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Il Foglio Rassegna Stampa
04.02.2004 I nuovi storici israeliani
Perchè scrivono contro Israele. Lo spiega Emanuele Ottolenghi - 2a parte

Testata: Il Foglio
Data: 04 febbraio 2004
Pagina: 1
Autore: Emanuele Ottolenghi
Titolo: «La nuova storia, il nuovo Sharon»
Pubblichiamo il seguito dell'inchiesta di Emanuele Ottolenghi sui nuovi storici israeliani.
La prima parte è su Informazione Corretta del 28.1.04

La recente pubblicazione in italiano del libro di Avi Shlaim, Il Muro di Ferro, ripropone al lettore la querelle in corso ormai da quasi vent’anni in Israele e nel mondo degli studi mediorientali sulla nuova storia israeliana. Come già scritto sul Foglio del 28 gennaio, il dibattito tra i nuovi storici e i loro critici, sia nel ramo disciplinare sia nel più ampio dibattito pubblico, va oltre la discussione sulla verità storica e la necessità di rivisitare il passato per stabilirne una migliore, più accurata e plausibile interpretazione.
Nell’estate del 2000, durante i negoziati di Camp David, la delegazione israeliana sostenne che Israele non aveva alcuna responsabilità nella creazione
del problema dei rifugiati palestinesi. Per tutta risposta, la delegazione
palestinese produsse le copie dei libri dei nuovi storici israeliani per suffragare la posizione contraria: se gli storici israeliani la avallavano, non c’era ragione che i negoziatori israeliani se ne lavassero le mani. Certo, attribuire il fallimento di Camp David a dei topi di biblioteca sembra dar loro troppo credito (o colpa). Ma è indubbio che se il problema dei rifugiati rimane centrale nel conflitto tra Israele e palestinesi, inevitabilmente gli argomenti storici che suffragano una posizione o l’altra diventano cruciali. La visione sostenuta dai nuovi storici vuole che la fondazione dello Stato d’Israele sia basata su eventi eticamente discutibili. Senza quei "misfatti", Israele non sarebbe nato. Da qui, il passo a delegittimare la nozione stessa di uno Stato ebraico e a sostenere invece la richiesta palestinese del "diritto al ritorno" dei rifugiati, come mezzo per trasformare Israele in uno Stato binazionale, è breve.

Un movimento espansionista e aggressivo
Secondo i nuovi storici il sionismo era un movimento espansionista e aggressivo,
una versione ebraica del colonialismo europeo, dedito alla rimozione di un’inerme popolazione indigena in nome di una feroce ideologia nazionalista che non poteva in alcun modo includere gli arabi nel suo progetto. I nuovi storici deducono quindi che l’inevitabile conseguenza dell’attuazione di un progetto nazionalista fosse l’espulsione forzata della popolazione autoctona. Pur attribuendo gradi diversi di responsabilità al sionismo nella creazione del problema dei rifugiati palestinesi, secondo i nuovi storici, l’ideologia sionista era inevitabilmente avvelenata dal seme della pulizia etnica – un termine utilizzato astoricamente per un’epoca dove tale terminologia e la logica che esprime non erano ancora in voga – ab initio. Benny Morris per esempio sostiene che sin dal 1881 il sionismo meditasse la pulizia etnica, non tenendo conto della più assoluta mancanza di prove documentarie – e questo nonostante il sionismo sia uno dei movimenti nazionali più documentati della storia – e nemmeno delle infinite sfumature e differenze tra i vari pensatori e i movimenti sionisti che operarono in Europa, America e Palestina tra la pubblicazione dei primi testi protosionisti e la fondazione dello Stato. Invece i nuovi storici presumono – ancora una volta in maniera astorica e acritica – l’immutabilità di un’idea di cui non si trova traccia attraverso più di cent’anni di storia intellettuale sionista, senza tenere conto delle mutate circostanze e vicissitudini, delle differenze di pensiero tra attori e spettatori della storia sionista, e della fragile e imprevedibile mutabilità della natura e degli eventi umani. Invece di tale esercizio di umiltà intellettuale, i nuovi storici tendono a vedere il problema dei rifugiati come centrale nella guerra del 1948, relegando la guerra stessa fattore secondario. Il problema dei rifugiati quindi cessa di essere una conseguenza della guerra – conseguenza non voluta e certamente non pianificata a tavolino secondo la storiografia da loro attaccata – divenendone la causa. Ribaltando il nesso causa-effetto, la nuova storia indica il conflitto quale strumento inevitabile per portare a compimento il progetto di espulsione della popolazione araba.

