martedi` 26 novembre 2024
CHI SIAMO SUGGERIMENTI IMMAGINI RASSEGNA STAMPA RUBRICHE STORIA
I numeri telefonici delle redazioni
dei principali telegiornali italiani.
Stampa articolo
Ingrandisci articolo
Clicca su e-mail per inviare a chi vuoi la pagina che hai appena letto
Caro/a abbonato/a,
CLICCA QUI per vedere
la HOME PAGE

vai alla pagina twitter
CLICCA QUI per vedere il VIDEO

Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


Clicca qui






Il Foglio Rassegna Stampa
21.01.2004 Orientalia e altro
Iraq, Egitto, Libia, Turchia e Israele nel quotidiano di Giuliano Ferrara

Testata: Il Foglio
Data: 21 gennaio 2004
Pagina: 3
Autore: Emanuele Ottolenghi, Carlo Panella,Joshua Muravchik
Titolo: «Orientalia e altro»
Pubblichiamo l'intera pagina del Foglio dedicata al Medio Oriente.

L'articolo centrale della pagina è firmato da Joshua Muravchik: "La democrazia non è geneticamente incompatibile con i paesi arabi"

Nel mondo ci sono 22 paesi arabi. Tra tutti i governi degli altri 170 paesi, 121, ossia il 71 per cento, sono nominati con elezioni. Ed ecco il numero di paesi arabi con governi saliti al potere per mezzo di libere elezioni: zero. Nel libro "La fine della storia", Francis Fukuyama ha paragonato le nazioni del
mondo ai vagoni dei treni che portavano nell’Ovest i pionieri americani. La velocità e i percorsi potevano essere differenti, ma andavano tutti nella stessa direzione. Gli Stati arabi sono dunque a bordo dell’ultimo vagone diretto verso la democrazia? Oppure c’è qualcosa che li tiene fermi alla
stazione? Sono forse diretti in un’altra direzione? Oppure il loro vagone è deragliato, lasciandoli bloccati in mezzo alla strada? Sono domande alle quali pochi americani – e ben pochi governi statunitensi – hanno di solito prestato poca attenzione. Ma anche questo, come tante altre cose, è cambiato con l’11 settembre 2001. Consapevoli che non si può vincere la guerra contro il terrorismo soltanto sul campo di battaglia, gli Stati Uniti hanno cercato di eliminare le cause che lo alimentano. Secondo alcuni, come il segretario generale delle Nazioni Unite, Kofi Annan, la causa principale è la povertà. Ma
secondo l’Amministrazione del presidente George W. Bush è la tirannia. Come ha
detto lo stesso presidente nel discorso pronunciato al Whitehall Palace di Londra nel novembre 2003: "La democrazia, insieme alla speranza e al progresso che porta con sé, è la vera alternativa all’instabilità, all’odio e al terrore. Non possiamo affidarci esclusivamente alla potenza militare per garantire la nostra sicurezza nel lungo periodo. Una pace duratura si ottiene con l’affermazione della giustizia e della democrazia. Nelle società democratiche e prospere, gli uomini e le donne non giurano fedeltà ai malcontenti e agli assassini, ma rivolgono altrove il loro cuore e si impegnano nella costruzione di una vita migliore. E i governi democratici non danno ospitalità ai terroristi e ai loro campi di addestramento". Di conseguenza, Bush ha concepito l’obiettivo di diffondere la democrazia nel Medio Oriente come un mezzo per bonificare le paludi malariche in cui si sviluppa il terrorismo. Come lo stesso presidente ha esplicitamente riconosciuto, la sua iniziativa rappresenta una rottura rispetto agli ultimi sessant’anni della politica estera americana. Fino a poco tempo fa, il Medio Oriente era considerato una regione sui generis e con insormontabili difficoltà. Secondo la visione di Washington, finché il Medio Oriente continuava a pompare petrolio, gli Stati Uniti non avevano nessun
interesse a favorire un mutamento delle sue condizioni politico-sociali. Oggi l’America ha scommesso la sua stessa sicurezza sulla propria capacità di trasformare la cultura politica araba. Si tratta forse di un’idea folle? Gli arabi sono capaci di democrazia? E, nel caso di una risposta affermativa, gli americani possono davvero essere gli ispiratori e gli agenti della loro trasformazione? La risposta, ovviamente, non la sa nessuno. L’assenza anche di un solo governo democratico arabo è motivo di scetticismo. Fino a quando non sorgerà una democrazia araba, non si potrà rifiutare la tesi che qualcosa renda la cultura araba refrattaria alla democrazia. Ma ci sono anche ragioni per essere scettici di questo scetticismo.
