La barriera d'Israele 10 valide ragioni per sostenere la sua necessità
Testata: Il Foglio Data: 19 febbraio 2004 Pagina: 3 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «La barriera d'Israele aiuta il dialogo, ecco il decalogo dei perchè»
Riportiamo l'articolo di Emanuele Ottolenghi a sostegno della barriera di difesa, pubblicato sul Foglio di oggi, giovedì 19 febbraio '04. Alla vigilia del dibattito in seno alla Corte di giustizia internazionale dell’Aia sulla barriera di difesa israeliana in corso di costruzione in Cisgiordania, è bene chiarire alcuni punti importanti sulla natura della barriera stessa, sugli scopi per cui è stata pensata e sui problemi che solleva.
Primo: la difesa contro il terrore La barriera difensiva israeliana consiste innanzitutto in un meccanismo di difesa contro il terrorismo. Se non ci fosse il terrorismo, non ci sarebbe la necessità della barriera. Essa è quindi la conseguenza, non la causa, del terrorismo.
Secondo: un messaggio a chi ha fatto la guerra I leader palestinesi hanno finora evitato di prendersi le proprie responsabilità per aver scatenato l’Intifada e per non aver fatto nulla per fermarla o almeno per rimuoverne l’elemento violento, optando per una resistenza pacifica di disobbedienza civile. Con la firma del trattato di Oslo la leadership palestinese ha solennemente rinunciato alla violenza, optando per la diplomazia come strumento per la risoluzione di qualsiasi contenzioso con Israele. L’Intifada rappresenta una violazione di quel solenne impegno: di questa guerra i palestinesi devono prendersi la piena responsabilità. Chi scatena una guerra non può guadagnare dall’aggressione perpetrata. La barriera rappresenta dunque un messaggio e una punizione: chi fa la guerra non può aspettarsi altro che una reazione violenta. Chi fa la guerra e la perde non può aspettarsi generose concessioni, ma semmai perdite territoriali e misure più draconiane di quanto la diplomazia avrebbe offerto. Come diceva Otto von Bismarck, "ai vinti solo gli occhi bisogna lasciare, per piangere".
Terzo: la mancanza di un vero interlocutore La continuazione a oltranza dell’Intifada e l’inesorabile discesa nell’anarchia della società palestinese segnala all’opinione pubblica israeliana che manca un partner credibile per negoziare. La situazione di stallo diplomatico e di guerra d’attrito sollecita la costruzione della barriera non solo come meccanismo di prevenzione del terrorismo ma anche come possibile confine de facto e strumento di separazione tra Israele e i palestinesi in mancanza di un accordo di pace che entrambe le parti possano accettare. La barriera dà a Israele maggior libertà di manovra politica in mancanza di un credibile e serio interlocutore.
Quarto: la rimozione di misure più umilianti Le misure di sicurezza tese a ridurre (ma non a eliminare) la minaccia terroristica si sono rivelate finora molto più draconiane e umilianti della barriera stessa. La barriera, seguita da un ritiro unilaterale israeliano, permetterebbe la rimozione degli umilianti posti di blocco israeliani, l’eliminazione dei coprifuoco, e l’uscita dell’esercito israeliano dalle città palestinesi, rioccupate durante l’operazione "Muro difensivo" nell’aprile 2002. Riducendo le cause della sofferenza civile palestinese oltre che dei punti di frizione e scontro e delle fonti di umiliazione si può sperare di ridurre la motivazione e il sostegno di coloro che promuovono e praticano la lotta armata.