La teoria del complotto, con i giordani
La nuova storia cerca di dimostrare che esistevano un progetto di espellere la popolazione palestinese, chiari ordini per mettere questa strategia in atto e
militari che fedelmente eseguivano gli ordini. La mancanza di solide prove documentarie porta alcuni a sostenere che la prova del complotto per attuare la pulizia etnica sta proprio nella mancanza di prove, poiché ammetterlo per iscritto sarebbe stato pericoloso una volta che si fossero aperti gli archivi, ascrivendo arbitrariamente un senso del proprio posto nella storia ai padri fondatori d’Israele. Nel contesto della guerra, le atrocità attribuite alle forze ebraiche sono sempre messe in primo piano, mentre quelle commesse da parte
araba sono minimizzate o rimosse. Scopo di questa tesi è di sminuire l’importanza del rifiuto arabo di accettare il piano di spartizione del Mandato
palestinese approvato dall’Onu nel novembre del 1947. Naturale quindi che si dia credibilità alla tesi, cara alla propaganda araba sin dagli anni Cinquanta,
di un complotto che univa i sionisti al regno hashemita di Transgiordania (l’attuale Giordania), e che trovava la benedizione degli inglesi, per dividersi le spoglie del Mandato a danno dei palestinesi, impedendo così la creazione di un loro Stato in parte del territorio mandatario. In altre parole, l’accettazione da parte del movimento sionista del piano di spartizione non era genuina ma il riflesso di una predisposizione tattica a coprire il complotto che gli stessi sionisti avevano già pianificato per vanificare le aspirazioni nazionali dei palestinesi. La dimostrazione di una predisposizione ideologica del sionismo alla pulizia etnica e al complotto con i giordani (fantocci del potere imperiale britannico) esonera la parte araba da ogni responsabilità nel rifiuto del piano dell’Onu e quindi nel precipitare degli eventi nel susseguente conflitto. Incredibilmente, che fosse poi Israele a vincere la guerra diventa un’inevitabile e ovvia conclusione: la forza militare ebraica, la migliore organizzazione e la motivazione a vincere diventano elementi decisivi per i nuovi storici nel determinare l’esito del conflitto. Che in
guerra la parte più forte vinca sempre sembra essere un incontestabile principio
utilizzato per sostenere che, se fu Israele a vincere, allora Israele doveva
necessariamente essere il più forte. Tale giudizio ignora che la forza militare
non si misura soltanto in quanti soldati indossino l’uniforme, quanti carri armati e cannoni schieri un esercito, e quanta forza di fuoco possa scatenare, e soprattutto ignora che la guerra sia un’impresa rischiosa e piena di imponderabili vicissitudini. Inoltre esso omette due fattori critici e cruciali: l’altissimo tributo di sangue pagato da Israele – che perse l’1 per cento della propria popolazione in dodici mesi di conflitto – e l’inatteso collasso della società palestinese. Il fatto che gli eserciti arabi non siano riusciti a coordinare il loro sforzo bellico e i governi arabi non abbiano superato divisioni interne e sospetti reciproci ha certamente giocato a favore di Israele, ma tale sviluppo non era inevitabile né prevedibile da parte della leadership sionista nel 1948 e se la Lega araba fosse riuscita a superare le proprie divisioni o i governi avessero deciso di mettere al servizio della causa palestinese tutte le loro risorse – invece che tenere robusti contingenti
d’armi, uomini e mezzi lontani dal fronte per paura di ribellioni interne – tutto questo avrebbe posto un formidabile ostacolo al tentativo israeliano di garantire la sopravvivenza del neonato Stato ebraico. Quasi a sottolineare la natura espansionistica del sionismo,i nuovi storici sottolineano come Israele abbia terminato la guerra del 1948 con confini ben più grandi di quelli originalmente prospettati dal piano di spartizione dell’Onu, omettendo prudentemente il fatto che nelle prime fasi della guerra l’esercito egiziano arrivò a una trentina di chilometri da Tel Aviv bombardandola pesantemente, e che i più duri e feroci scontri militari – largamente persi dal neonato esercito
israeliano – furono proprio contro quei giordani che dovevano essere invece
parte di un ben progettato e ben oliato complotto. Infine, nel sottolineare, pur