Presupposti sbagliati
Analoghi dubbi sono stati espressi in passato a proposito di un elevato numero
di paesi e culture in cui oggi la democrazia sembra una cosa del tutto naturale.
Quando Mussolini si sbarazzò della democrazia italiana nel 1922, lo storico Arnold Toynbee scrisse: "La vaga e astratta parola greca ‘democrazia’, con la quale si è finito per definire la peculiare istituzione creatasi attraverso la monarchia dell’Inghilterra medievale e i suoi discendenti politici, ha fatto dimenticare che lo sviluppo del regime parlamentare è stato un fenomeno locale molto specifico, e non si può dare per scontato che esso possa adattarsi a un ambiente straniero". Dopo essere caduta in Italia, la democrazia crollò anche in molti altri paesi dell’Europa meridionale e orientale, quasi tutti caratterizzati da una maggioranza cattolica. Si concluse perciò che la democrazia fosse compatibile soltanto con il protestantesimo. Il cattolicesimo, si è detto con perfetto rigore sociologico, insegna ai suoi fedeli l’obbiedenza e la gerarchia, e ha al comando un capo considerato infallibile. Solo il protestantesimo, con la sua fede in un rapporto diretto tra il credente e Dio, favorisce quella concezione dell’uguaglianza che è un presupposto essenziale della democrazia. Oggi, più del 90 per cento dei paesi con una maggioranza cattolica è amministrato da governi eletti democraticamente. Verso la fine della seconda guerra mondiale, il presidente Harry Truman ricevette un rapporto informativo su ciò che gli Stati Uniti potevano sperare di ottenere in Giappone, dopo la sconfitta della sua dinastia imperiale. L’autore era Joseph Grew, il principale esperto sul Giappone del Dipartimento di Stato, che era stato l’ambasciatore americano in questo paese fino allo scoppio della guerra. Grew riferì al presidente che "in una prospettiva di largo raggio, il massimo che possiamo sperare è una monarchia costituzionale, dato che l’esperienza ha dimostrato che in Giappone la democrazia non potrebbe mai funzionare". Prima che raggiungesse la propria indipendenza, circolavano opinioni analoghe sulla capacità dell’India di governarsi in modo democratico, così come, prima della trasformazione democratica di Taiwan e della Corea del Sud, sulla presunta incompatibilità tra la democrazia e la cultura confuciana. (Oggi, ironicamente, il successo politico di queste due "tigri" asiatiche è spesso spiegato per mezzo della loro straordinaria crescita economica; ma soltanto un paio di generazioni fa, quando si trovavano ancora in estrema povertà, la loro condizione era spiegata facendo riferimento ai costumi della "cultura confuciana"). In verità, ancora fino a non molto tempo fa, era normale sostenere che un grande numero di americani non fosse pronto per l’autogoverno. Nel 1957, il senatore Strom Thurmond, in un discorso pronunciato alla Harvard Law School, dichiarò: "Molti neri non hanno semplicemente sufficiente coscienza
politica per essere stimolati a partecipare alla vita politica e civica […]. Una buona parte di coloro che sono privi di questa coscienza politica sono probabilmente privi anche di alcune altre qualità essenziali per potere esprimere un voto autenticamente ponderato". Una generazione dopo, il portavoce di Thurmond afferma con orgoglio e soddisfazione che Thurmond è stato il primo senatore del Sud ad assumere un collaboratore nero.
