di rovesciare Saddam Hussein, oggi è protagonista di un vivace confronto su quale sia la ricetta migliore per promuovere la democrazia nel mondo arabo. L'oggetto della contesa è l'iniziativa per il «Grande Medio Oriente» - la regione fra il Marocco e il Pakistan - che il Segretario di Stato, Colin Powell, sta discutendo con i partner in vista del summit del G-8 di giugno, incontrando difficoltà e resistenze. Il testo che circola prevede iniziative economiche e sociali per rispondere ai tre deficit del mondo arabo - libertà, istruzione e diritti delle donne - documentati dai rapporti dell'Onu del 2002 e 2003, e apre la strada a progetti come una Banca per lo sviluppo regionale e all'uso di contingenti multinazionali (Nato, ma non solo) per stabilizzare le aree di crisi. Lo scontro fra sostenitori e oppositori di questo piano è serrato e avviene sul terreno dell'interpretazione di quanto sta avvenendo dopo la caduta di Saddam Hussein.
«Vi sono due modi di confrontarsi con il terrorismo, cavalcare la tigre come tentano di fare gli europei e domarla come si propone Bush», dice l'intellettuale iraniano Amir Taheri, direttore di «Politique Internationale» a Parigi e con un'agenda fitta di appuntamenti a Washigton, secondo il quale «l'iniziativa del Grande Medio Oriente vale tanto quanto il "terzo cesto" degli accordi della Conferenza di Helsinki che nel 1975 promosse il rispetto dei diritti umani oltre la Cortina di Ferro, ponendo le basi per il crollo dell'Urss». Questa è la tesi cara a Condoleezza Rice, consigliere per la Sicurezza nazionale del presidente Bush, una cremlinologa formatasi negli anni della Guerra Fredda. Ma sul fronte opposto c'è il libanese Fuad Ajami, arabista della Johns Hopkins University e collega accademico di vecchia data del vicecapo del Pentagono, il neoconservatore Paul Wolfowitz, che ha recentemente accompagnato in Iraq. «Contro questo piano di Bush si è costituita un'alleanza fra Egitto, Arabia Saudita e Siria - spiega Ajami - tre grandi Paesi che sommano oltre cento milioni di abitanti: uniti sono capaci di resistere per lungo tempo a qualsiasi pressione esterna per evitare di fare delle riforme all'interno». L'iniziativa dell'amministrazione è «morta prima di nascere», assicura Ajami, secondo cui è lo stesso capo della Casa Bianca che la sta indebolendo per eccesso di Realpolitik: «Il 13 aprile il Presidente riceverà nel ranch di Crawford il presidente egiziano Hosni Mubarak, un despota assoluto, nemico di ogni cambiamento, spietato con l'opposizione al punto di creare uomini come Ayman al-Zawahiri e intenzionato adesso farsi succedere dal figlio; stringendogli la mano Bush manderà agli arabi il messaggio che la pax americana è morta, che non c'è nessuna rivoluzione democratica in vista».
Il duello fra le scuole di pensiero rappresentate da Taheri e Ajami (ovvero la Realpolitik della Rice e l'idealismo di Wolfowitz) tiene banco nei centri studi e disegna due possibili strategie d'azione. Per Taheri al fine di «drenare la palude araba dal terrorismo di matrice sunnita salafita» il G-8 che si terrà a Sea Island, in Georgia, non dovrà lesinare «pressioni sui governanti» e «risorse per i governati» alternando la «riduzione di aiuti economici e militari a quei regimi che opprimono le libertà come Egitto, Siria ed Arabia Saudita» e «finanziamenti a quelle organizzazioni non governative che si battono per il rispetto dei diritti di libertà e, in particolare, delle donne». Ajami invece non crede nel dialogo con le grandi capitali arabe, guarda in tutt'altra direzione: «La partita delle riforme si combatte e si vince non con pressioni esterne, come fece Napoleone con il discorso rivolto agli egiziani sconfitti nel 1798, ma facendo partire il cambiamento dall'interno; se la ricostruzione in Iraq avrà successo sarà l'esempio cui altri popoli della regione si vorranno richiamare».
Il volume «Occidentalism», scritto da Ian Buruma e Avishai Margalit, porta acqua a questo mulino sostenendo che «l'Occidente non è in guerra con l'Islam ma l'Islam è in guerra con se stesso» a causa del conflitto interno fra riforma e conservazione. Ajami è convinto che «il conflitto interno non inizierà certo con le pressioni esterne, che anzi faranno chiudere a riccio le nazioni arabe». Per scardinare l’ostilità alle riforme, suggerisce, non c'è nulla di meglio dei «domino democratico» dei neoconservatori. «I veri nemici della ricostruzione in Iraq sono egiziani e sauditi perché se fallirà avranno facile gioco a dire che libertà equivale ad anarchia, che si vive più sicuri al Cairo e a Riad che a Baghdad, Bassora e Fallujah». Il siriano Farid Ghadry, promotore del «Fondo per la difesa della democrazia» e figura emergente a Washington fra gli oppositori del presidente Assad, è convinto che, indipendentemente dalla strada, scelta l'impegno americano per i diritti di libertà nel mondo arabo è destinato a essere coronato dal successo: «Gli arabi vivono dietro un muro di paura, appena possono dimostrano di voler essere protagonisti delle loro vite e corrono a votare come hanno fatto recentemente 1,5 milioni di giordani, siriani e libanesi usando telefoni, cellulari ed e-mail per scegliere il cantante preferito, ciò che conta è che Bush non si fermi».
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