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La Stampa Rassegna Stampa
25.02.2004 Accuso le Nazioni Unite
lo dice Bernard Lewis, il grande storico del Medio Oriente

Testata: La Stampa
Data: 25 febbraio 2004
Pagina: 13
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Per il muro accuso le Nazioni Unite»
Pubblichiamo l'intervista che Fiamma Nirenstein ha fatto a Bernard Lewis, il più famoso storico del Medio Oriente. Le Nazioni Unite sotto accusa. Era ora.
IL professor Bernard Lewis, fra pochi giorni in partenza per Roma per una conferenza su «Il Medio Oriente un anno dopo» in occasione dell’inaugurazione della Fondazione Magna Charta (Villa Piccolomini, alle 17,30 del 9 di marzo), è il più importante storico del Medio Oriente: lo incontriamo a Tel Aviv, reduce da numerosi incontri in Oman, in Giordania, in Turchia. Prima di analizzare per noi la situazione mediorentale dopo la guerra in Iraq , il professore non si sottrae alle domande sulla barriera di difesa e il relativo processo dell’Aja.
Professore, le sembra che la grande discussione apertasi in tutto il mondo a causa della decisione dell’Assemblea generale dell’Onu di far sedere Israele sul banco degli imputati sia sostanzialmente negativa o positiva per rimettere in moto il processo di pace in Medio Oriente?
«Quello che sta accadendo all’Aja è assurdo. Lo dice il buon senso: tutti sanno che la questione non è legale, ma politica, e che si può risolvere solo quando le parti siano decise a trattarla politicamente. Le questioni di confine tormentano da sempre il mondo: l’Alsazia e la Lorena ci hanno messo alcune centinaia di anni a stabilire i confini, e forse adesso, ma solo forse, ci sono riusciti. La questione della barriera che l’Onu ha voluto proporre in termini legalistici (e fra un momento spiegherò perché non legali) non ha per oggetto ciò di cui si parla. La mia impressione è che le Nazioni Unite abbiano accettato dalla parte palestinese una discussione che non si sa se sia sulle dimensioni di Israele, sul suo comportamento, o sulla sua esistenza».
Ma perché proprio l’Onu, che ha fatto nascere lo Stato d’Israele nel novembre del 1947, dovrebbe accettare di metterne in discussione l’esistenza?
«Guardiamo ai fatti: innanzitutto, il discorso dei palestinesi non si è mai scostato fin dal ’47 dal rifiuto dell’esistenza del Paese che essi considerano un nemico, un estraneo nell’area: l’educazione, la radio, la tv, l’incitamento continuo lo dice. E adesso consideriamo il tema palestinese in cui più l’Onu è coinvolto, quello dei profughi: spingendone il diritto al ritorno, i palestinesi di fatto si propongono di cancellare lo Stato ebraico. L’Onu sui profughi non ha mai dato prova di avere una posizione diversa, anzi. La storia parla chiaro: a milioni nel secolo scorso i profughi si sono riversati al di là e al di qua dei confini di Paesi in conflitto. Il più importante scambio è quello fra India e Pakistan: nel ’47 almeno 7 milioni di persone furono coinvolte. Opppure nel ’45 lo scambio di popolazione fra Polonia e Germania dell’Est, altri milioni di persone tutti risistemati. Con la partizione si spostano 725mila profughi arabi e subito viene creata una struttura fissa dell’Onu che ne ha letteralmente impedito la risistemazione, mentre degli ebrei che nel ‘29 furono uccisi o cacciati da Hebron e di quelli che nel ‘48 furono uccisi o espulsi da Gerusalemme, ha mai sentito parlare come di profughi protetti dall’Onu? E dei circa 800 mila profughi ebrei cacciati dai Paesi arabi? L’Onu non se n’è mai occupata. Vorrei aggiungere che quando, il 17 dicembre del ‘47, la Lega Araba respinse la risoluzione che stabiliva la partizione (la legalità internazionale!) non c’è stato un sospiro da parte dell’Onu stessa; e neppure se ne è sentita la voce quando i Paesi arabi proibirono l’ingresso nei loro territori agli israeliani di qualsiasi religione (i musulmani di qui avevano quindi anche la proibizione di effettuare il pellegrinaggio obbligatorio alla Mecca) e a qualsiasi ebreo, di qualsiasi cittadinanza; o quando la Giordania nel ‘54 offrì la cittadinanza a qualsiasi abitante della Palestina mandataria eccetto gli ebrei...».
Israele è accusata di avere violato con il percorso della barriera la legalità internazionale costruendo dentro confini altrui, e quindi di rubare terra.
