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La Stampa Rassegna Stampa
24.02.2004 Una giornata senza Igor Man
con Nirenstein, Molinari, Anselmo, che sollievo, che delizia

Testata: La Stampa
Data: 24 febbraio 2004
Pagina: 2
Autore: Fiamma Nirenstein - Maurizio Molinari - Aurelio Anselmo
Titolo: «Tre articoli sulla barriera di difesa in Israele»
Oggi la Stampa era proprio un giornale ben fatto, documentato e ricco di contributi. Fiamma Nirenstein da Gerusalemme in una cronaca accurata del dopo attentato, Maurizio Molinari da New York con una ottima intervista a Daniel Pipes, e, nelle pagine della cultura, un articolo di Aurelio Anselmo, professore di diritto costituzionale comparato all'Università di Palermo, un articolo che suggeriamo di stampare e diffondere per la sua chiarezza e incommensurabile utilità. Invitiamo i nostri lettori a scrivere al quotidiano torinese per complimentarsi e stupirsi che finalmente la Stampa si sia decisa a pubblicare un testo così controcorrente.


Fiamma Nirenstein, pag. 2, "I popoli del Muro in attesa tra funerali, scontri e cortei"

GERUSALEMME
LA cerimonia dell’Alta corte, le cravatte di pizzo dei quindici giudici, le Mercedes nere, le antiche architetture europee, niente avrebbe potuto essere, ieri, più lontano dalla realtà vissuta qui nel sole freddo di Gerusalemme: una rappresentazione in termini di giustizia formale di una guerra non funziona, diventa un teatro dell’assurdo. A Abu Dis e dintorni, a Gilo, nei cimiteri della capitale dove venivano sepolti i morti giovani dell’autobus numero 14, sui cancelli gialli fra la parte palestinese e qualla israeliana là dove i palestinesi passano il recinto elettronico per andare nei campi, là era il vero teatro. Dalla parte israeliana del muro a Abu Dis (1800 metri di cemento che dividono dalla capitale il sobborgo da cui sono usciti tanti attentati terroristici) hanno marciato manifestanti israeliani pugnaci, con i ritratti dei cittadini uccisi negli attentati, seguitando a chiedere ai giornalisti (invece di rispondere alle domande) come può essere che «mentre si macellano i viaggiatori su un autobus il mondo processi le vittime e non i mandanti degli assassini».
Dall’altra parte dello stesso muro, dove l’Abu Dis palestinese è stata tagliata via da Gerusalemme, si svolgeva una manifestazione di qualche migliaio di persone, uscita per le strade con bandiere, con molti ritratti di Arafat e di Marwan Barghuti, un muro di carta da bruciare in effige, i soliti slogan contro Sharon e contro Bush: la manifestazione era guidata dallo stesso Abu Ala, che abita a centocinquanta metri di distanza e appariva al massimo della vivacità politica mentre gridava ripetutamente (così usa nella retorica araba) la stessa frase «Questo non è un steccato di sicurezza, questo è un furto di terra». Il fronte palestinese, così come si è preparato per anni a questo giorno sul fronte internazionale, con simulazioni, videotape, dischetti di computer, arruolando personaggi che parlando un ottimo inglese, altrattanto sul serio ha preso la risonanza del processo sul fronte mediorentale. E’ la battaglia per eccellenza, e lo si può anche leggere come un tentativo di ritorno politico di Arafat in grande, in mezzo a un mare di guai con i suoi, con l’opinione pubblica interna e internazionale: il raìs da Ramallah ha scelto un discorso drammatico, declamando la linea più popolare e consueta, quella di Israele razzista, stato che pratica l’apartheid, e quindi (come il vecchio Sud Africa) violatore di tutte le regole del diritto internazionale. Il messaggio è chiaro, è quello delle sanzioni internazionali proprio come quelle che caddero sul Sud Africa e lo delegittimarono per sempre.
Le scuole e gli uffici pubblici ieri hanno chiuso i battenti in anticipo per mandare gli studenti e gli impiegati alle manifestazioni a Ramallah, a Abu Dis, nella zona di Kalkilia e delle altre cittadine sfiorate dal recinto elettronico. A Abu Dis si è verificato un fenomeno mediatico tipico della zona: i giornalisti che si erano riuniti di fronte alla carcassa del numero quattordici, d’un tratto sono stati attratti da rumori soffocati: i soldati israeliani, di cui sei finiscono all’ospedale perchè colpiti dai sassi dei manifestanti, sparano gas lacrimogeno sulla folla. Tutta la stampa emigra di corsa verso la parte del muro dove si svolgono gli scontri. Anche a Deir Ghsun, vicino a Tulkarem è stato lanciato gas lacrimogeno su una folla di lanciatori di pietre che rispondeva intonando: «Dio è grande».
