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La Stampa Rassegna Stampa
10.02.2004 Una laurea honoris causa immeritata
ad un diplomatico onusiano miope su Israele

Testata: La Stampa
Data: 10 febbraio 2004
Pagina: 10
Autore: Marina Verna
Titolo: «Il nostro peacekeeping lungo il confine più caldo di Israele»
Carlo Casalegno, uno dei pochi giornalisti che sempre ha preso le difese di Israele, probabilmente si rivolterà nella tomba nel sapere che una laurea honoris causa intitolata al suo nome è stata data ad un diplomatico buono per tutte le stagioni come Staffan de Mistura. De Mistura, a Torino oggi per ricevere la Laurea Honoris Causa, nella sua intervista alla Stampa, sostiene che le tensioni al confine nord d'Israele sono dovute in primis al comportamento provocatorio israeliano; oltre a dimenticarsi delle katiusce e dei rapimenti e uccisioni di soldati, dice che le fonti d'acqua saranno un punto di frizione, salvo poi sostenere subito dopo che lì l'acqua c'è. Non c'è da stupirsi se poi Israele vede con diffidenza le istituzioni dell' Onu. Pubblichiamo l'intervista, istruttiva per capire come ragiona una certa diplomazia. Per guardarsene.
Il diplomatico Staffan de Mistura, rappresentante del Segretario Generale dell´Onu per il Libano, riceve oggi dall’Università di Torino una laurea honoris causa alla memoria di Carlo Casalegno in Scienze Strategiche. La sua attuale missione - dopo quattro anni a Roma come direttore dell’ufficio Onu per l’Italia - è il peacekeeping lungo la linea blu che segna il confine Siria-Libano-Israele
«Abbiamo duemila soldati - tra cui 56 elicotteristi italiani - a pattugliare 122 chilometri di una frontiera potenzialmene molto pericolosa. Come si dice nel mondo della diplomazia, la situazione palestinese è molto preoccupante ma la frontiera siro-libanese-israeliana è molto pericolosa».
Perché questa differenza di valutazione?
«Perché da una parte c’è un’alta potenzialità militare, dall’altra singoli scontri e atti di terrore. La Siria è una potenza militare, Israele ha un esercito ragguardevole, gli Hezbollah sono una milizia. In più c’è il Libano. Queste entità molto ben armate si guardano lungo una frontiera che sta in una regione - il Medio Oriente - potenzialmente esplosiva».
Dove basta una scintilla...
«... a farla esplodere. Anche perché questa è l’unica zona del Medio Oriente dove esiste la possibilità concreta di un conflitto militare. Altrove sono stati fatti trattati di pace, c’è un rapporto diverso con le frontiere. Qui invece ci sono tre punti di grande frizione: le Fattorie di Shaba, rivendicate dai libanesi ma ancora occupate dagli israeliani. Le fonti d’acqua. I sorvoli israeliani sul territorio libanese con il pretesto di sorvegliare gli Hezbollah».
E voi, che cosa fate?
«Cerchiamo di neutralizzare la tentazione di creare incidenti. Mettiamo in atto la nostra capacità di rompere la spirale attacchi-contrattacchi. Finora siamo riusciti a contenerli in ambito locale».
Una missione di peacekeeping.
«Sì, peacekeeping puro. Un lavoro da osservatore. Un pattugliamento attivo che rende complicata la tentazione, dall’una e dall’altra parte, di produrre incidenti e toglie gli alibi a chi volesse sferrare il primo colpo e addossarne la colpa a un altro. Tutto questo funziona in ambito locale. Quando il problema diventa regionale, ci vuole ben altro».
Intanto lavorate a «rivitalizzare» quella fascia nel Sud del Libano dalla quale nel 2000 gli israeliani si sono ritirati.
«Guardi questa mappa della zona: queste sono tutte mine. Ce n’erano 400 mila».
Messe da chi?
«Buona parte dagli israeliani e qualche migliaio dai libanesi al tempo della loro guerra civile. Oltre ai residui di guerre ancora più remote. Ora le mostro una foto: vede questo omino con l’aratro? E’ la nostra mascotte. Si è sminato da solo il suo campo. Come? Con il fuoco: le fiamme fanno scoppiare le mine, anche se non tutte. Lui ci rimesso due buoi».
E voi come fate?
«Noi abbiamo tutto quello che serve: uomini, cani, tecnologie. Due anni fa abbiamo lanciato una campagna di sminamento per risolvere il problema di quello spazio lasciato vuoto dagli israeliani - il vuoto produce sempre problemi, soprattutto nelle zone di conflitto - e restituirlo alla popolazione locale».
E chi ha risposto?
«Quasi tutti i Paesi occidentali. Israele stessa, che ci ha dato le mappe delle mine. E gli Emirati Arabi Uniti che, investendo 50 milioni di dollari, hanno voluto dimostrare come anche dopo l’11 settembre mondo arabo e mondo occidentale possano lavorare insieme».
Questa collaborazione funziona?
«Sì, funziona al punto tale che abbiamo bruciato i tempi: finiremo a settembre, dopo tre anni e mezzo di lavoro, mentre si parlava di 54 anni...».
Di questo vuoto sminato che cosa farete?
«Abbiamo lanciato un secondo programma, Un albero per ogni mina. Guardi queste foto: un boschetto di alberi alti un metro e mezzo. Cresceranno bene perché lì c’è l’acqua. E ridurranno la possibilità di un conflitto aperto. E’ un modo per erodere al conflitto lo spazio di manovra, in attesa della cura finale. La pace in Medio Oriente».
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