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La Stampa Rassegna Stampa
23.02.2004 Con Beltemme la barriera difensiva non c'è ancora
e l'autobus n°14 salta in aria

Testata: La Stampa
Data: 23 febbraio 2004
Pagina: 3
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Strage su un autobus a Gerusalemme: "Il muro li fermerà"»
A commento dell'attentato sull'autobus n°14 di ieri a Gerusalemme pubblichiamo l'articolo di Fiamma Nirenstein uscito a pag.3 della Stampa di oggi 23.02.04
L’ATTENTATO numero ventinove a Gerusalemme è avvenuto in uno dei punti più belli della città: fra il parco della Campana della Libertà, e l’antico quartiere, ora fiorito di mandorli, di Mishkenot Shaananim di fronte alle mura della Città Vecchia. Ma la vita normale dieci minuti dopo lo scoppio è già stata stravolta; niente è più buono o bello, c’è solo sangue, soltanto ferocia senza precedenti: «E’ un pogrom continuo» sospira un giornalista israeliano, Amnon Lord. Giungiamo sul posto con altri giornalisti fra le ambulanze e le macchine della polizia. Il rumore delle sirene ha qualcosa di gigantesco, riempie la sospensione, annulla in maniera brutale il silenzio stupefatto creatosi per un istante dopo lo scoppio che si è udito in tutta la zona. L’autobus sventrato è proprio all’angolo del semaforo che porta dal Quartiere Tedesco al centro, e il semaforo come impazzito continua a cambiare colore; intorno gli uomini di «Zaka», ben visibili per i grembiuli gialli che indossano, raccolgono frammenti di esseri umano nei loro sacchi di plastica.
In tredici minuti i feriti vengono sgomberati. Gli zaini dei ragazzi che andavano a scuola nell’ora di punta sono già ammucchiati presso la stazione di benzina. Sono là di fronte: presto saranno raccolti in sacchi bianchi. Il «Gymnasia Rehavia» conta un morto e dieci feriti tra i suoi allievi. La Scuola d’arte, a pochi metri di distanza, conta sei feriti fra i suoi scolari. Ce lo dice uno degli insegnanti accorso sul posto: «Ormai lo sappiamo, a quest’ora avvengono gli attentati, è l’ora di punta, siamo allenati a muoverci in fretta». Un ragazzo biondo indica i sedili bruciati, li guardiamo attraverso le orbite vuote delle finestre e delle portiere divelte: là nel mezzo, racconta, c’era un morto seduto, ancora al suo posto con la testa rovesciata, anche nei sedili anteriori c’erano due morti. Più tardi sapremo che si trattava di due ragazzi di diciotto anni. Accanto al numero numero 14 sventrato, vediamo le auto private colpite dall’esplosione: sono state coinvlte nell’esplosione innescata dal terrorista suicida, l’incubo di ogni guidatore che supera un autobus a Gerusalemme.
Esce dalla folla intorno all’autobus un uomo pallido come uno straccio, ha le mani grondanti di sangue, e più che le mani fanno impressione le scarpe, anch’esse rosse; si chiama Nir Barkat, è un consigliere comunale di 44 anni: «L’ironia della sorte è che dovevo partire per l’Aja con la delegazione che deve spiegare le nostre fondate ragioni per costruire la barriera di difesa: invece avevo un impegno in una scuola comunale; l’autobus mi è scoppiato a pochi metri. Ho abbandonato l’auto, mi sono precipitato dentro l’autobus pieno di fumo e fuoco. No, non mi chieda che cosa ho visto là, su cosa ho messo queste scarpe, cosa ho toccato. Mani, gambe straziate...ho cercato di arginare con le mani il sangue che usciva a fiotti da una ferita sul corpo di una ragazza che avrà avuto dai 15 ai 17 anni, ho tirato giù dall’autobus due bambini. La vita dei ragazzi morti, chi ce la restituirà? E pensare che all’Aja discutono della qualità della vita dei palestinesi, mentre ancora c’è da parlare della vita stessa, del diritto a vivere, perchè nessuno parla della nostra vita?».
Il senso di orrore quando un autobus viene fatto saltare per aria va sempre insieme al dolore e allo stupore, non si trova spiegazione umana a perchè quel bambino, quella ragazza abbiano sofferto la peggiore offesa, la privazione della vita. Ma la ferita è peggiore proprio a causa dell’apertura, oggi, della discussione all’Aja sulla barriera di separazione.
Sembra stupefatto infatti Uri Lupoliansky, il sindaco di Gerusalemme: «Non riesco a darmi pace per come il mondo possa girare alla rovescia: il mondo organizza un tribunale per processarci perchè cerchiamo un mezzo per difenderci con una barriera e quindi senza sparare, senza uccidere, invece di riunirsi per domandarsi sinceramente come fare a salvarci da questo omicidio continuo che punta ad annientarci».
Arrivano infomazioni terribili: c’è un ferito grave che ha perso sua sorella nell’esplosione di un altro autobus un anno fa, una madre disperata ha ambedue i figli ricoverati all’ospedale, uno in gravi condizioni. Miki Levy, il capo della polizia ripete che l’esplosione di ieri era stata preceduta da cinquanta segnalazioni alla polizia che parlavano di terroristi suicidi sguinzagliati per il Paese. Il portavoce del governo Dany Seaman mostra tenendoli in una mano guantata due bulloni che erano stati aggiunti alla bomba così da renderla più micidiale: «Non si tratta più di terrorismo: terrore è qualcosa che tende a cambiare la percezione politica, a cambiare la vita della gente costringendola a nascondersi, a richiudersi. Questo non è accaduto: fra poco qui ci sarà il solito traffico, i ragazzi andranno a scuola, la sera usciranno per stare insieme. Non è terrorismo: è la volontà di uccidere quanti più ebrei possibile, è un’intenzione che non conosce cause nè effetti. E un omicidio infinito, fine a se stesso, commesso ogniqualvolta se ne presenti la possibilità».Il pellegrinaggio di uomini politici e di semplici cittadini che portano una candela votiva sul luogo della strage, nella confusione del momento pure invocano una sola cosa: il muro di divisione, unica speranza. Mancano ancora venticinque chilometri di barriera per difendere Gerusalemme dalla continua infiltrazione di terroristi, e la gente è scandalizzata che si voglia impedirne la costruzione. La signora Ruth Montilio, madre dei due ragazzi feriti racconta le sette ore di intervento subito dal figlio adolescente Isi, e dello strazio di quando ha ricevuto dalla scuola del bambino più piccolo l’avviso telefonico che il piccolo non era arrivato in classe. «Chi dice che questo attacco compiuto proprio ieri dimostra che la barriera non serve, bene, dice sciocchezze: ci colpiscono giorno e notte, ogni volta che gli riesce di ucciderci, senza distinzione. La barriera è la più grande speranza per riprendere a parlare di pace, una volta che i terroristi saranno tenuti fuori da qui». «Il mondo - si accalora disperato Barkat - si svegli una buona volta: siamo vittime di una strage quotidiana, la comunità internazionale si impegni a salvarci invece che a farci il processo».

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