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La Stampa Rassegna Stampa
07.03.2004 Ecco la posizione della sinistra israeliana
ma il titolo è squilibrato rispetto all'articolo

Testata: La Stampa
Data: 07 marzo 2004
Pagina: 5
Autore: Avraham B.Yehoshua
Titolo: ««Le colonie nei Territori sono la macchia d'Israele»
Avraham B.Yehoshua, il famoso scrittore israeliano la cui opera è tradotta in italiano da Einaudi, è anche un esponente di primo piano della sinistra israeliana. La Stampa pubblica sovente suoi articoli sul conflitto con i palestinesi. La sua opinione è sempre interessante, anche se discutibile, come tutte le opinioni. Da notare semmai è che la Stampa non ha MAI pubblicato un intervento di un altro scrittore che avesse posizioni politiche diverse. Pubblichiamo il pezzo di A.B.Yehoshua, invitando a leggerlo e poi valutare se il titolo che la Stampa gli ha dato sia quello che meglio può far comprendere il contenuto. A noi non sembra, ci pare piuttosto una sentenza tribunalizia. Se anche i nostri lettori lo pensano li invitiamo a scriverlo al quotidiano torinese.
Ecco l'articolo:

IL nuovo termine che si sta affermando nell'arena politica mediorientale in seguito alla costruzione della barriera di sicurezza e al piano del capo del governo israeliano Sharon di un ritiro parziale dai territori è: unilateralismo.
Ricordiamo che alla fine della guerra dei sei giorni - nel giugno 1967 - il consiglio di sicurezza dell'Onu approvò all'unanimita' la risoluzione 242, che ancora oggi rappresenta il punto di partenza per un qualsiasi accordo fra palestinesi e israeliani. E così, in breve, recita quella risoluzione: la guerra del giugno 1967, ingaggiata da Israele contro Egitto, Siria e Giordania, portò lo stato ebraico alla conquista di territori appartenenti a quelle nazioni ed era giustificata dalla necessità di difendersi dalle minacce di aggressione di quegli stati e dal concentramento di truppe contro di esso. Il consiglio di sicurezza dell'Onu non chiede quindi a Israele di ritirarsi incondizionatamente dai territori conquistati ma di farlo solo dopo la firma di un accordo di pace con gli stati arabi e l'adozione di appropriate misure di sicurezza quali la smilitarizzazione dei territori, la limitazione del numero di truppe autorizzate a presidiarli e la rimozione di armi pesanti.
In un primo tempo gli stati arabi respinsero quella risoluzione pretendendo il ritiro immediato dell'esercito israeliano e si rifiutarono di condurre negoziati diretti con lo stato ebraico. Quel rifiuto segnò l'inizio di lunghi anni di ostilità e di scontri bellici fino alla guerra dello Yom Kippur, dopo la quale vennero avviati negoziati che si conclusero con la firma di un accordo di pace definitivo con l'Egitto, basato sulla risoluzione 242.
Sul fronte israeliano tutti gli schieramenti politici accettarono il principio che un ritiro totale, o parziale, dai territori conquistati sarebbe avvenuto solo dopo la conclusione di un negoziato diretto con la controparte araba e la firma di un accordo che garantisse pace e sicurezza. L'idea di un'iniziativa unilaterale era infatti ritenuta inaccettabile, giacche' sarebbe stato come ammettere che non solo la guerra dei sei giorni non era stata un legittimo atto di difesa ma che analoghi comportamenti aggressivi da parte araba avrebbero potuto dar frutti in futuro. E poichè in seguito a un accordo di pace Israele avrebbe restituito dei territori mentre gli arabi si sarebbero limitati a firmare una semplice dichiarazione d'intenti, sembrava che quel principio (territori in cambio di pace) non fosse solo vitale ma anche moralmente giusto.
Gran parte dei sostenitori della sinistra (e io fra loro) ha accettato questo principio, eccezion fatta per chi, non credendo nella volontà degli arabi (soprattutto dei palestinesi) di concludere una pace vera con Israele e di riconoscere il suo diritto di esistere, sosteneva già negli anni settanta la necessità di un ritiro unilaterale e la fine dell'occupazione; una situazione che avrebbe potuto avvelenare moralmente la società israeliana.
I sostenitori della destra, o il blocco nazionale, come amano autodefinirsi, si sono sempre opposti a ogni iniziativa unilaterale. Non solo perchè non credevano nella volontà o nella capacità degli arabi di concludere una pace soddisfacente ma anche perchè ritenevano che il vantaggio strategico che i territori conquistati potevano offrire avrebbe garantito una pace «de facto» migliore di qualsiasi accordo.
Essendo però impossibile giustificare una posizione politica contraria a ogni negoziato, anche la destra sosteneva il principio del dialogo a condizione che i palestinesi ponessero fine agli atti di terrorismo e riconoscessero il diritto di esistere di Israele (ritenendo che quand'anche si fossero verificate queste condizioni le concessioni alla controparte sarebbero state minime).