«L’unico armistizio che regola la disposizione dei confini è quello di Rodi del 6 gennaio 1949. Al punto 2 dell’articolo V dice: "La linea armistiziale di demarcazione non può essere ritenuta in alcun senso un confine politico o territoriale ed è delineata senza che ciò costituisca pregiudizio a diritti, richieste ecc. per quello che riguarda la definitiva sistemazione della questione palestinese". Le risoluzioni dell’Onu tengono in seguito conto di questo unico documento, e quindi rimandano di nuovo a un assetto politico da stabilirsi».
Tuttavia, se la barriera fosse sulla Linea Verde...
«Non farebbe differenza: più volte ai palestinesi sono stati offerti confini entro i quali stabilire il loro Stato, nel ‘36 dalla commissione Peel, e poi proprio dall’Onu nel ‘47, poi in molteplici tentativi israeliani l’ultimo dei quali è quello di Camp David, con Arafat, Barak e Bill Clinton. La storia ci insegna che la politica palestinese sottintende un rifiuto all’accettazione di Israele, e anche questa volta non cambia direzione».
La barriera, dice Israele, è creata per difendersi dal terrorismo: una misura molto pesante e diretta, che fa pensare che il terrorismo, in generale, non sia in declino. Né in questa zona, né tantomeno in Iraq, che vediamo straziato dal terrore ogni giorno, mentre in tutto il mondo l’allarme è continuo.
«Ci sono due tipi di terrorismo, ma attenzione, non in conflitto e talvolta unificati nell’azione: il primo tipo è volto, sempre con manodopera altamente ideologizzata, a preservare le tirannie vigenti; il secondo, quello di Al Qaeda, è volto ad assoggettare il mondo occidentale».
La guerra di Bush non ha messo in crisi il terrore?
«La guerra, che ha messo in movimento il Medio Oriente, minaccia il terrorismo e contribuisce però a renderne più attive le difese. Vede, l’Iraq oggi può diventare una democrazia in pieno Medio Oriente: sui giornali leggiamo solo degli attacchi terroristici, ma in realtà l’Iraq è un pullulare di forze in movimento, nuovi giornali, nuove autonomie locali, giovani che si arruolano nella polizia e nell’esercito... le cose sono incomparabilmente migliori rispetto al tempo di Saddam, e possono procedere con cautela, senza affrettarsi verso elezioni che richiedono registri elettorali, leggi e strutture ancora indefinite».
Lei è favorevole a elezioni immediate?
«Non vorrei che si ripetesse l’esperienza dell’Algeria, dove dalle elezioni è scaturita un macelleria. Bisogna andare con i piedi di piombo. Le elezioni devono sistemare l’Iraq, non turbarlo ulteriormente; Paesi come l’Iran e altre dittature mediorientali hanno interesse a che non ci sia mai la democrazia. Gran parte dei fondi e dell’organizzazione del terrore sono di provenienza iraniana».
Mi sembra che si torni così all’idea dell’Asse del Male di Bush: i Paesi responsabili diretti della guerra terroristica in atto potrebbero essere sfidati dagli Usa?
«Penso che non ci sia più bisogno di altre guerre. L’Iran, se l’opposizione non verrà ostacolata, è pronto per la rivoluzione democratica; per gli altri Paesi implicati nel finanziamento del terrorismo, immagino dei rovesciamenti di regimi minoritari, corrotti, in crisi, che perseguitano e depauperano i loro popoli».
E’ fiducioso, nonostante tutto, sulla possibilità che la democrazia vinca? Il Medio Oriente è tutto dominato da dittature, ha generato Saddam Hussein.
«Saddam Hussein, un dittatore baathista e minoritario, si è pasciuto della linfa nazista prima e comunista poi, ideologie totalitarie europee. Vede, semmai il rischio di non riuscire a smantellare queste fragili dittature mediorentali risiede oggi più nella storia del rapporto fra il mondo musulmano e l’Occidente che nelle radici musulmane: l’Islam, da due secoli in stato di debolezza, ha sempre cercato l’appoggio di chi poteva aiutarlo a battere l’Occidente democratico, suo nemico. Prima si è appoggiato all’asse contro gli Alleati, poi ai comunisti contro gli Usa. Due disastri. Oggi, contro gli Usa che vedono come il principale nemico, cercano la protezione dell’Europa, che affronta un duro dibattito fra chi intende accettare e chi intende rifiutare questo ruolo. Per carità, non voglio paragonare l’Europa alla Germania nazista o all’Urss, parlo solo della posizione in cui si cerca di mettere il Vecchio Continente».

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