senza la conferma di fonti documentarie, il desiderio sionista di espellere la
popolazione araba, i nuovi storici ignorano volutamente qualsiasi riferimento all’intenzione chiaramente ripetuta ed esplicitamente reiterata dei governi
arabi di annientare fisicamente gli ebrei, non soltanto di sconfiggerli militarmente: e che tale minaccia sia caduta nel nulla non è imputabile al fatto
che fosse un bluff, ma al fatto che, salvo nelle poche aree popolate da insediamenti ebraici che le forze arabe riuscirono a conquistare dove i massacri e le espulsioni forzate di ebrei ci furono senza eccezione, a vincere la guerra fu Israele. Visto quanto accadde nei pochi luoghi dove gli eserciti e le forze arabe irregolari ebbero la meglio e vista l’abbondanza di documenti che attestano la volontà araba di espellere gli ebrei, sarebbe stato più plausibile attribuire la mala intenzione non a Israele, ma ai perdenti. Che i nuovi storici facciano il contrario, assolvendo le intenzioni arabe e attribuendone di simili a Israele soltanto in base alle conseguenze della guerra indica come la loro non sia storia, ma propaganda. Infine, la nuova storia nega che Israele intendesse genuinamente raggiungere degli accordi di pace con il mondo arabo dopo il 1948. Sarebbero stati gli Stati arabi invece a voler la pace, non Israele. Israele avrebbe rigettato le aperture diplomatiche dei leader arabi che, se il paese avesse accettato le richieste territoriali arabe e permesso il ritorno dei rifugiati, avrebbero portato alla pace che ancora oggi sembra lontana. Sarebbero state l’aggressività di Israele, la sua arroganza a seguito della vittoria militare e la natura espansionistica attribuita al sionismo – che prende vita nella vilificata figura del padre fondatore di Israele, David Ben Gurion – a rendere vano ogni tentativo di pacificare la regione prima che quei leader arabi disponibili al compromesso con
Israele fossero travolti dai turbolenti eventi del mondo mediorientale negli
anni Cinquanta e sostituiti da personaggi molto meno pragmatici e moderati.
Israele avrebbe insomma perso un’occasione nel 1949 e sarebbe responsabile non soltanto della guerra del 1948 e delle sue conseguenze, ma anche del perdurare del conflitto mediorientale per le successive decadi. Ciò che i nuovi storici omettono candidamente è l’altissimo prezzo che Israele avrebbe dovuto pagare in cambio di aperture diplomatiche ambigue di leader arabi la cui intrinseca debolezza politica domestica – quasi tutti i uscirono violentemente di scena nei
quattro anni successivi al 1948 – rendeva meno credibili. Non v’era nessuna
garanzia che quegli accordi, anche se firmati, potessero resistere di fronte ai
venti di rivolta che la sconfitta in Palestina aveva sollevato in tutto il mondo
arabo. In più, Israele avrebbe dovuto rinunciare a vasti territori – compreso il
Negev, che gli spettava secondo il piano di spartizione dell’Onu – e finanziare il rimpatrio di più di mezzo milione di rifugiati palestinesi in cambio di vacue
promesse, un prezzo altissimo anche per una nazione sconfitta. Ma Israele non aveva perso la guerra, l’aveva vinta, e attendersi che siano i vincitori a
pagare, e chi scatenò la guerra perdendola a guadagnarci, è poco credibile come
tesi storica. Eppure questa tesi ottiene riconoscimento pubblico e accademico,
e va vista come un riflesso della visione che caratterizza la nuova storia e i suoi entusiasti lettori, e cioè che Israele è uno Stato furfante privo di legittimità. La sua sopravvivenza nella regione e il suo riconoscimento da parte
dei suoi vicini sarebbero già di per sé un generoso atto di grazia e una concessione immeritata, cui Israele avrebbe dovuto rispondere con gratitudine,
non con un rifiuto. Questa divergente valutazione storica deriva quindi non
da uno studio più completo e spassionato di fonti documentarie in passato non disponibili, ma da un giudizio di tipo morale e politico della validità e
della legittimità dell’intera impresa sionista. Non è un giudizio storico, ma
una regola da seguire, che mira a risvegliare la coscienza nazionale e, attraverso un "riconoscimento" dell’ingiustizia commessa in nome del sionismo,
a sollecitare un atto di contrizione collettiva in nome di un radicale ripensamento e cambiamento delle basi su cui si fonda l’identità nazionale.