Peculiarità della regione?
Tenendo conto di questi grossolani errori sulle capacità democratiche di neri, confuciani, indù e cattolici, quale valore dobbiamo assegnare alle analisi di chi oggi sostiene che, nella cultura islamica, vi sia qualcosa di incompatibile con la democrazia? Senza dubbio, il mondo musulmano è molto indietro a questo riguardo. Dei paesi a maggioranza musulmana, soltanto nove (ossia il 20 per cento) hanno governi eletti democraticamente. Malgrado ciò, proprio questi nove paesi (Turchia, Albania, Bangladesh, Indonesia, Nigeria, Mali, Senegal, Niger, Gibuti) dimostrano che la democrazia è possibile in un paese a maggioranza
musulmana.
E’ dunque possibile che qualcosa di peculiare al mondo arabo renda quest’ultimo
essenzialmente refrattario alla democrazia o incapace di metterla in pratica? Non si può rifiutare categoricamente quest’ipotesi fino a quando non si sarà stabilita un’autentica democrazia araba. Ma due indizi ci fanno confidare che questo giorno non è molto lontano. Primo, una democrazia araba è già esistita, e precisamente in Libano. Dal momento della sua indipendenza verso la fine della Seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni settanta, il Libano ha avuto una forma di governo democratica. Era senza dubbio uno strano tipo di democrazia, nella quale le cariche erano attentamente distribuite tra i vari gruppi etnici e religiosi che componevano mosaico nazionale, ma il cui governo si fondava su libere elezioni, aperti dibattiti e mediazione parlamentare. L’intervento straniero, di palestinesi, israeliani e siriani, ha distrutto questo sistema relativamente efficiente. Oggi il Libano si trova sotto la sovranità siriana, ma per circa tre decenni ha offerto un’anteprima della democrazia araba.
Gli attivisti e i dissidenti
Secondo, all’interno del mondo arabo si stanno sollevando voci sempre più forti in favore della democratizzazione. Tra queste vi sono non soltanto quella di dissidenti come l’egiziano Saad Eddin Ibrahim ma anche quella di membri del governo. I re di Giordania e Marocco hanno preso concrete iniziative per la democratizzazione, così come hanno fatto i leader di quasi tutti i piccoli Stati del Golfo. Fatto di primaria importanza, un numeroso gruppo di intellettuali arabi, provenienti da paesi diversi e lavorando sotto gli aupici dell’Onu, ha pubblicato nel 2002 l’Arab Human Development Report. Questo documento – che lamentava la presenza di tre "deficit" nel mondo arabo: di libertà, di istruzione e di partecipazione femminile – ha suscitato un
grande clamore. E questo clamore non aveva ancora fatto tempo a placarsi quando gli autori del documento hanno lanciato un altro colpo, pubblicando un secondo rapporto nell’ottobre 2003, nel quale si approfondiva l’analisi del deficit di istruzione, e lo si collegava alla mancanza di "libertà sociali e individuali". Gli stessi autori hanno inoltre annunciato che sono in preparazione altri due rapporti, dedicati specificamente all’esame degli altri due "deficit". I due rapporti già pubblicati richiamano l’attenzione su numerosi indicatori di sviluppo sociale in cui gli Stati arabi sono rimasti molto indietro. E’ possibile che la loro relativa povertà spieghi la mancanza di democrazia? E’ stato ampiamente dimostrato, perlomeno fin dalla pubblicazione, nel 1960, del libro "Political Man" di Seymour Martin Lipset, che la democrazia è in stretto rapporto con lo sviluppo economico e con altri benefici da questo derivanti, come la diffusione dell’alfabetizzazione e dell’istruzione. Bisogna forse ritenere che gli arabi non possano creare democrazie se non hanno prima raggiunto un maggior grado di sviluppo economico? Un difetto di quest’ipotesi è costituito dal fatto che il paese arabo più ricco è l’Arabia Saudita, che è anche quello senz’altro più distante da una forma democratica di governo.
