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Il Manifesto Rassegna Stampa
05.03.2004 Conoscere la storia per giudicare
è quello che non fa Santomassino

Testata: Il Manifesto
Data: 05 marzo 2004
Pagina: 13
Autore: Gianpasquale Santomassino
Titolo: «Le profezie dell'Occidente sull'Islam»
La prima parte dell’articolo è una disamina della percezione dell’Islam da parte dell’Occidente, uno sfoggio di erudizione. Non la riportiamo per la sua lunghezza, ma gli interessati la possono recuperare sul sito web del quotidiano comunista a questo indirizzo:

http://www.ilmanifesto.it/Quotidiano-archivio/04-Marzo-2004/art110.html

(...)
Ma eravamo appunto nel 1948, ed è a partire da questa data che sembra come intervenire un corto circuito in questa vicenda, con implicazioni su cui bisogna riflettere, e che sembrano mettere in discussione, per la prima volta nella storia, proprio questo tratto caratterizzante dell'Islam.
Nelle storie più diffuse dell'antisemitismo non si trovano cenni sull'Islam fino a questa data; e anzi l'Oriente è evocato per lo più quale luogo di rifugio dalle persecuzioni europee.
Non sappiamo quali "storie più diffuse dell’antisemitismo" siano a disposizione di Santomassino. Ma fanno parte della storia dell’antisemitismo episodi come quello del 627, quando i seguaci di Maometto massacrarono più di 600 ebrei, i passaggi del Corano sugli ebrei che seminano corruzione (Sura 5:64), e sono nemici di Dio (Sura 2:97-98). Ed ogni storia dell’antisemitismo riporta che fu un califfo di Baghdad, nel nono secolo, ad obbligare gli ebrei a portare un segno cucito sugli abiti – usanza ripresa, tra l’altro, nella Germania nazista. Ed ogni manuale di storia parla dei massacri del 1066 a Grenada, del 1465 a Fez, in varie città libiche nel 1785: migliaia di morti, ogni volta.
Nei secoli dello splendore dell'Islam l'irradiazione di comunità ebraiche tra Medio Oriente, Mediterraneo, Europa orientale, creata nel tempo dalla diaspora e dalle nuove persecuzioni cristiane nell'Europa barbarica, viene a formare l'elemento indispensabile di mediazione commerciale e anche culturale tra mondo islamico e mondo cristiano in lotta perenne. Quartieri ebraici - non ghetti - sorgono nelle più grandi città dell'Islam e sono come il terminale di arrivo e partenza di questa lunga catena.
Certo, tra un massacro e l’altro la vita per gli ebrei è stata per molto tempo più tranquilla che non nella Spagna dei Re Cattolici: ma se gli ebrei venivano chiamati "dhimmi", ovvero protetti, era perché c’era da proteggerli da qualcosa.
Nelle ricostruzioni più dettagliate della storia dell'antisemitismo si trova anche qualche cenno ai rapporti, diplomatici e culturali, delle potenze fasciste con esponenti del mondo arabo, giocati prevalentemente in chiave antibritannica, ma con sullo sfondo anche la questione degli insediamenti ebraici in Palestina, e qualche illustre simpatizzante del nazismo si trova nella cerchia del Gran Muftì.
Il Gran Muftì, Haj Amin al-Husseini, incontrò Hitler nel novembre 1941. Nel 1945 venne accusato dalla Jugoslavia di crimini di guerra, in seguito alle eroiche gesta dei suo sgherri collaborazionisti del nazismo. "Qualche illustre simpatizzante", dice Santomassino, timoroso di nominare il Muftì stesso…
