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La Stampa Rassegna Stampa
11.02.2004 Il Tribunale dell'Aja
un processo politico

Testata: La Stampa
Data: 11 febbraio 2004
Pagina: 13
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «All’Aja il secondo fronte della battaglia del Muro»
Proponiamo ai lettori l'analisi di Fiamma Nirenstein sul processo dell'Aja che inizierà a giorni e le decisioni del governo israeliano.
Per i palestinesi è «razzismo e apartheid», per Israele una barriera di difesa temporanea. Il dilemma: presentarsi o ricusare i giudici?

Accadde l’8 di gennaio: quel giorno, l’Assemblea generale dell’Onu votò a favore di una risoluzione che chiedeva alla Corte internazionale di giustizia dell’Aja un’opinione consultiva sulla costruzione del recinto di sicurezza fra Israele e i palestinesi, con le sue molte deviazioni nella West Bank; e la prima udienza,fissata al 23 di febbraio, si può giurare che sarà terribilmente drammatica. Gli israeliani intendono piazzare davanti all’ingresso della Corte un autobus sventrato da un’esplosione, i palestinesi manifesteranno con accuse di razzismo e di apartheid.
Danny Gillerman, l’ambasciatore di Israele all’Onu, chiama la barriera di sicurezza «il recinto di Arafat», intendendo con questo che è il frutto non scelto della violenza dell’Intifada; per i palestinesi, è il «muro dell’apartheid» per il quale Israele deve ricevere la condanna internazionale in quanto viola i diritti umani e la legge internazionale, dato che passa nei territori occupati nel 1967. Secondo Gerusalemme è senza dubbio un «gader», un recinto, dato che su circa 600 chilometri meno di otto sono, o saranno, di cemento, mentre il resto è fatto di reticolato sorvegliato elettronicamente e munito di numerose aperture. La sua motivazione, dice Israele, lungi dall’essere quella di una separazione permanente e tanto meno etnica, è quella dell’autodifesa dalla porosità del confine da cui passano senza tregua i terroristi con cinture di tritolo che fanno stragi sugli autobus e nei caffè, oppure sparano dal margine delle strade sui passanti. E’ un recinto temporaneo, dicono, mentre i morti sono permanenti.
Via via che si avvicina la data del «processo» e in presenza di una delegazione di tre inviati americani, una commissione speciale elabora nuovi piani per neutralizzare le maggiori accuse dei palestinesi (ha gia abbreviato di cento chilometri il percorso originale avvicinandosi alla «linea verde», lasciando fuori quasi tutti gli insediamenti e rinunciando a circondare villaggi palestinesi in anelli di sicurezza); ma l’Autonomia insiste che si tratta della distruzione della vita lavorativa e civile e della libertà di movimento di migliaia di persone non per difendere i cittadini, ma per annettere parte dei Territori. Israele dice che i palestinesi vogliono semplicemente continuare la loro guerra di terrore, e risponde con i dati di Gaza, circondata appunto da un recinto, da cui non sono praticamente mai usciti attentati. Gli attentati, aggiunge Israele, creano quella catena di azione e reazione che è madre dello scontro permanente; la pace, e quindi la rimozione del recinto, sarà più facile se taceranno le armi.
Ma lo scontro è mortale: i palestinesi si preparano all’Aja ideologicamente, come si prepararono per Durban, e parlano in ogni intervento di «razzismo», di «apartheid». Intanto Israele, che ha accettato secondo il suo strano stile un autoprocesso avviando domenica le udienze della Corte suprema che così (prima dell’Aja) discute in questi giorni sul recinto in base a una richiesta del Moked, il «Centro per la difesa dell’individuo», dichiaratamente filopalestinese. La Corte suprema è visibilmente imbarazzata e decisa a fare tutto il suo proverbiale dovere. Il problema resta la strada che Israele dovrà prendere quando si apriranno le udienze all’Aja. Quella della negazione della competenza della Corte, presa fino ad oggi? Oppure quella del diretto sostegno, con molte prove, della indispensabilità del «gader» per difendersi?
Se Gerusalemme manderà una delegazione e un gruppo di avvocati (i palestinesi hanno arruolato i migliori del mondo) e anche se chiederà che fra i giudici ce ne sia anche uno israeliano, accetterà implicitamente l’autorità della Corte. Invece per ora ha preso la strada della negazione della competenza della Corte, cui ha mandato un «affidavit» chiedendo di abbandonare la causa per via del carattere politico del processo: quando l’accusa parla di un muro costruito su «territori occupati palestinesi», ignora la Risoluzione 242 dell’Onu che parla di «territori contesi», destinati a trovare un assetto definitivo quando le due parti raggiungeranno un accordo. Se Israele però intraprende la strada del rifiuto della competenza (puntando sulla possibilità che qualche giudice, sulla scia di vari Paesi, compresi molti Stati Europei, sia dello stesso parere) rischia poi un «processo» in cui sarà bombardata di accuse avendo rinunciato alla possibilità di difendersi.
Che la Corte si tiri indietro è altamente improbabile; terrà duro sulla sua competenza, e la maggioranza dei suoi 15 componenti, secondo indiscrezioni dall’Aja, non ama lo Stato ebraico. La giurista Michal Pomerance dell’università di Gerusalemme ha verificato la tendenza dei giudici a confermare il parere politico del Paese d’appartenenza e dell’Onu in generale. La lotta per Israele così si presenta su due piani: rifiuto della Corte, spiegazioni senza tregua all’opinione pubblica internazionale. L’opinione finale è «consultiva», ma le norme indicano anche che l’autorità giuridica è simile a quella di ogni altra corte e sostenuta dall’Onu. Israele, che ha avuto mille morti, è molto agitata per l’enorme segnale di presa di distanza inviatogli con il «processo» dall’opinione pubblica mondiale: «Viene da chiedersi quanti morti dobbiamo piangere perché possiamo avere il permesso di difenderci», dice un ufficiale del ministero degli Esteri.
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