Un altro sta nel fatto che la democrazia ha stabilito solide radici nell’Africa subsahariana, che è nel complesso molto più povera del mondo arabo. Ciò che sembra mancare è dunque la possibilità stessa di un mutamento politico.
Arriviamo così alla domanda se l’America possa essere davvero l’ispiratrice di
questo mutamento. Intuitivamente, poiché la democrazia significa autogoverno, si è propensi a concludere che si tratti di qualcosa che ogni popolo deve compiere con le proprie forze e che non può essere introdotto dall’esterno. Ma la storia smentisce questa conclusione. L’America, la prima democrazia moderna, è stata un potente motore per la diffusione della democrazia in altre regioni del mondo. Nei momenti di maggiore iniziativa, lo ha fatto con la forza delle armi; quando invece si è mantenuta più in disparte, lo ha fatto rappresentando
semplicemente un esempio a cui gli altri hanno potuto ispirarsi. Ma nella maggior parte dei casi gli Stati Uniti hanno agito in nome della democrazia con mezzi non violenti: diplomazia, aiuti umanitari, trasmissioni radio internazionali e anche attività politiche clandestine.
Sostenere il cambiamento
La Germania, il Giappone e altri membri dell’Asse sono oggi delle democrazie grazie all’occupazione militare americana. Gli Stati dell’ex blocco sovietico sono quasi tutti democratici anche grazie agli sforzi compiuti dagli americani per scardinare la potenza sovietica. Le trasmissioni radio americane che hanno mantenuto viva la verità e la speranza al di là della cortina di ferro,
così come l’assistenza finanziaria e tecnica che ha facilitato la transizione dal comunismo, hanno ugualmente contribuito a raggiungere questo risultato. Gli Stati dell’America Latina sono quasi tutti delle democrazie anche perché le pressioni diplomatiche delle Amministrazioni Carter e Reagan hanno delegittimato i dittatori militari. Lo stesso si può dire per le Filippine, la Corea del Sud e Taiwan. Per sostenere lo sviluppo della democrazia in Medio Oriente, il rovesciamento del regime di Saddam Hussein ha significato un buon inizio. Saddam è stato uno dei più pericolosi, crudeli, violenti e severi tiranni del mondo arabo. Storicamente, l’Iraq è secondo soltanto all’Egitto per l’influenza che esercita in tutti i paesi arabi. Se gli sforzi statunitensi di impiantare la democrazia in Iraq avranno esito positivo, come è avvenuto in altre regioni occupate dagli Stati Uniti durante la Seconda guerra mondiale, questo successo darà grande coraggio ai democratici degli altri paesi arabi. E aumenterà significativamente pressione in favore di maggiori concessioni subita dai loro governanti. Più o meno lo stesso effetto avrà sul vicino Iran, un paese non arabo ma che ha una profonda influenza sul mondo arabo, dal quale è
sua volta altrettanto profondamente influenzato. La sostituzione della teocrazia iraniana con un’autentica democrazia avrebbe notevoli ripercussioni in tutta la regione. A parte la missione in Iraq, non è probabile che le prossime iniziative statunitensi per esportare la democrazia assumeranno forma di interventi militari. Ciò che ha imposto l’uso della forza in Iraq è stata la combinazione tra la minaccia che per gli americani rappresentava la lunga e ben nota vicenda irachena di sviluppo e uso di armi distruzione di massa, il suo sostegno a varie organizzazioni terroristiche, le sue ripetute aggressioni contro i paesi vicini, e la convinzione che non vi fosse altro mezzo per ottenere un cambio di regime, tenuto conto dei metodi ferocemente repressivi di Saddam. Gli altri regimi non democratici del Medio Oriente appaiono o meno minacciosi (come nel caso dell’Iran, il cui programma di sviluppo nucleare è in una fase molto più avanzata di quello iracheno e il cui sostegno nei confronti dei terroristi è altrettanto deciso) più disponibili a essere persuasi a un
cambiamento con altri mezzi. Al di fuori dell’Iraq, l’America impiegherà
strumenti non militari come le pressioni diplomatiche, gli aiuti umanitari,
trasmissioni radiotelevisive internazionali, l’aiuto diretto ai sostenitori della democrazia. Con questi mezzi cercherà di avviare un’ondata di democratizzazione che riporterà il Medio Oriente in armonia con resto del mondo. Negli ultimi trent’anni avvenuta una straordinaria rivoluzione nei sistemi per mezzo dei quali si governano popoli. In questo breve periodo di tempo, proporzione di Stati diretti da governi nominati (per mezzo di libere elezioni) dai loro cittadini è passata da meno di un terzo quasi due terzi. La democrazia, o almeno suoi elementi basilari, è improssivamente diventata la regola; una regola che un giorno varrà anche per il mondo arabo.