In ogni caso è a partire dal 1948 che la questione esplode. Tra le molte motivazioni del rifiuto arabo, fondate su sentimenti religiosi, nazionali, identitari, e nel corso del tempo anche con una sempre più avvertibile proiezione della questione palestinese sullo sfondo di un più generale conflitto con l'Occidente e gli Stati Uniti in particolare, colpisce la precocità dell'affiorare di una intonazione a sfondo razziale, di per sé inessenziale rispetto alla corposità del dissidio, già ampiamente motivabile, e, soprattutto, inedita da ogni punto di vista nella tradizione culturale che la ingloba.
Noi siamo meno stupiti, ma evidentemente questo deriva dai fatti che prendiamo in considerazione, e che Santomassino rimuove.
I passaggi sono ampiamente documentati in uno dei libri forse meno discussi della sterminata produzione di Bernard Lewis (Semiti ed antisemiti. Le origini dell'odio arabo per gli ebrei, Rizzoli 2003).
Ma quello che retrospettivamente lascia interdetti in questa storia, e di cui non comprendiamo bene il meccanismo interno, è il fenomeno nuovo, sorprendente e assolutamente imprevisto, del trapianto in blocco di una cultura esterna (ed estranea alla tradizione islamica).
Qui non si inventa nulla di nuovo e di originale, ma si acquisisce qualcosa che è stato lungamente elaborato altrove.
Sorprende la precocità delle traduzioni in lingua araba dei Protocolli dei savi di Sion, la prontezza con cui i libri di testo nei paesi arabi riprendono le più volgari e tradizionali leggende dell'antiebraismo europeo. E perfino gli elementi appena nascenti di un «negazionismo» destinato a crescere e maturare sottotraccia in Occidente: da subito si parla del «presunto» genocidio degli ebrei, che torna come argomentazione polemica nelle stesse prese di posizione della classe dirigente araba tra anni Cinquanta e Sessanta (e nel tempo sarà proprio la dirigenza palestinese ad assumere maggiore cautela su questo terreno, comprendendo che il riconoscimento della persecuzione può istituire un parallelismo che giova alla causa).
L’erudito Santomassino qui non cita le fonti. Peccato, sarebbe davvero interessante scoprire quali membri della "dirigenza palestinese" assumono cautela nei confronti del negazionismo arabo.
Anche la questione del «deicidio», del tutto illogica nella struttura concettuale dell'Islam, viene in qualche modo acquisita, e l'abbiamo ritrovata esposta in forma ufficiale, e inquietante, nel discorso di saluto del giovane leader siriano di fronte a Giovanni Paolo II nella storica cerimonia della visita alla moschea di Damasco.
Dal mondo arabo, in forme e con intensità molto diverse, il pregiudizio antiebraico si diffonde in una parte molto ampia dell'Islam più vasto, anche nelle parti del mondo più distanti geograficamente e culturalmente dal teatro dello scontro. E in termini puramente geografici va detto che l'area di irradiazione dell'antiebraismo è oggi molto più vasta di quanto fosse negli anni Trenta. E c'è anche la sensazione che, al di fuori dell'Occidente oppresso dal senso di colpa, il pregiudizio antiebraico, tutto misurato sulla questione di Israele, sia in sottile ma percettibile espansione.
Insomma, secondo Santomassino, purtroppo gli arabi non sono più tolleranti come una volta. Sono diventati antisemiti. Ed ecco di chi è la colpa:
La questione palestinese è nel mondo arabo l'elemento scatenante, l'origine chiara e riconoscibile, senza la quale tutto questo sarebbe impensabile; ma evidentemente non basta da sola a spiegare l'intensità del fenomeno, nel quale confluiscono vecchie e nuove tensioni nel rapporto con l'Occidente.
E no, che non basta, perché nel 1066 a Grenada, nel 1465 a Fez, nel 1785 in Libia, la questione palestinese nemmeno esisteva. Ma c’erano i cadaveri degli ebrei.