Per Arafat la battaglia dell’Aja è una occasione fantastica per giocare sul suo terreno, quello internazionale, dell’Onu, di quella che lui chiama «legalità internazionale»: su questo terreno Abu Ammar torna a essere il raìs, dimentica il rivale Mohammed Dahlan, dimentica che Hamas si prepara a prendere il potere a Gaza quando se ne andranno gli israeliani col ritiro unilaterale, soprattutto dimentica le accuse di essere il vero mandante del terrorismo che insanguina Israele. Si può giurare che Arafat utilizzerà il processo dell’Aja per dimostrare ai suoi quanto egli sia ancora abile nel sollevare l’opinione pubblica inernazionale coinvolgendo l’Onu una volta di più nella causa palestinese.
Israele intanto cerca di convincersi che la scelta fatta di puntare tutto sulla spiegazione esterna del terrorismo senza accettare la giurisdizione della Corte è buona: le interviste continue alla radio con gli inviati all’Aja si svolgono in tono rassicurante, anche mentre dentro la Corte i palestinesi stanno presentando da tre ore il proprio caso. Ma la scommessa di puntare tutto sulla spiegazione al mondo di che cosa sia il terrorismo è molto arrischiata: a Gilo una piccola manifestazione di studenti portati con i pullman nel punto in cui le finestre hanno sacchi di sabbia per difendersi dagli spari provenienti da Beit Jalla si svolge di fronte a un altro autobus sventrato. Partecipano anche gli uomini di «Zaka», quelli che pietosamente raccolgono i corpi smembrati dei morti nel terrore, e un infermiere della Stella di David Rossa spiega a un altro come tentò di entrare proprio da quella finestra, quella là, riuscì a tirarlo fuori, era un bambino di tredici anni, aveva perso un braccio, troppo sangue, «mi è morto fra le mani».
I ragazzi della scuola Gymnasia che hanno perso ieri un compagno Lior Azulai di 18 anni, hanno anche loro interrotto le lezioni, ma senza uscire da scuola, solo per parlare di lui. Il professor Shmulik Hadshur racconta che «in queste occasioni si spezzano tutti, anche i più forti, oggi a un certo punto c’erano duecento ragazzi che piangevano tutti insieme».
La vera manifestazione per il Muro a Gerusalemme, di fatto, ieri sono stati i funerali degli scolari; l’addio a un ragazzo la cui nonna non smetteva di invocare il nome; la storia della signora Shula Osana che ha perso il figlio Yuval nell’attentato di domenica, e prima ancora in un altro attentato ha perso un fratello e ha avuto il nipote ferito grave in un altro autobus.
Mentre Israele aspetta la giornata di oggi per capire se la rinuncia a discutere dentro la sala del tribunale è stata giusta, se «hanno parlato al cuore del mondo» le processioni con i ritratti dei propri cari perduti per sempre e lo hanno convinto che è indispensabile una separazione almeno temporanea dai palestinesi, una delegazione della comunità europea guidata dall’ambasciatore Chevallard è andata ieri a portare una corona di fiori sul luogo dell’attentato al bus numero 14 e il compagno di scuola di uno degli uccisi si è fatto avanti senza esitazioni. Ha detto ai rappresentanti europei: «Non vi sembra che invece di prenderci in giro con il vostro tribunale sarebbe l’ora che capiste che noi vogliamo tornare a vivere?».
Maurizio Molinari, pag. 3, "Per Bush è una pronuncia senza valore"
da NEW YORK
Se qualcuno ritiene che il giudizio della Corte dell'Aja sulla barriere di sicurezza israeliana in Cisgiordania influenzerà le decisioni dell'amministrazione Bush «si sbaglia». Ad affermarlo è Daniel Pipes, lo studioso di questioni mediorientali che il presidente Usa ha designato a guidare il «Us Institute of Peace» di Washington. Pipes è considerato una delle voci ufficiose più attendibili sugli orientamenti della Casa Bianca in Medio Oriente.
L'intervento della Corte dell'Aja sulla questione del «Muro» avrà conseguenze sull'approccio politico dell'amministrazione americana al processo di pace fra israeliani e palestinesi?
«Le conseguenze che posso prevedere saranno scarse, se non del tutto nulle».