Carlo Panella firma il "L'asse Al Sistani-Erdogan ha riportato l'Onu nella partita irachena"

Una notizia fondamentale per l’Iraq è stata diffusa ieri dal ministro del Petrolio, Ibrahim Bar Al Ulum: la produzione di Baghdad entro giugno del 2004 arriverà a 2,8 milioni di barili al giorno, esattamente la produzione precedente l’inizio della guerra. Questo risultato dimostra che la normalizzazione del paese, nonostante l’iniziativa terroristica, procede a pieno ritmo. Sul fronte politico la notizia, altrettanto rilevante, viene da New York, con l’esito positivo della riunione di lunedì tra Kofi Annan, Paul Bremer e il Consiglio nazionale iracheno per avviare il processo di ritorno dell’Onu in Iraq, dopo la lunga pausa intervenuta dopo l’attentato del 19 agosto in cui ha perso la vita l’inviato delle Nazioni Unite, Sergio Vieira de
Mello. In questi mesi si è consolidato un fronte di pressioni eterogeneo sull’Amministrazione americana, che l’hanno convinta a un impegno deciso per rivalutare un ruolo delle Nazioni Unite in Iraq. La richiesta del grande ayatollah Ali Al Sistani di elezioni politiche immediate e il rifiuto del calendario di Bremer, che le aveva progettate per il 2005, ha avuto infatti
come sbocco naturale la ricerca di un "giudice terzo" che stabilisse se esse erano possibili o meno. Kofi Annan ha quindi trovato in Al Sistani, nel partito sciita Sciri e nella grande manifestazione anti americana di centinaia di migliaia di sciiti a Baghdad di lunedì, inaspettati alleati per iniziare a svolgere un ruolo in Iraq. Poi, si è aggiunta la tensione tra gli sciiti dello
Sciri e i due partiti curdi (Puk e Pdk), sul futuro assetto federale dell’Iraq.
