Il piano americano di Bush per la libertà contro il terrore
Testata: Il Foglio Data: 02 marzo 2004 Pagina: 2 Autore: Christian Rocca - Rolla Scolari Titolo: «L'altro pilastro della dottrina Bush»
Riportiamo dal Foglio due articoli sulla dottrina Bush. Il primo è di Christian Rocca con il titolo: "Il piano americano per esportare la libertà con l'aiuto del G8". New York. La dottrina Bush consiste nel promuovere la democrazia e la libertà in quella zona del mondo, il Medio Oriente, dove domina il fondamentalismo islamico che ha creato le condizioni per i ripetuti attacchi terroristici agli Stati Uniti, alle loro ambasciate, alle loro basi militari, alle loro navi, culminati l’undici settembre del 2001 nella doppia strage delle Torri gemelle e del Pentagono. Non che gli americani siano diventati buoni, santi o missionari, semplicemente credono che aprire e liberalizzare le società di quei paesi sia la soluzione migliore, nel lungo termine, per garantire la propria sicurezza. Credono, in buona sostanza, che società libere e istituzioni democratiche non abbiano alcun interesse a diffondere fondamentalismi né a dichiarare guerre, ma piuttosto siano votate a scambiarsi beni, intrecciare relazioni, fare affari. La risposta della Casa Bianca è stata rivoluzionaria rispetto alla sua più recente politica estera sul Medio Oriente: gli Stati Uniti post 11 settembre non fanno distinzione tra terroristi e Stati che li sostengono, agiscono militarmente prima che la minaccia diventi imminente, favoriscono il cambio di regime e la diffusione dei principi liberali e democratici. I primi elementi della dottrina Bush li abbiamo già visti in opera: l’attacco militare all’Afghanistan, l’invasione dell’Iraq, la caduta di Saddam e il faticoso avvio del processo democratico. Ma ora Bush e il suo segretario di Stato, Colin Powell, hanno messo in campo l’altro pilastro, lo strumento più raffinato e convincente per diffondere pacificamente i principi liberali: la Greater Middle East Initiative. L’idea sarà presentata al G8 dell’8-10 giugno che si terrà a Savannah, in Georgia, ma della Greater Middle East Initiative si parla già da qualche settimana, poco sui giornali europei, moltissimo su quelli arabi. Uno di questi, Al Hayat, giornale egiziano che si stampa a Londra, ha ottenuto una bozza del progetto che gli americani hanno consegnato agli otto ministri degli Esteri come strumento di lavoro in vista del G8.
I tre deficit da colmare Il documento specifica che per Greater Middle East si intendono "i paesi del mondo arabo, più Pakistan, Afghanistan, Iran, Turchia e Israele", e spiega come i tre deficit del mondo arabo individuati dagli autori (arabi) dei Rapporti Onu sulla situazione in Medio Oriente, abbiano contribuito a sviluppare le condizioni che oggi minacciano gli interessi nazionali degli Stati membri del G8. I tre deficit sono la mancanza di libertà, di conoscenza e di diritti delle donne. Se le cose continuassero così, si legge nel documento americano, avremmo un incremento di estremismi, di terrorismo, di crimini internazionali e di migrazione illegale. I dati non lasciano dubbi. Il prodotto interno lordo dei 22 Stati della Lega araba è inferiore a quello della Spagna. Il 40 per cento degli arabi adulti, circa 65 milioni di persone, è analfabeta, due terzi dei quali sono donne. 50 milioni di giovani entreranno nel mercato del lavoro entro il 2010, 100 milioni entro il decennio successivo, per assorbire i quali è necessario produrre sei milioni di posti di lavoro l’anno. Con l’attuale tasso di disoccupazione, da qui al 2010, i senza lavoro del mondo arabo saranno 25 milioni. Un terzo della regione vive con meno di due dollari al giorno e, per migliorare gli standard di vita, la crescita economica del Medio Oriente dovrebbe più che raddoppiare dal meno tre per cento di oggi ad almeno il sei per cento. Questa la situazione economica, poi c’è quella politica, sociale, quella dei diritti delle donne. Tutto ciò costituisce un terreno fertile per il fondamentalismo e una minaccia per gli interessi dei paesi industrializzati. "L’alternativa – c’è scritto sul documento americano – è la strada delle riforme. I due rapporti delle Nazioni Unite rappresentano un’urgente chiamata all’azione in Medio Oriente. Lo chiedono attivisti, accademici, e imprenditori della regione. Alcuni leader hanno già prestato attenzione a queste richieste e hanno già intrapreso passi verso riforme politiche, sociali ed economiche". L’opportunità è storica, sostengono gli americani. La liberazione dell’Afghanistan e dell’Iraq da due regimi brutali offre la possibilità di intervenire e andare incontro alle richieste di chi, da dentro lo stesso mondo arabo, chiede aiuto e riforme. Gli obiettivi