Perchè ne è così sicuro?
«Bisogna tener presente una valutazione di tipo generale, che va ben oltre lo scenario arabo-israeliano. Questa amministrazione non ha eccessiva fiducia nelle Nazioni Unite o nei fori multilaterali. La priorità viene data a iniziative concrete sul terreno da parte di chi è direttamente coinvolto nelle singole situazioni di crisi. Prevale il pragmatismo. Si guarda agli attori dei conflitti in corso. La Corte internazionale dell'Aja non viene considerata un protagonista significativo nella crisi del Medio Oriente. Ciò che deciderà, o non deciderà, sulla questione della barriera di sicurezza sarà ininfluente».
Ma l'amministrazione Bush si dice impegnata a far avanzare la Road Map. Gli effetti della sentenza potrebbero sentirsi sull'iniziativa del Quartetto?
«Ciò di cui si discute oggi in Medio Oriente non è la Road Map confezionata da Russia, Unione Europea, Stati Uniti e Nazioni Unite ma l'iniziativa che è stata presa dal primo ministro israeliano Ariel Sharon per arrivare a smantellare tutti gli insediamenti presenti nella Striscia di Gaza, all'interno di un progetto che sembra essere più ampio e teso ad arrivare alla completa separazione territoriale fra israeliani e palestinesi. Non sono stati i Paesi arabi o i palestinesi a prendere l'iniziativa ma Sharon. Stiamo andando in una direzione totalmente nuova, ricca certo di incognite ma anche di nuove opportunità, che devono essere valutate».
Ariel Sharon arriverà in marzo a Washington per discutere con Bush l'iniziativa adottata. Cosa si prepara a dirgli il presidente?
«Al momento è difficile fare previsioni, l'unica cosa certa è che il governo israeliano afferma di aver deciso di ritirare i propri cittadini dalla Striscia di Gaza.. Questo è il nuovo punto di partenza sul quale Stati Uniti ed Israele stanno iniziando a lavorare in attesa di segnali di disponibilità ed apertura da parte dei palestinesi e dei Paesi arabi della regione. Ricordiamoci che per George Bush il ruolo delle nazioni che confinano con Israele è cruciale per garantire il raggiungimento dell'obiettivo di due Stati uno a fianco dell'altro, in pace e sicurezza. Il presidente resta fortemente vincolato alla visione dei due Stati, è stato il primo inquilino della Casa Bianca a parlare chiaramente in favore della nascita di uno Stato di Palestina».
George Bush ed i suoi più stretti collaboratori hanno espresso giudizi alterni sulla barriera di sicurezza che Israele sta costruendo dentro il territorio della Cisgiordania. Quale è l'opinione prevalente?
«Il tema della barriera di sicurezza non può essere ridotto ad una questione legale o morale, ovvero il terreno su cui qualcuno sta tentando di spingere la Corte internazionale dell'Aja. La barriera deve essere inquadrata nella realtà regionale. Si tratta di un problema sussidiario rispetto alla questione centrale, che è quella della sicurezza e della necessità di contrastare gli attacchi terroristici da parte dei gruppi islamici. E' il terrorismo l'ostacolo sulla via dell'accordo fra palestinesi ed israeliani. Non la barriera. Non bisogna perdere di vista il quadro generale della crisi, neanche alla luce dell'inizio dei lavori della Corte dell'Aja».
In Europa tuttavia l'aspetto morale della costruzione di cemento e filo spinato che separa città e villaggi è prevalente...
«In America l'approccio è molto differente. Come spesso avviene sulle questioni che concernono il tema della sicurezza e della lotta al terrorismo».
Aurelio Anselmo, pag. 26, "Il Muro, questione mal posta"
L’inizio delle udienze davanti alla Corte Internazionale di Giustizia dell’Aja, in merito alla richiesta di parere consultivo da parte dell'Onu sulla creazione della barriera di sicurezza in Israele, pone una serie di questioni giuridiche, ma soprattutto politiche, che tale costruzione solleva, come sempre accade ogni qualvolta viene adottata una qualsiasi misura da parte degli stati che affrontano il triste fenomeno del terrorismo, dove il giusto equilibrio tra l'esigenza di sicurezza, interna ed internazionale, e le considerazioni umanitarie è sempre difficile da cogliere.