Il trauma originario del 1948, amplificato nel tempo dagli sviluppi sempre più drammatici, non può certo essere sottovalutato, perché non è solo, come spesso si afferma, l'insediamento dell'«Occidente» in generale in quell'area (la vetrina dell'Occidente, come spesso si è affermato), ma è anche l'introduzione di una forma di Stato inedita in quella tradizione, dal fondamento particolarissimo, esclusivo e non inclusivo.
Che cosa ci sarebbe di "particolarissimo, esclusivo e non inclusivo", nel "fondamento" dello Stato di Israele, non lo si capisce proprio. È anche difficile capire cosa sia il "fondamento" di Israele, che ha delle leggi, che Santomassino passa sotto silenzio e che assicurano ai cittadini arabi il diritto di voto, (Israele è uno dei pochi paesi in cui le donne mussulmane possono votare) e che stabiliscono che l’arabo è una delle lingue ufficiali del paese.
Ma in ogni caso bisogna constatare che ancora una volta, e trapiantato artificialmente in una cultura diversa, l'antiebraismo (parlare di antisemitismo sarebbe fuori luogo nel caso specifico)
Quando si vuol fare una affermazione priva di fondamento la si mette tra parentesi.


riesce ad assolvere alla funzione tradizionale di collante popolare e di sfogo di frustrazioni aggressive o difensive. Come spiegarlo? C'è evidentemente qualcosa di talmente forte e semplificante nella sua meccanica elementare, di spiegazione monocausale dei mali e dei problemi del mondo, che ne rende possibile una replica, che appariva impensabile, fuori del suo contesto e del suo terreno di coltura.
Nella storia di una grande religione il tempo trascorso è troppo breve perché si possa pensare a una mutazione culturale, di portata così ampia da mettere in discussione i presupposti stessi su cui quella cultura era stata professata e percepita. Si preferisce pensare (auspicare?) che si tratti di una dialettica puramente storica, riconducibile a un contrasto di tipo coloniale, post-coloniale, imperialistico, a cui anche molte interpretazioni apparse su questo giornale hanno con molta ragione ricondotto. E che l'origine storica, una volta rimossa e composta, possa nel tempo lentamente sbiadire. Che questa nuova e inedita connotazione razzista possa davvero stemperarsi nel ricordo di una contrapposizione storica, secondo l'immagine, anch'essa riaffiorante, di una nuova «crociata», non più cristiana e senza croci, condotta dall'esterno e poi in qualche modo ricondotta alla memoria del passato.
Ma siamo da troppo tempo di fronte a una situazione esplosiva di per sé, e a una questione che di fatto è intrisa da entrambi i fronti anche di razzismo consapevole e inconsapevole. Di fronte all'enormità di questo problema, alle implicazioni che in prospettiva può generare nel rapporto tra civiltà,
Tutto tragicamente vero. Ma Santomassino come commenta
confesso che promuovere dibattiti sull'«antisemitismo di sinistra» - che pure a volte trapela, e che va combattuto quando si manifesta - assomiglia molto a dibattere sul sesso degli angeli, un modo come un altro per farci sentire più buoni e politicamente corretti.
L’antisemitismo arabo esiste; quello di sinistra anche. Ma per Santomassino non bisogna parlarne. Come l’omosessualità nelle famiglie borghesi di una volta (a proposito: come è la condizione dei gay nel mondo arabo ? E come in Israele?) si fa, ma non si dice.
Concludeva Giampaolo Calchi Novati nel suo intervento dell'8 febbraio su queste pagine: «Se non cadranno le paure e i sospetti che dividono israeliani e palestinesi non ci sarà pace quale che sia la soluzione sul terreno. Ma se quelle paure e quei sospetti cadranno, avrà ancora senso la pur razionale e comprensibile soluzione della divisione della Palestina in due stati?». Argomentazione più che condivisibile, e che riconduce a quella che retrospettivamente riconosciamo come l'unica soluzione raziocinante del problema, ma che non fu mai presa seriamente in considerazione né dagli attori del dramma, né dalla comunità internazionale, e che la storia del conflitto sembra avere allontanato nel novero delle utopie irrealizzabili.
Ma la cosiddetta «bomba demografica», che molti opinionisti nello stato di Israele e anche in Italia temono (aumento esponenziale del numero di arabi in Palestina che può mettere in discussione il carattere originario dello stato di Israele) appare in prospettiva una speranza e una risorsa che andrebbe colta saggiamente dagli stessi israeliani.
Che la demografia, coi suoi ritmi lenti e implacabili, riesca ad avviare a soluzione un dramma dove politica, cultura, armi e diplomazia hanno finora fatto fallimento?
Avete letto bene: Santomassino si augura, nientepopodimeno che la scomparsa dello Stato di Israele come Stato ebraico, grazie al "ritmo lento ed implacabile" della demografia. Resta qualche dubbio sul modo in cui si realizza, nei sogni di Santomassino, "l'unica soluzione raziocinante del problema". Il cosiddetto ritorno in Palestina dei sedicenti profughi arabi, infuriati con tutto ciò di ebraico che possono avere sotto mano? Il ristabilimento dell’età dorata dell’Islam con la minoranza ebraica ridotta a cittadini di seconda categoria?
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