L’ambito della tradizione e dell’etica
Per i nuovi storici la ricerca della verità storica non è un atto fine a se stesso, ma semplicemente uno strumento, un bagaglio cognitivo utile per promuovere un’agenda politica e sociale che nulla ha a che fare con la ricerca, storica o meno, e tutto ha a che fare con la memoria del passato, la politica del presente, e l’identità del futuro. Nel suo tentativo di mettere a nudo quel che ritiene essere l’essenza del sionismo e della storia d’Israele, la nuova storia offre dunque vie per fare ammenda dei torti, suggerendo l’esistenza di una correlazione diretta molto forte tra il tentativo di ristabilire la verità e le basi morali dell’azione politica. Morris colloca la nuova storia nell’ambito della tradizione e dell’etica ebraica per poter presentare la sua opera come "autentica" e squalificare il sionismo come un falso storico di dubbia eticità. In un articolo pubblicato sulla rivista ebraica liberale americana Tikkun nel 1988 Morris cita le Massime dei Padri, uno dei testi etici
ebraici per eccellenza per sostenere la tesi che la verità e la pace siano strettamente correlate. Per Morris, "dire la verità" è segno non solo della maturità di Israele ma anche uno strumento che "in qualche oscuro modo serve l’obiettivo della pace e della riconciliazione". La verità non è fine a se stessa, bensì è un imperativo categorico ebraico che non soltanto riflette una moralità specifica, ma offre anche la base per un cambiamento politico che spinga Israele al pentimento, sottintendendo quindi che l’Israele prodotta dal sionismo viva nel peccato derivato dal carattere ebraico di Stato-nazione, carattere che a detta dei nuovi storici non poteva essere garantito che attraverso l’espulsione forzata dei palestinesi nel 1948. Il sionismo diventa sinonimo di pulizia etnica, complotto e rimozione della verità. Il tutto, nel linguaggio dei nuovi storici, diventa un "peccato originale", che la nuova storia ha il compito di purificare per il bene del popolo ebraico e per il ritorno della sua coscienza a un supposto stato d’innocenza perduta. La premessa fondamentale della nuova storia insomma è che il sionismo e la sua attuazione comportino una perdita d’innocenza per il popolo ebraico. La nozione della perdita di innocenza, quasi che il ritorno del popolo ebraico alla politica e alla sovranità comportasse una cacciata dal paradiso terrestre,
ha inquietanti risvolti, espressi da un vocabolario teologico, che nulla hanno a che fare con la ricerca storica e che sottendono l’auspicio che l’innocenza
possa essere riacquistata. Questa perdita d’innocenza è stata curiosamente
definita come un "peccato originale" proprio da Morris. Per quanto altri abbiano cercato di minimizzare l’uso di un concetto teologico così pregnante, Shlaim ha ridicolizzato l’idea che la nascita d’Israele sia stata "un’immacolata concezione". L’abbandono del sionismo diventa quindi un atto di contrizione teso a lavare la macchia indelebile del peccato originale per poter recuperare l’innocenza perduta e ottenere quindi la salvezza morale negata a chi invece, accettando il sionismo, sarà per sempre dannato. Ed è questo, in definitiva, il motivo per cui la nuova storia israeliana è un fenomeno che trascende gli scopi scolastici dello studio e della ricerca
in favore della riabilitazione morale e politica di Israele e degli ebrei.