Lo Sciri contrasta risolutamente la formazione di una regione settentrionale federata, che abbia dichiarate caratteristiche curde, come vogliono Puk e Pdk e ammette solo uno Stato federale non su base etnica, ma solo regionale. Questa posizione si è sommata con l’identica volontà della Turchia di non avere uno Stato regionale curdo ai suoi confini, nel timore di un "effetto domino" che trascini con sé nell’instabilità anche le sue province curde. Anche queste tensioni, hanno aumentato la necessità di affiancare un ambito di discussione internazionale che solo l’Onu può garantire, al tavolo di trattativa che già gli stessi curdi iracheni hanno aperto con Ankara. Kofi Annan, dopo mesi di surplace (non ha ancora nominato un successore a Sergio Vieira de Mello, né
riaperto la sede Onu di Baghdad) è così chiamato a un immediato impegno dell’Onu
da un fronte eterogeneo: Al Sistani, lo Sciri, il leader turco Tayyp Erdogan e
gli stessi curdi iracheni. Pragmaticamente, gli Stati Uniti hanno preso atto della situazione e hanno messo sul tavolo di Kofi Annan la posta intera della partita che può giocare e vincere: far ritornare rapidamente l’Onu in forze a Baghdad, dire la parola definitiva sulla possibilità o meno di indire elezioni rapide, garantire col crisma della legalità internazionale tutto il processo politico iracheno a partire dal 1° luglio 2004, quando Bremer cesserà le sue
funzioni di governatore. Annan ha subito dato un segnale di gradimento a questa
apertura statunitense e ha dichiarato che non ritiene possibili elezioni politiche immediate, come chiede Al Sistani. Contemporaneamente ha avviato una trattativa con Bremer, per allargare gli spazi reali di intervento dell’Onu sui processi in corso a Baghdad. Non è una partita semplice, perché sono chiari i forti rapporti di pressione che Bremer ha a tutt’oggi sul Consiglio iracheno e Annan ha tutte le intenzioni di diminuirli. Un quadro intricato, che ha però una caratteristica decisiva: tutte le parti si affidano unicamente alla trattativa, nessuno, sciiti in testa, mostra di volere affiancarla a scontri sul terreno. Bremer ha così avuto parole di apprezzamento per la manifestazione degli sciiti che lo contestavano: "Siamo venuti in Iraq per portare la democrazia: eccola!". Abdulaziz Al Hakim, leader dello Sciri sciita, sorta di "braccio politico" di Al Sistani, che ha organizzato la manifestazione, ha apprezzato le parole di Bremer e ha negato ogni velleità bellicosa. Dando per
scontata una sconfessione Onu sulla possibilità di elezioni immediate, ha detto:
Noi e Al Sistani rispetteremo le conclusioni dell’Onu che deciderà sulla data delle elezioni; quello che importa è che gli iracheni partecipino alle decisioni; siamo pronti a cercare alternative a elezioni immediate". Kofi Annan, ora, deve uscire allo scoperto, trattare ancora con gli Stati Uniti sul ruolo dell’Onu e inviare una missione in Iraq. Fonti ufficiose del Palazzo
di Vetro danno ormai per certo questo scenario.
"Lo o la shahid" di Emanuele Ottolenghi:
Reem Al Riyashi, una palestinese di Gaza di 22 anni di una benestante famiglia
di mercanti, sposata a un giovane di buona famiglia con un buon lavoro, e madre
di due figli, è passata alla storia mercoledì scorso per essere la prima madre
palestinese a farsi esplodere in un attentato terrorista suicida. L’attacco è avvenuto al posto di frontiera di Erez, tra Israele e Gaza, dove migliaia di palestinesi entrano giornalmente in Israele per lavoro. Al Riyashi non è la prima donna a farsi esplodere. Dal gennaio 2002 ve ne sono state sette che hanno messo a segno un attentato, mentre altre 24 sono state arrestate prima di esplodere e 16 sono state fermate per ruoli subalterni nell’organizzazione di un attacco. Come la maggior parte degli uomini, Al Riyashi viene da una famiglia ricca, e come il 70 per cento dei terroristi ha un’istruzione superiore alla maturità. Come tutti gli attentatori suicidi è musulmana:
nessun cristiano arabo si è fatto esplodere finora. Ma è la prima donna impiegata da Hamas per un attacco suicida. E’ anche la terza inviata da organizzazioni islamiche dall’inizio dell’Intifada. L’evento sollecita
