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La Repubblica Rassegna Stampa
10.02.2004 Le reazioni dei coloni israeliani
dopo l'annuncio di sgombero di Sharon

Testata: La Repubblica
Data: 10 febbraio 2004
Pagina: 13
Autore: Alberto Stabile
Titolo: «La rabbia dei coloni israeliani: Non lasceremo le nostre terre»
Su Repubblica di oggi Alberto Stabile scrive un reportage sulla vita negli insediamenti all'interno della striscia di Gaza. Il pezzo è sostanzialmente corretto, tuttavia ci domandiamo come mai Stabile si dilunghi nel descivere i problemi e le contaddizioni di Israele, tacendo invece su quelli dei palestinesi.A quando le stesse doti di segugio applicate all'ANP?
(a cura della redazione di IC)

Ecco l'articolo.

GUSH KATIF (GAZA) - Questa da Sharon non se l´aspettavano. Proprio lui, l´architetto degli insediamenti, lo stratega della Grande Israele per successive annessioni, l´uomo che appena un paio d´anni fa aveva proclamato che «il destino di Netzarim era lo stesso destino di Tel Aviv», proprio lui doveva elaborare un´idea così «balzana», «catastrofica», «immorale»? La risposta dei coloni di Gush Katif, il blocco di 17 insediamenti che dovrebbe essere trasferito altrove, gronda rancore: «Un gesto di opportunismo per salvarsi dagli errori dei figli», «una precoce caduta nell´irrazionalità senile» oppure, come dice sarcastico il portavoce del Consiglio regionale, Eran Sterenberg, «uno sdoppiamento della personalità tipo Dottor Sharon e Mister Arik».
Siamo a Neve Dekalim, ben oltre il check point di Kissufim, laddove la striscia improvvisamente si restringe e oltre le dune circondate dal filo spinato scintilla il mare. «Ecco, vedete - spiega la nostra guida - prima che arrivassimo, trent´anni fa, qui non c´era niente. Una landa disabitata. Un deserto. Nessuno reclamava questa terra, neanche gli egiziani, che pure l´avevano governata per anni. Ma grazie al disastro di Oslo, oggi si sono infiltrati gli invasori, e noi ebrei di Gush Katif siamo diventati minoranza in casa nostra, 7500 noi, 8000 gli arabi». In realtà, non c´è nulla che possa dare l´idea di una guerra mai finita o di una pace incompiuta tra due popoli in lotta per lo stesso territorio, meglio del paesaggio che abbiamo di fronte. Gli insediamenti sembrano oasi assediate. Cavalli di Frisia, postazioni superprotette, torrette d´avvistamento, piste di terra battuta per scoprire eventuali infiltrazioni, circondano i villaggi dei coloni, come fosse un paese diverso, un altro mondo.
E lo è, un altro mondo. Qui tutto è ordine, pulizia, agiatezza. Ogni casa ha il suo prato, le palme, le aiuole fiorite, la veranda che guarda il mare, i famosi tetti rossi che spiccano nel grigiore sabbioso della striscia e danno un tocco d´allegria. Ma basta attraversare i cancelli ed ecco, nella foschia il profilo di Khan Yunis. Poco più in là l´inferno di Dir el Balah, il campo profughi forse più affollato di Gaza. La notte si spara verso gli insediamenti: 3904 colpi di mortaio, dicono i coloni, in poco più di tre anni.
Eppure guai a mettere in relazione le due cose, la presenza degli insediamenti e la risposta armata dei palestinesi. «Non siamo noi ad aver provocato il terrorismo, semmai è vero il contrario, noi siamo venuti qui per difendere Israele, prima dai fedayn e poi dai kamikaze di Arafat. Ricordate la strategia delle cinque dita ideata da Golda Meir per isolare con gli insediamenti le città palestinesi della striscia? Tutto questo, ora, non conta più? Ma se rimanere qui vuol dire essere d´ostacolo al processo di pace, ebbene siamo fieri di esserlo».
