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Europa Rassegna Stampa
05.03.2004 Mai fare informazione
ma solo polemiche anti Sharon

Testata: Europa
Data: 05 marzo 2004
Pagina: 3
Autore: Dan Rabà
Titolo: «Si sgretola il sistema Sharon»
Probabilmente abbagliato dall'affare Tennenbaum, Rabà si lancia in una minuziosa descrizione di tutte le cose che non vanno bene in Israele imputandole al primo ministro ed al suo governo. Inizia nel descrivere il prossimo viaggio di Sharon a Washington durante il quale secondo Rabà verrà decretata l'inefficacia della road map o almeno Israele tenterà di convincere gli americani ad accettarne la fine de facto, per la mancanza di un' autorità capace di mantenere gli impegni presi. Il fine di Rabà è molto semplice, sostenere che in pratica il governo non prende alcuna iniziativa seria per la pace. Da questo segue il corollario che attribuisce alla barriera difensiva più problemi che vantaggi.Secondo Rabà infatti la barriera voluta dalla sinistra non è quella che Sharon sta costruendo poichè non si basa sulle risoluzioni 242 e 338 dell'Onu che, a onor del vero, nulla dicono a proposito della Linea Verde, da molti sbandierata come confine legale, ma che in realtà è soltanto una linea armistiziale. Pur non entrando nel merito della politica israeliana è necessario sottolineare che la maggior parte dei laburisti non è contrario alla barriera nè si batte ideologicamente sul suo percorso, conscia della necessità di questo strumento difensivo. Si tratta invece di una polemica montata da esponenti quali Yossi Beilin e Yossi Sarid che fanno della demonizzazione di Sharon il loro cavallo di battaglia, contestandone a priori qualsiasi decisione. Questa sembra essere la posizione di Rabà e probabilmente anche la linea editoriale di Europa, una unilateralità che mal si addice a chi ha come obiettivo quello di fare informazione. Di seguito pubblichiamo il pezzo.
La prossima visita negli Stati Uniti del premier israeliano Ariel Sharon è prevista a fine mese. Il suo staff è già al lavoro, guidato dall'avvocato Dov Weisglass, oggi direttore dell'ufficio del primo ministro, ieri già affidato curatore dei sui interessi (strani i costumi della politica israeliana...). L'obiettivo è quello di convincere gli americani che la road map non ha alcuna chance. Perchè i palestinesi non sarebbero in grado di gestire il governo dell'autonomia. E perchè l'influenza di Hamas e delle bande armate presenti sul territorio sarebbe già superiore a quelle di Yasser Arafat e Abu Ala . Nonostante gli sforzi di mediazione degli egiziani per il raggiungimento di un cessate il fuoco, un'accordo, infatti, non è ancora stato raggiunto. Così il destino di Abu Ala sembra ormai essere lo stesso del suo predecessore Abu Mazen: quello di un capo di governo senza alcun potere. Ma è sempre sulla strada iniziata da Abu Mazen che si procede, alla ricerca di soluzioni concordate, nonostante il fatto che Sharon non abbia ancora incontrato Abu Ala. Di fatti, il governo israeliano sembra starsene semplicemente in attesa, come a dare il tempo e corda al leader palestinese perchè finisca di impiccarsi con le proprie mani. L'assenza di attentati a ripetizione fa sì che in Israele regni una calma apparente, ma la popolazione è fiaccata dalle misure economiche d'emergenza prese dal ministro del tesoro Benjamin Netanyahu. E nel frattempo milioni di dollari vengono buttati al vento per ricostruire le colonie della Striscia di Gaza- più le altre dieci previste- all'interno del nuovo confine. E' il cosiddetto "piano di separazione" di Sharon di cui si è già ampiamente discusso, che prevede inoltre il trasferimento delle forze armate a ridosso del "muro difensivo" (lo stesso costruito invadendo, ancora una volta la terra dei palestinesi).