tre considerazioni. Innanzitutto, la distinzione tra organizzazioni laiche e nazionaliste da un lato e islamiche fondamentaliste dall’altro si è erosa rapidamente negli ultimi tre anni. Prima dell’inizio dell’Intifada, le donne venivano impiegate solo da organizzazioni laiche e rivoluzionarie, come il Fronte popolare o il Fronte democratico per la liberazione della Palestina, in azioni spettacolari come i dirottamenti e violente come attacchi a coloni
israeliani, a posti di blocco. Le organizzazioni islamiche avevano il monopolio della tecnica suicida e per motivi religiosi impiegavano solo uomini. Questa distinzione non regge piú. Le donne combattono in tutte le organizzazioni, e la tecnica suicida viene utilizzata da nazionalisti e fondamentalisti in ugual misura. La seconda considerazione è che per i palestinesi il terrorismo funziona e ottiene ampi consensi nella società civile. L’attentato a Erez della settimana scorsa segue di pochi giorni la morte di un minorenne palestinese,
esploso prematuramente per un "incidente di lavoro" prima di raggiungere l’obiettivo. In entrambi i casi si è scatenata una polemica sulla natura degli attentati. Ma lungi dall’esprimere un disagio di fondo sulla moralità del terrorismo, la diatriba ha assunto caratteri ben diversi che chiariscono oltre ogni dubbio il livello di approvazione che il terrorismo gode nell’opinione
pubblica palestinese. Nel caso di Erez, le obiezioni derivano dal fatto che la risposta israeliana più probabile sarebbe stata una riduzione di permessi di lavoro e controlli più stretti in futuro, col risultato che i lavoratori palestinesi che traggono il loro sostentamento dal lavoro in Israele e attraverso Erez ne avrebbero sofferto. La scelta dell’obiettivo era in discussione, non la strategia in generale. In quanto all’attentatore esploso anzitempo, la polemica si è incentrata sulla scelta della persona e sull’addestramento fornitogli, insufficiente a detta dei critici per garantire il successo della missione. La terza considerazione è che di fronte al perfezionarsi delle contromisure israeliane i mandanti del terrorismo palestinese devono escogitare metodi sempre più sofisticati. La donna rappresenta un salto di qualità perché finora le donne erano state soggette soltanto a superficiali controlli di sicurezza, per non lederne l’onore. La facilità con cui le donne si possono mimetizzare e la relativa libertà con cui passano attraverso i controlli di sicurezza aumentano le chance di successo e sollevano un dilemma aggiuntivo per le forze di sicurezza israeliane.
Probabilmente anche per questo il leader spirituale di Hamas, lo sceicco Ahmed
Yassin ha dato la sua benedizione al coinvolgimento delle donne in ruoli attivi delle operazioni terroristiche, lasciando cadere le previe contrarietà di tipo teologico che Hamas aveva.
Non si tratta di femminismo
Il coinvolgimento delle donne nella fabbrica di morte del terrorismo suicida non va vista come un segno di emancipazione o una vittoria del femminismo. Almeno nel caso di Al Riyashi, trapela dalle notizie che la donna avesse tradito il marito con un attivista di Hamas e che una volta scoperta avesse avuto poca scelta: o il martirio in un attacco suicida o il destino delle adultere in un una società dove si pratica ancora il dellitto d’onore. La scelta tra due tipi di morte emerge senz’altro dal clima morale e dai costumi ai quali Al Riyashi era usa e dai quali non poteva sfuggire. Il che non significa che le altre sei donne che prima di lei hanno scelto lo stesso destino avessero le stesse motivazioni, come mostra un recente studio del Jaffee Centre for Strategic Studies di Tel Aviv. Ma mostra come le motivazioni
e le circostanze che spingono un individuo a diventare un terrorista assassino
e suicida siano meno semplici e semplicistiche della disperazione o dell’opposizione all’occupazione e anelito nazionale
all’indipendenza solitamente citate. Spiegazioni monocausali e poco convincenti,
che non tengono conto invece delle molteplici realtà che permettono a una donna come Al Riyashi di fare ciò che ha fatto. Contano invece il clima sociale favorevole, il network di sostegno, gli incentivi economici e la sanzione autorevole della religione e di altre fonti riconosciute di autorità, fattori che insieme convogliano l’individuo verso la decisione estrema di uccidersi uccidendo.