Non è solo questo presunto ruolo strategico a spingere i coloni di Gaza (o, come preferiscono dire, del Negev occidentale) ad opporsi allo sfratto ordinato da Sharon. Loro si considerano anche promotori di ricchezza, imprenditori capaci, secondo il noto slogan sionista, di far fiorire il deserto. La fattoria di Elul Yoav viene portata ad esempio.
Ettari ed ettari di serre producono il 60 per cento della verdura che si consuma in Israele e il 70 per cento di quella che viene esportata nel mondo. Agricoltura organica la chiamano e ha il pregio di essere, secondo le norme della cucina kasher, del tutto priva d´insetti o di parassiti. Nella sezione imballaggio lavorano una decina di tailandesi, silenziosi, straniti, sorridenti. Una piccola avanguardia del migliaio di stranieri, quasi tutti asiatici, arruolati nelle serre di Gush Katif, paga dai 70 ai cento shekels al giorno, poco più di venti dollari.
Come mai vengono assunti degli stranieri, con tanti palestinesi senza lavoro nella poverissima Gaza? «Io preferirei di gran lunga lavorare coi palestinesi e di fatto ne impieghiamo alcuni - spiega Yakov l´agronomo - . Può sembrarle un paradosso ma coi palestinesi è diverso. Noi li conosciamo, loro ci conoscono. Hanno la mano per l´agricoltura, l´intelligenza. Ma il ciclo produttivo non ammette interruzioni e quando ci sono problemi e l´esercito chiude Khan Yunis noi dobbiamo andare avanti lo stesso».
Nella casa piena di quadri di Moshè e Rachel Saperstein, americani di Manhattan, emigrati in Israele nel ?67, si può capire cosa succederà se mai verrà ordinato di sgomberare gli insediamenti. Lui ha partecipato alla guerra del Kippur, perdendo il braccio destro e un occhio. Una mano gli è stata a mala pena ricostruita con un dito di meno a causa di un attentato subito nel ?94. Una figlia della coppia è miracolosamente sopravvissuta all´esplosione di un autobus, a Gerusalemme «Vede - dice Moshè - Sharon non mi ha mai deluso perché ho sempre pensato che agiva per i propri interessi. Perché stupirsi adesso? Vivere qui mi ha dato la certezza che Dio ci protegge. Altrimenti non saremmo sopravvissuti a tanti colpi di mortaio e per ciò Dio ci permetterà di restare. Ma se questa non dovesse essere la sua volontà e deciderà che dovremo andare, allora troverò un altro insediamento al di là della linea verde e mi trasferirò li».
«Ad Hebron - interviene Rachel-. Non a Kiriat Arba (l´insediamento esterno alla città, n.d.r.), proprio a Hebron city».
Ma se dovessimo provare a descrivere il sentimento generale dei coloni di Gush Katif diremmo che la maggior parte non osa immaginare neanche lontanamente che un giorno dovranno fare le valigie. E´ qualcosa al di fuori del loro orizzonte. Come per Yehuda, ingegnere elettronico d´origine argentina, sei figli e un´esperienza d´evacuazione alle spalle quando, dopo la pace con l´Egitto, dovette abbandonare la casa di Atzmona, nel Sinai. «Non oso neanche pensare a quel giorno, perché so che non arriverà mai e, comunque, - dice con aria dimessa - non è questione di destini personali. Quello che ha detto Sharon è l´inizio della fine, non di questo o quell´insediamento ma del sogno della grande Israele».
Mentre lasciamo la scuola rabbinica che l´"altro" Sharon inaugurò anni fa con una frase scolpita, «Siano tornati a casa, per sempre», il portavoce Sterenberg spiega come il ritiro da Gaza dovrebbe preoccupare il mondo intero. Nella visione estrema che vuole il conflitto coi palestinesi, come una variante dello scontro di civiltà, tutto Israele è un grande insediamento a difesa dell´Occidente. Perciò ritirarsi oggi, oltre ad essere un premio insperato al terrorismo, sarebbe anche inutile, «perché, tanto, saremo costretti a tornare, soltanto dopo pochi mesi».
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