dell’iniziativa, proposta dagli americani ai partner del G8, sono la promozione della democrazia e della buona amministrazione, lo sviluppo della conoscenza e il rilancio delle opportunità economiche: "Queste priorità di riforma sono le chiavi per lo sviluppo della regione: la democrazia e la buona amministrazione sono la struttura dentro la quale lo sviluppo prende corpo. Gli individui che hanno studiato sono gli agenti dello sviluppo. Infine, le imprese ne sono il motore". Il piano americano prevede assistenza tecnica e aiuti concreti a quei paesi che da qui al 2006 hanno annunciato elezioni, attraverso scambi di parlamentari, programmi di addestramento legislativi, e con una specifica attenzione al sostegno del ruolo delle donne. E poi, ancora, aiuti legali che completino gli sforzi di numerose istituzioni internazionali che promuovono già iniziative di assistenza ai giudici e alle riforme dei codici. L’idea, in questo caso, è di partire dal basso, da dove comincia la vera percezione della giustizia. Per cui sono previsti finanziamenti a centri, collegati con le università di Giurisprudenza, dove i singoli cittadini possano ricevere assistenza legale. Un’altra iniziativa vuole sostenere i mass media indipendenti, attraverso un programma di scambi, di stage e di formazione giornalistica. I paesi del G8, secondo il progetto, dovrebbero incoraggiare e finanziare direttamente giornali indipendenti, associazioni e iniziative che promuovano la democrazia e quelle per i diritti umani e delle donne, cercando di convincere i governi della regione a farli operare liberamente nei loro paesi. Nel documento sono molto più dettagliati i progetti scolastici ed educativi, i piani di diffusione della conoscenza e della formazione, come le soluzioni per il rilancio economico attraverso prestiti, finanziamenti e mille altre attività. Colin Powell ha detto che "quello che stiamo cercando di fare è aiutare ciascuno di quei paesi, nel modo che sceglieranno. Non vogliamo imporre niente a nessuno. Potrà funzionare soltanto se le nazioni della regione scopriranno che è nei loro interessi muoversi in questa direzione". Il secondo è di Rolla Scolari: "Per il Medio Oriente è un elettroshock, ma intanto qualcosa si muove" Milano. Questa volta non possono sbagliare, i rais del mondo arabo devono apparire uniti e con le idee ben chiare sul loro futuro e soprattutto sull’avvenire del Medio Oriente. Lo sanno bene i ministri degli Esteri che hanno aperto ieri al Cairo un pre summit della Lega araba. Si mette sul piatto quello che poi si discuterà nel dettaglio a Tunisi a fine mese, nel primo vertice della Casa araba dopo lo scoppio della guerra in Iraq, conflitto che ha trovato i paesi mediorientali disuniti e incapaci di affrontare la crisi con un’unica voce. L’agonia della Lega araba e la sua assoluta inefficacia sono problemi ormai chiari agli stessi governi arabi. Alcuni paesi hanno messo a punto e presentato proposte di riforma per rendere la Lega uno strumento agile e moderno di dialogo e cooperazione politica ed economica. Lo ha fatto l’Egitto, abbozzando l’idea di un tribunale e di un Parlamento arabi; l’Arabia saudita, che vorrebbe rafforzare le relazioni economiche, in un clima di pace e di maggior sicurezza sotto l’ombrello di una Lega forte e presente; lo hanno fatto i libici gli yemeniti, che propongono addirittura una federazione con una politica estera, economica e una difesa comuni. I commentatori arabi non nascondono il loro pessimismo: "Non possiamo più mantenere questo status quo – scrive Ibrahim Nafie, direttore dell’egiziano al Ahram – se non vogliamo essere costretti a dichiarare la bancarotta delle istituzioni della cooperazione araba è necessario molto di più di una chirurgia cosmetica". Quello che serve una volontà comune, altrimenti il summit di fine marzo si risolverà, una volta di più, in un nulla di fatto. "Il pessimismo rispetto a vertici di questo tipo sottolinea l’irrilevanza, il collasso del sistema regionale arabo – scrive l’editorialista di Al Hayat, Patrick Seale – ripetutamente colpiti da potenti forze esterne e in disaccordo tra loro, gli arabi non sono più padroni del loro destino". Eccoci al punto. I disaccordi interni portano gli arabi a non essere padroni del proprio destino, sul quale vorrebbero invece rimettere le mani, a quanto pare. Basti vedere, dal Marocco all’Arabia Saudita, le reazioni al piano americano sul Grande Medio Oriente, appoggiato anche dall’Europa. Un progetto che prevede riforme in campo politico, sociale ed economico sulla via della democratizzazione di un’area che gli Stati Uniti hanno esteso dall’Atlante alle falde dell’Himalaya. Agli arabi non è piaciuto non essere stati chiamati in causa, o per lo