Quinto: l’utilità di un confine di fatto La creazione di un confine di fatto, per quanto provvisorio e mutevole in caso di futuro accordo, rende la barriera un meccanismo che permette a Israele di ponderare un ritiro unilaterale dalla Cisgiordania in un futuro prossimo, casomai i leader palestinesi si ostinassero a sfruttare la pressione terroristica su Israele come strumento di estorsione di maggiori concessioni diplomatiche da parte dello Stato ebraico. Una volta ritirato dalla Cisgiordania, Israele lascerebbe i palestinesi al loro destino e non innesta la paventata opzione di ritiro unilaterale da Gaza nei prossimi mesi, il problema di possibile perdita di deterrenza strategicaisraeliana che conseguirebbe al ritiro, e il rischio che la barriera possa politicamente rivelarsi controproducente, aumentando la pressione internazionale su Israele, alimentando la campagna contro la soluzione dei due Stati da parte dei palestinesi e rafforzando gli estremisti in campo palestinese che vedrebbero un ritiro israeliano come un segnale che il terrorismo funziona.
Settimo: l’estensione a Est della linea verde Quanto più la barriera israeliana si estende della leadership politica di destra che aspira a includere molto più territorio) comporta l’annessione de facto del 14 per cento della Cisgiordania e l’incorporazione di 170 mila coloni israeliani, oltre che di qualche decina di migliaia di palestinesi. La barriera dovrebbe inoltre lasciare ai palestinesi il controllo del confine con la Giordania. Il mutato assetto geostrategico della regione rende l’importanza della valle del Giordano minima per Israele e dovrebbe scoraggiare un’estensione orientale della barriera che avvilupperebbe i territori palestinesi impedendone la transizione a Stato indipendente.
Nono: le carte per i negoziati futuri Israele teme che un ritiro unilaterale offra ai palestinesi un incentivo a continuare la violenza perché il ritiro senza contropartita ne dimostrerebbe l’efficacia di ottenere rinunce israeliane senza concessioni palestinesi. Un ritiro parziale (che comporti un’annessione di fatto del 14 per cento della Cisgiordania) avrebbe l’effetto opposto: Israele avrebbe ulteriori carte negoziali se i palestinesi volessero ottenere più dell’85 per cento del territorio da loro rivendicato, ma chiudendo lo spazio per un negoziato nel futuro prossimo punirebbe i palestinesi per aver perso l’opportunità di un risultato migliore conseguito con la diplomazia prima dell’Intifada.
Decimo: la scelta finale dell’Anp Il ritiro unilaterale, se attuato in modo da lasciare un territorio palestinese contiguo in Cisgiordania (e separatamente a Gaza), costringerebbe i palestinesi a decidere che tipo di società desiderano costruire e sotto quale leadership. Un ritiro israeliano da Gaza farebbe precipitare lo scontro tra Autorità palestinese e Hamas, e lo stesso discorso vale per la Cisgiordania, se il ritiro israeliano fosse accompagnato (come si presume lo sarà a Gaza) da una parziale evacuazione di insediamenti israeliani isolati. I palestinesi temono che il ritiro scateni la guerra civile nell’Anp. Per Israele questo risultato non è negativo: ridurrebbe l’incidenza di atti terroristici contro Israele e si trasformerebbe in un incentivo per i palestinesi a riaprire il negoziato prima che sia troppo tardi e che arrivi anche per loro il momento della verità su chi comanda, Hamas o l’Olp. Israele non deve solo affrontare l’ostilità di una Corte internazionale politicizzata: nei prossimi mesi dovrà trovare un difficile equilibrio tra il bisogno di mantenere intatta la propria deterrenza strategica nei confronti delle organizzazioni terroristiche, di conservare la propria capacità di prevenirne gli attacchi senza infierire troppo sulla popolazione palestinese, di preservare l’opzione dei due Stati senza pregiudicare il proprio futuro di Stato ebraico (e quindi per corollario di non impedire la creazione di uno Stato palestinese) ma di far pagare ai palestinesi un prezzo per la loro ostinazione a preferire la violenza alla diplomazia. Il tutto nella consapevolezza che l’opportunità di un accordo è ormai rimandata sine die e che quindi, per buona pace dei giudici dell’Aia, tocca procedere sulla via unilaterale prima che sia troppo tardi. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.