La terminologia religiosa
L’accusa secondo cui Israele sarebbe "nato nel peccato" è non solo inquietante,
ma totalmente estranea all’universo della ricerca, a causa della dimensione morale (e moralistica) del concetto di peccato originale. L’uso di termini presi a prestito dalla teologia cristiana mostra come il sub-testo della nuova storia sia impregnato di una visione di Israele che trova eco nella stessa teologia da cui prende a prestito la terminologia utilizzata. Il peccato originale si riferisce a un difetto congenito contratto alla nascita, che soltanto un radicale atto di pentimento, teso a cambiare non solo il comportamento del peccatore ma anche la sua essenza e natura, può rettificare. In termini teologici, quell’atto individuale avviene attraverso il battesimo e l’accettazione di Gesù come salvatore. In termini politici, l’equivalente morale collettivo di quel processo è la rinuncia al carattere ebraico di Israele, come difetto congenito, che è alla radice della perdita d’innocenza, una rinuncia seguita dall’accoglimento della dottrina della salvezza che predica l’universalismo morale e il multiculturalismo senza frontiere, senza identità e senza nozione del tempo presente. Ecco dunque la vera agenda politica sottesa ai testi dei nuovi storici. Non atto di maturità, non riscoperta della verità, ma attacco frontale al carattere ebraico di Israele come Stato nazione. E’ solo attraverso la rinuncia al suo carattere ebraico che Israele potrà intraprendere il difficile ma indispensabile cammino verso la risoluzione del conflitto arabo-israeliano. La perdita del carattere ebraico rimuove il peccato originale presumibilmente contratto alla nascita, cioè quando Israele è stato fondato nel 1948. La nuova storiografia dunque diventa la premessa e lo strumento per costruire quest’argomentazione aprioristica: Israele è nato nel peccato, peccato che consiste nella creazione del problema dei rifugiati palestinesi, il quale deriva a sua volta non soltanto da azioni ma dall’essenza stessa del sionismo, che rendeva quegli atti inevitabili. Il problema dei rifugiati cessa di essere una conseguenza tragica, ma non prevista, della guerra e diventa l’inevitabile, logica conseguenza del pensiero sionista. In questo senso, Israele sarebbe nato nel peccato: il sionismo non poteva non commettere atti di pulizia etnica. E dunque, soltanto una conversione potrebbe salvare Israele da se stesso. I nuovi storici vogliono salvare Israele (e di riflesso il popolo ebraico), proponendo un atto collettivo
di contrizione e conversione. E nemmeno in questo, francamente, pare d’individuare una grande novità. La novità forse sta nel fatto che a promuovere
questi argomenti siano storici israeliani, non i soliti ignoti. Ma anche questo,
duole notare, non è nuovo nella storia ebraica. Dice la Bibbia: "I tuoi nemici
e i tuoi distruttori usciranno dal tuo ventre". Anche in questo, forse, chi la scrisse aveva ragione.
Sempre sul Foglio un altro articolo di E.Ottolenghi sulla situazione del governo israeliano.