Il muro secondo la sinistra
C’è da dire che il muro, come era stato proposto dalla sinistra (che si pensava potesse servire ad arginare gli attentati, in un periodo in cui si susseguivano a ritmo di più di uno a settimana), non è il muro che oggi porta avanti Sharon. A quel muro, che seguiva la linea tracciata dalle Nazioni Unite (risoluzioni 242 del 22 novembre 1967 e 338 del 22 ottobre 1973) come base di un confine accettabile da ambo le parti, Sharon e la sua destra erano contrari. Questo muro, quello di Sharon, si è invece manifestato come un’ulteriore annessione di terre a salvaguardia di molte colonie, sacrificandone alcune. Questo muro rappresenta un confine – e per uno stratega geniale come Sharon ciò non è un caso – fissato unilateralmente a partire da un’assoluta mancanza di fiducia nella possibilità di raggiungere una soluzione attraverso le trattative. Cancellando di fatto le trattative. Un confine definito anche fisicamente, con barriere e muri, appunto, che garantisca l’autonomia nella fondazione di uno stato palestinese, dotato di proprie strutture produttive, industria e agricoltura, e in grado di accedere agli aiuti economici americani ed europei.
È presto per poter fare pronostici, ma nel paese sta crescendo l’insofferenza nei confronti di questo governo, della sua nebulosa ideologia e della sua politica, che la popolazione sta pagando con un drastico calo del tenore di vita. Il processo è ancora in atto, e non permette di fare pronostici, ma che l’atmosfera stia cambiando lo si capisce anche solo guardando il taglio dei servizi televisivi, che si occupano sempre più spesso della condizione dei palestinesi. Come al notizia del palestinese schiacciato dalla folla al posto di blocco di Erez.
Il tono del servizio, simpatizzante nei confronti di quei lavoratori che vanno a cercar lavoro a pochi soldi per poter sfamare le proprie famiglie, era quello di una critica al meccanismo stesso. O come quei servizi sulla condizione dei palestinesi a Gerusalemme, che raccontano, per esempio, di come l’ufficio per la distribuzione di passaporti e carte d’identità venga chiuso e poi riaperto e poi richiuso, stimolando l’ostilità della popolazione araba nei confronti delle istituzioni israeliane. C’è anche la storia di un arabo la cui abitazione è rimasta bloccata tra i recinti del muro, le sue terre da un lato, la scuola dall’altro, raccontata da un servizio di approfondimento venerdì sera in prima serata.

Storie di ordinaria sofferenza
Il pubblico israeliano, di storie come queste, ne sente quotidianamente. A volte sono casi limite, come quello del lavoratore palestinese che ha avuto un figlio da una donna ebrea. E siccome per la legge ebraica il figlio è ebreo se la madre è ebrea, il figlio viene cresciuto in Israele come ebreo, e oggi fa il militare, mentre il padre vaga tra la Palestina e Israele. Trattato alla stregua di un collaborazionista dei palestinesi, maltrattato e picchiato, e considerato individuo sospetto alla frontiera con Israele, senza un permesso per passare. Così l’uomo chiede di vedere suo figlio, impegnato nel servizio militare. E dopo un’attesa di ore, il soldato israeliano abbraccia il padre palestinese.
Le notizie più interessanti sono quelle raccontate da giornalisti militari o specializzati in questioni arabe. Come i tanti giornalisti arabi –o ebrei di origine araba, che ancora parlano correttamente la lingua – che la televisione ha assunto di recente. Osservatori dall’interno che riescono a parlare con Arafat e i leader palestinesi più noti, e a intervistare i combattenti delle fazioni più irriducibili. Riportando i fatti, soprattutto, "dalla parte dei palestinesi".
E se a questo fenomeno sommiamo quello degli israeliani che rifiutano di arruolarsi, o quello dei soldati che si rifiutano di combattere nei territori occupati e di lanciare bombe sui villaggi abitati, e le discussioni sempre più comuni tra amici e familiari…si comincia ad avere una misura di questo cambiamento. Quello di chi dice: «Non vogliamo combattere questa guerra. Non vogliamo opprimere un popolo già sofferente».
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