Ma ecco che negli ultimi anni tale principio ha subito un'erosione non solo tra i sostenitori della sinistra ma anche tra quelli della destra. Il primo ritiro unilaterale concluso senza alcun accordo è avvenuto nel sud del Libano, nel 2000, e come conseguenza nella zona si è ristabilita una calma relativa. Ora si parla di un ritiro, o di una separazione unilaterale, anche dai territori occupati da Israele nel 1967.
Si sta dunque sgretolando uno dei principi da anni alla base della politica israeliana? Ha davvero ragione chi, soprattutto fra i sostenitori della destra, ma anche fra quelli della sinistra (come Yossi Beylin) vede in questa scelta una resa al terrorismo e un incitamento a nuove azioni di violenza? E’ plausibile prevedere che anche qualora tornasse la calma, sarebbe solo temporanea e non favorirebbe una soluzione a lungo termine?
Illustrerò la mia posizione sull'argomento e cercherò di motivarla.
Se lo stato di Israele non avesse creato degli insediamenti nei territori occupati ma vi avesse mantenuto solo dei presidi militari io sarei rimasto fedele al principio che un eventuale ritiro deve avvenire solo in cambio di un accordo e dell'impegno dei palestinesi di vivere in pace con Israele. Ma siccome sono stati creati degli insediamenti in violazione al principio della risoluzione 242 dell'Onu, è giusto che quegli insediamenti ora vengano smantellati.
Quale messaggio ha infatti trasmesso Israele stabilendoli? Che anche nel caso i palestinesi riconoscessero lo stato ebraico e si impegnassero a vivere in pace con esso, una parte dei loro territori non gli verrebbe mai restituita.
Un'eventuale presenza militare israeliana in un futuro stato palestinese sarebbe giustificata dal bisogno di garantire la smilitarizzazione della zona e di impedire il ricrearsi di nuove, pericolose, basi terroristiche. Tale presenza sarebbe limitata a un'area specifica, avrebbe uno scopo ben definito e una volta raggiunta la pace potrebbe essere smantellata. Così è stato nel caso di basi americane e sovietiche in diversi punti del mondo. Ma la presenza di civili implica significati diversi. In primo luogo non è giustificata dal bisogno di mantenere la sicurezza. In secondo luogo non previene gli atti di terrorismo, anzi, li incoraggia, rendendo necessario l'intervento di truppe militari a protezione dei coloni e creando così forti disagi alla popolazione locale. In terzo luogo, quando dei civili si stabiliscono in un luogo, non intendono abbandonarlo nel caso dovesse arrivare la pace. Il messaggio alla controparte quindi è che anche qualora si dovesse arrivare a un accordo il prezzo, in termini di territorio, è già stato pagato.
La costruzione di insediamenti, osteggiata da tutto il mondo (compresi gli stati amici di Israele) ha minato il principio alla base della risoluzione 242 dell'Onu - territori in cambio di pace - riconosciuto e accettato da tutta la sinistra israeliana. Da un punto di vista etico è quindi imperativo ora evacuare alcuni insediamenti senza esigere alcuna contropartita dai palestinesi. Nel momento in cui il ritiro verrà completato e un nuovo confine stabilito (per quanto non definitivo e concordato come vogliono i palestinesi), Israele riacquisterà il diritto morale di difendersi contro possibili aggressioni e atti di terrorismo.
Chi dunque si lamenta che nella situazione attuale eventuali concessioni unilaterali rappresenterebbero un «premio al terrorismo» (soprattutto fra i sostenitori della destra ma anche fra quelli della sinistra), deve rendersi conto che sono stati gli insediamenti, e non l'occupazione militare, a macchiare moralmente Israele. E anche i palestinesi che non sono disposti a concludere un accordo di pace fintanto che non verrà riconosciuto il loro diritto al ritorno dei profughi o altre rivendicazioni, devono rendersi conto che lo smantellamento degli insediamenti a Gaza e il ritiro dell'esercito cambierà lo stato delle cose. Se vorranno continuare a combattere devono aspettarsi reazioni più dure e intransigenti dagli israeliani e quindi farebbero bene a considerare con accortezza i loro passi. A giudicare dalle prime reazioni, piuttosto incoraggianti, sembra che anche i palestinesi più estremisti capiscano che un nuovo equilibrio sta per essere stabilito e ho quindi l'impressione che dopo un eventuale ritiro potrà tornare a regnare la calma nella regione (come nel caso del Libano) e non vi saranno nuove recrudescenze del terrorismo.

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