Non convincono, sotto il profilo giuridico, le modalità ed i termini in cui è stata posta la questione e presentata la richiesta alla Corte da parte dell'Assemblea Generale delle Nazioni Unite. La formulazione del quesito, lungi dall'apparire esclusivamente finalizzata a raggiungere l'obiettivo che ci si propone, sembra invece indirizzata ad impedire l'adozione di un qualunque serio, sereno, equilibrato e giuridicamente appropriato parere utile alla soluzione del problema. Infatti alla Corte è stata sottoposta la questione solo in modo parziale ed unilaterale, con la sola richiesta di pronunzia sulle misure prese dallo Stato di Israele a tutela della propria sicurezza e delle sue comunità sociali, ma non è stato contemporaneamente sottoposto alla Corte il problema delle misure antiterroristiche e di difesa da adottare nei confronti del terrorismo in genere, e palestinese in particolare, atteso che proprio per prevenire il medesimo è stata progettata la barriera.
Non solo la richiesta presentata alla Corte, ma anche la risoluzione di ben 20 paragrafi adottata dall'Assemblea Generale per richiedere il parere, ed il dossier di ben 88 documenti fornito alla medesima, non contengono un solo riferimento al fenomeno del terrorismo, in particolare palestinese, ancora in corso, o al diritto di Israele all'autodifesa. In tal senso è triste richiamare un semplice dato statistico: 927 tra bambini, donne e uomini negli ultimi tre anni e mezzo in Israele sono rimaste vittime della violenza terroristica..
Appare utile perciò ricordare che il «Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti illeciti internazionali», elaborato ed adottato nell'agosto 2001 dalla Commissione di Diritto Internazionale dell’Onu, nei suoi 59 articoli, si è occupato espressamente dell'illecito internazionale sia sotto il profilo dei suoi elementi costitutivi che delle sue conseguenze.
Tale «Progetto» si riferisce in primo luogo alle azioni degli Stati e dei loro Organi, ma si applica anche alle responsabilità per i comportamenti adottati da persone che pongono in essere azioni illecite con l'avallo, diretto o indiretto, di organi pubblici, statali e non, a cui invece incombe il preciso obbligo di reprimerle preventivamente. Sotto questo profilo l'illecito dell'istituzione consiste nel non adottare le misure idonee alla prevenzione della commissione di atti illeciti, anche da parte di privati soggetti, e nel non punirne gli autori. In ciò appare evidente la responsabilità quantomeno oggettiva ad oggi dell'autorità palestinese.
Ammesso - e non concesso - che la costruzione della barriera protettiva possa ipotizzare una fattispecie di illecito giuridico - tanto da sollecitare l'intervento della Corte Internazionale di Giustizia - rammentiamo che concordemente e conformemente la comunità scientifica ritiene, tra le cause o circostanze esimenti di responsabilità, o meglio escludenti il carattere della illiceità - di cui agli artt.20 e 21 del richiamato Progetto- proprio la «autotutela», ossia il compimento di azioni, non violente né con la forza, dirette a reprimere o meglio prevenire il comportamento illecito altrui, e che quindi, in quanto tali, non possono essere configurate come antigiuridiche, tendendo anzi ad evitare azioni e comportamenti generatori di tensioni, anche a livello internazionale, e che invece sotto tale profilo appaiono anche finalizzate al perseguimento ed al mantenimento della pace.
Una prospettazione equilibrata, ed a 360 gradi, della problematica nel suo complesso avrebbe permesso alla Corte di affrontare anche la sopra ipotizzata responsabilità dell'Autorità palestinese per il mancato adempimento ai suoi obblighi di combattere il terrorismo, sottoscritti con gli accordi israelo-palestinesi, che prevedevano la raccolta ad esempio delle armi illegali e la rinunzia all'incitamento alla violenza.
La barriera non appare ledere alcun diritto del popolo palestinese, e là dove è stato richiesto un sacrificio, per impossibilità di evitarlo, è stato previsto un idoneo risarcimento, ferma restando la possibilità di attraversamento lecito della medesima da parte dei lavoratori e dei soggetti in genere palestinesi.
Ove la Corte dovesse cedere all'equivoco di assecondare una manovra che allo stato appare caratterizzata più dall'aspetto politico che giuridico, correrebbe il rischio di vedere minata a livello internazionale la sua credibilità - un vero peccato, dato che sinora si è mantenuta al di sopra delle macchinazioni politiche dei vari Stati - correndo il rischio di contribuire involontariamente a vanificare gli sforzi che la comunità internazionale sta ponendo in essere per riportare le due parti di questo conflitto al naturale tavolo politico dei negoziati.

Docente di Diritto Costituzionale Comparato
Università di Palermo
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