Da tre anni i sondaggi d’opinione dimostrano come gli israeliani siano
schierati a favore di un ritiro dai territori. L’estensione del ritiro è l’oggetto del contendere, e la differenza sta tra la scelta di un ritiro unilaterale contro un ritiro negoziato. Nel contesto di un accordo, la stragrande maggioranza degli israeliani sostiene l’abbandono della maggior parte dei territori e degli insediamenti. In caso di un ritiro unilaterale,
che non portasse quindi alla fine del conflitto con i palestinesi, l’opinione
pubblica preferisce un ritiro più limitato, che lasci in mano a Israele carte negoziali per il futuro. Questa è anche la posizione del primo ministro israeliano Ariel Sharon. Sharon è stato rieletto un anno fa, grazie alla sua capacità di proiettare un’immagine centrista e pragmatica. Sharon e il suo partito, il Likud, sanno che solo conservando una posizione centrista possono sperare di rimanere al governo. In più, l’ideologia della destra, che fino alla fine del processo di Oslo rimaneva a parole ancorata all’idea della Grande Israele, si sta riconciliando da tre anni con la realtà: i palestinesi non hanno rinunciato all’idea della Grande Palestina: il fattore demografico nel lungo periodo serve questo ideale più di qualsiasi accordo. Solo abbandonando la visione massimalista il Likud poteva sperare di rimanere al governo, per servire l’interesse nazionale d’Israele e contrastare la strategia palestinese di continuazione a oltranza della guerra d’attrito da loro iniziata nel settembre 2000. I sondaggi riflettono la consapevolezza di questa realtà: l’opinione pubblica israeliana oggi concorda nel ritenere che non sia nell’interesse dei palestinesi, sempre più determinati a raggiungere la soluzione di uno Stato unico e "binazionale" (dove gli ebrei diventerebbero rapidamente una minoranza), promuovere un accordo di pace sulla base del
principio dei due Stati per due popoli, cioè due Stati nazionali limitrofi, e che Israele debba dunque districarsi dalla minaccia demografica attraverso passi
unilaterali. Sharon ha saputo finora interpretare bene questa realtà capendo
come il futuro dello Stato ebraico possa essere garantito solo da un ritiro dai territori che, in mancanza di un serio interlocutore palestinese, non può che
avvenire attraverso azioni unilaterali. Non deve esser facile per Sharon,
uno dei fondatori del Likud e principale ispiratore degli insediamenti, accettare questa situazione, specie perché politicamente il suo governo si regge su una maggioranza di destra e la sinistra difficilmente lo sosterrà fintantoché la spada di Damocle degli scandali finanziari in cui lui e i figli sembrano essere coinvolti non sarà rimossa. Ma per la sinistra sarà difficile opporsi a un governo che ordina la rimozione di insediamenti. E l’avviso di garanzia non è garantito, visto che la procura israeliana, dopo aver fallito tutti i casi d’incriminazione di politici nel recente passato, difficilmente aprirà un’inchiesta a carico del primo ministro. Portare Sharon in tribunale e perdere sarebbe disastroso per la credibilità delle istituzioni giudiziarie.
Dopo tre anni di dichiarazioni e ammiccamenti, Sharon ha preso l’iniziativa. Dopo il discorso pronunciato a dicembre alla conferenza di Herzliya, questa settimana, ha annunciato un piano di evacuazione – si parla di 17 insediamenti
a Gaza e tre in Cisgiordania – che presenterà all’Amministrazione Bush durante la sua visita a Washington il mese prossimo. Il 59 per cento degli israeliani lo sostiene, dice un sondaggio del quotidiano Yediot Aharonot. Tutte chiacchiere, accusano palestinesi ed esponenti della sinistra israeliana.
Ma si avvicina il momento della verità. E Sharon ha detto chiaro e tondo che, per quanto doloroso, complicato o difficile, il ritiro è a suo avviso l’unica
opzione ragionevole per difendere gli interessi del paese. L’ideologo
atteggia a moderato e pragmatico leader: forse si avvicina il momento gollista di Sharon. Nel 2004 il premier passerà alla storia come il picconatore dell’ideologia della destra alla quale lui stesso tanto ha contribuito nella sua
trentennale carriera politica, o sarà travolto dagli eventi se non terrà fede
alle sue promesse. Gli americani difficilmente si opporranno a un’evacuazione che non solo non contraddice la road map ma dovrebbe ridurre i punti di frizione tra Israele e palestinesi. A opporsi sono, manco a dirlo, l’ex laburista e padre di Oslo e degli accordi ginevrini Yossi Beilin, e i palestinesi stessi. Sanno che l’occasione storica gli sta per sfuggire ancora una volta. Ora tocca ai palestinesi, agli scettici e alla comunità internazionale decidere se prendere Sharon sul serio, o continuare a deriderne
le intenzioni per svegliarsi una mattina, contro le previsioni dei benpensanti,
a guardare una colonna di carri armati israeliani e bus carichi di coloni,
lasciare Gaza una volta per tutte.
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