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La Stampa Rassegna Stampa
29.03.2004 Fa male Quirico a non voler sapere
così non saprà mai chi uccide veramente i bambini

Testata: La Stampa
Data: 29 marzo 2004
Pagina: 7
Autore: Domenico Quirico
Titolo: «Nelle terre dell'odio dove uccidono i bambini»
Molto ambiguo l'articolo di Domenico Quirico sulla Stampa di domenica 23.3.04
Patetico oltre misura, deamicisiano, per Quirico sembra che non ci siano responsabili del terrore che stermina e uccide. Sono tutti colpevoli allo stesso modo. Il che equivale a nessun colpevole.
Ecco l'articolo:

SONO passati quattro anni da quando Mohammad morì a Netzarim e il mondo, vedendo scorrere le immagini di quel corpo riverso sulla ginocchia del padre dietro un muretto che non l’aveva protetto dai proiettili assassini, pensò che l’orrore della Palestina avesse trovato il suo simbolo definitivo, assoluto. Quattro anni. E’ orribile quando i simboli si smaterializzano, illanguidiscono, diventano banali. Perché non feriscono più, cedono il campo alla rassegnazione. Khaled aveva sei anni, un’altra pallottola ieri gli ha rubato la vita in un tetro campo profughi di Nablus, un’altra scaglia di quella Palestina dove l’odio naviga a vele spiegate sulla superficie di un oceano di penuria. Anche un delitto simile ha diritto, purtroppo, a una spiegazione: infuriava un rastrellamento di «terroristi» palestinesi da parte di soldati israeliani. Tra le straducole della bidonville è difficile distinguere, ragionare, scegliere dove sparare. Eccole le immagini di allora: il padre che tiene in braccio il fagottino insanguinato, la madre che urla la sua disperazione impotente.
Cambiamo scenario. Tikrit è la città natale di Saddam Hussein, il caposaldo degli irriducibili, un posto dove l’odio per i liberatori è fresco come il primo giorno di guerra. La prosa indifferente del rapporto militare stilato da un imbarazzato ufficiale americano dice: l’automobile non si è fermata al posto di blocco. Sopra c’erano un uomo al volante, quattro donne, tre bambini. E’ vero: nell’Iraq degli agguati e dei massacri è difficile definire in pochi secondi la differenza tra un pericolo e un banale equivoco. I soldati hanno sparato, con metodo e precisione. Dai sedili rossi di sangue hanno tirato fuori il cadavere di uno dei bambini, tre anni. La madre avrebbe urlato: «Saddam era un terrorista? E allora questi che uccidono i bambini cosa sono?». Chissà: forse i testimoni hanno ricamato: troppa lucidità, troppa «politica» in quell’insondabile dolore.
All’Unicef tocca il compito, straziante, di fare le statistiche, di catalogare la brutalità che percorre il mondo sperando che ci impressioni. Ebbene ha contato fino al dicembre del 2002, inizio della seconda Intifada. Poi ha alzato le braccia: troppi nomi, troppe tragedie tutte eguali, quattrocentocinquanta minorenni vittime «collaterali» della guerra palestinese. Forse non si dovrebbe leggere la loro nazionalità, è un modo per ucciderli una seconda volta: sono 367 palestinesi, 82 israeliani e uno straniero. Li hanno uccisi il mortifero ronron di ogni bataglia, le pallottole vaganti, i proiettili dei carri armati, i razzi degli elicotteri che non sanno distinguere ahimè! tra colpevoli e innocenti; sono stati straziati dalle autobombe negli autobus e agli angoli delle strade magari portate da kamikaze che hanno solo una manciata di anni più delle loro vittime, terroristi a cui hanno insegnato a essere assolutisti nel loro odio, a volere tutto o niente. In Medio Oriente non c’è posto per Gavroche, il bimbo che muore volontariamente sulle letterarie barricate dei «Miserabili»: qui si muore per sbaglio, senza volerlo.
Per favore, non vogliamo sapere chi li ha uccisi, se la pallottola era israeliana o palestinese, se il cecchino incapace aveva un divisa e sparava per difendersi o aveva la kefiah e cercava un invasore qualunque da eliminare. Non vogliamo sapere se il bambino era in strada o affacciato per curiosità alla finestra di casa, non ci interessa se anche a loro, così piccoli, subdoli maestri avevano già raccontato che ammazzando un ebreo o un americano si conquista il paradiso e si diventa «shahid», martiri. O se qualcuno racconterà all’assassino che alla fine la santità della Jihad cancellerà anche queste colpe e questi terribili errori. Khaled non doveva morire, Mohammad non doveva morire, il piccolo iracheno aveva il diritto di continuare a giocare, a ridere, a sognare. Forse un giorno l’Iraq diventerà davvero un altro Paese, quello raccontato nei documenti dell’Onu. Forse un giorno palestinesi e israeliani non sogneranno più di scannarsi con metodo. Ma loro non ci saranno.
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