meno avvertiti, di una partita che si dovrebbe svolgere sul loro campo. Risultato: il piano per un Grande Medio Oriente ha creato paura e scetticismo nell’opinione pubblica e nelle cancellerie, dal Maghreb al Levante. Il presidente egiziano Hosni Mubarak, svestendo per un attimo i panni dell’amico di Washington e il tranquilizzante sorriso compiaciuto, ha dichiarato che ogni pressione politica proveniente dall’estero è inaccettabile e che i paesi arabi sono sulla via delle riforme secondo i loro valori e le loro tradizioni. I sauditi hanno ribadito il concetto, seccati. Colin Powell ha subito tentato di smorzare le polemiche, dagli schermi della nuova televisione americana in lingua araba, al Hurra: "Sono d’accordo con egiziani e sauditi: le riforme non possono essere imposte dall’esterno". Detto questo, i commentatori non si sono calmati: "La trasformazione della situazione nei paesi arabi è una richiesta della popolazione araba, prima d’essere una richiesta statunitense o europea – scriveva ieri Said Sonbol su Al Akhbar – L’America chiede un cambiamento della situazione in Medio Oriente. Noi siamo d’accordo e non lo rifiutiamo. Ma abbiamo una domanda: Quali riforme e come saranno applicate? Le riforme devono venire dai paesi stessi". Un forte senso di frustrazione e rabbia per non essere stati coinvolti accomuna le reazioni arabe. Anche se nessun governo ha dichiarato di non accettare il piano americano, il segretario della Lega, Amr Moussa, non è stato diplomatico: "Qualsiasi iniziativa basata sull’approccio fratello maggiore a fratello minore non funzionerà". Un elettroshock. Così ha definito il piano il giornalista libanese Mohammed Kawwas, sollevando dubbi sulle possibilità di successo: "Il cosiddetto colonialismo democratico non può portare al successo senza il consenso della popolazione e l’adattamento a una certa condizione sociologica e culturale". Ieri al Cairo, Egitto e Arabia Saudita hanno presentato un piano, una proposta per l’elaborazione di una strategia comune in materia di riforma politica ed economica. Un primo barlume di unità. Se si tratti di una mossa in risposta al piano per un Grande Medio Oriente o di un’azione congiunta spontanea non si sa. Ma comunque qualcosa si muove. Il documento invita gli arabi a una maggior partecipazione alla vita politica, economica, sociale e culturale, propone una più efficace cooperazione a livello di politica internazionale e di sicurezza.
Decentralizzare la questione palestinese C’è una questione che rende indigesto programma per un Grande Medio Oriente all’opinione pubblica araba, il paravento di molti politici, dietro al quale spesso si nascondono fallimenti e quant’altro: il conflitto israelo-palestinese. "La novità di questo progetto – scrive Mohammed Sid Ahmed sull’Ahram – sta nel fatto di considerare Medio Oriente una regione che si stende dal Pakistan a Est, al Marocco a Ovest, uscendo così dai tradizionali confini dell’area. In questo modo la causa palestinese perde la sua specificità e il suo posto centrale". Secondo un antico ritornello arabo, non sbagliato ma spesso sopravvalutato, senza una risoluzione della questione palestinese non ci sarà un Medio Oriente in pace, leggi democratico. Ne è convinto il principale alleato di Washington nella zona, il governo del Cairo, che ci prova sempre a fare da pacere tra israeliani e palestinesi e puntualmente tutto si risolve con un nulla di fatto. E mentre la politica palestinese sprofonda ogni giorno di più nell’anarchia, con un leader, Yasser Arafat, che lancia oggetti contro i membri del suo partito, al Fatah, sempre più disunito e in cerca di un piano politico che sembra non farsi strada all’orizzonte, circolano indiscrezioni su un incontro tra servizi segreti israeliani ed egiziani per discutere della possibilità di un intervento del Cairo per mantenere la sicurezza a Sud della Striscia di Gaza. E anche se il ministro degli Esteri egiziano, Ahemd Maher, smentisce, il Cairo torna al suo ruolo di mediatore in quella crisi che per gli arabi resta la causa principale del sottosviluppo democratico del Medio Oriente (per molti un capro espiatorio dietro al quale nascondere le proprie responsabilità) e che secondo la stampa araba il piano americano non tratta con dovuta attenzione. "Si sta costruendo una nuova storia. Le popolazioni della regione continueranno a reagire come degli spettatori? – si chiede Adel Malek su Al Hayat – La storia registra su pagine radianti l’eroismo delle persone e lascia le sue pagine più buie e fredde a chi esita a prendersi responsabilità e cerca ogni tipo di giustificazione per sfuggire al passato. E’ richiesta rapidità, ma attenzione alla fretta". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.