"Arabica"
TRIPOLI – Gli sbalzi d’umore del colonnello
Fino a pochi giorni fa un egiziano poteva entrare in territorio libico mostrando alla frontiera solo i propri documenti d’identità. Una recente decisione del governo di Tripoli ha cambiato le cose, come spiega il settimanale
egiziano Al Ahram Weekly: per passare la frontiera oggi è necessario un contratto di lavoro, un permesso di soggiorno e 350 dollari. Il Cairo non ha fatto attendere la sua risposta, e ha imposto il visto ai viaggiatori libici. Le autorità dei due paesi negano l’accaduto, ma di fatto non si può attraversare il confine senza previa autorizzazione delle ambasciate. Secondo l’Ahram Weekly si tratterebbe di una ritorsione libica a seguito della campagna della stampa indipendente e governativa egiziana contro le aperture libiche nei confronti dell’Occidente, la sua rinuncia al programma nucleare e le voci di incontri diplomatici tra Tripoli e Gerusalemme. Dalle colonne del quotidiano egiziano d’opposizione, Al Wafd, Abbas El Tarabili s’interroga sulle sorti alterne dei rapporti con il vicino. A causa della facilità per gli egiziani a entrare nel paese, "due milioni di egiziani lavorano in Libia", cifra confermata dal quotidiano economico egiziano Al Alam al Yom. "Ci rendiamo conto – continua El Tarabili – che la Libia è un punto di fuga dei viaggiatori verso l’Italia. La prova è il fatto che diversi egiziani sono stati arrestati mentre tentavano di infiltrarsi in Italia". L’ipotesi è quindi che il governo libico, venuto a conoscenza di questi tentativi e sotto pressione italiana, abbia deciso di chiudere le frontiere. Anche Salama Abdel Salama, uno dei maggiori editorialisti dell’Ahram, dedica un articolo alla Libia, chiedendosi in quale direzione stia andando il paese, alla luce delle ultime prese di posizioni del colonnello Gheddafi. "Alcuni pensano che questa trasformazione
libica costituisca una violazione del panarabismo, ma si sbagliano perché
danno alla Libia più peso di quello che non abbia realmente all’interno della corrente panaraba. Il colonnello Gheddafi ha voltato la schiena a questa corrente dal momento che non ha potuto rispondere alle sue ambizioni. Senza dimenticare che il nazionalismo arabo ha da tempo perso il suo splendore, dopo che tutti hanno scelto di nuotare nella direzione dell’egemonia americana".

PARIGI – Contraddizioni tra velo e Baghdad
L’11 settembre e la guerra in Iraq, senza dimenticare lo seconda Intifada, hanno influenzato le relazioni tra il mondo arabo e l’Occidente. Ne prende atto Abu Alaa Madi in un articolo sul sito del quotidiano Al Hayat. La posizione più bizzarra, secondo l’editorialista, sembra averla Jacques Chirac. "C’è una chiara contraddizione tra la posizione della Francia nei confronti della guerra in Iraq e la sua posizione nei confronti del velo islamico. La verità è che in molti nel mondo arabo sono scioccati da questo atteggiamento francese che contraddice il rifiuto della campagna irachena. Considerano che questa idea fomenti il conflitto tra civiltà e la guerra tra religioni". Il giornalista spiega che lo choc della gente è dovuto al fatto che il velo è sentito come un dovere religioso per le donne musulmane, mentre kippah e croce sono ritenuti simboli: "Penso che la posizione francese sia contraria alla libertà. Più importante ancora, le relazioni tra la Francia e l’Islam si sono guastate e gli interessi della Francia nel mondo arabo sono stati ostacolati".

IL CAIRO – La potenza del pallone
La notizia non è che in Egitto le donne si sono date al calcio, visto che da almeno 10 anni le ragazze della capitale e delle città del Basso Egitto, il Nord del paese, praticano questo sport con folta tifoseria. La notizia invece, riportata dall’Ahram Weekly, è che il calcio rosa è sbarcato persino in Alto
Egitto, il profondo Sud del paese, bastione delle tradizioni più conservatrici in materia di religione, morale e costume. La responsabile della sezione femminile del Partito nazionale democratico di Qena, piccola cittadina sulle rive del Nilo, a poca distanza dalle rovine del tempio di Karnak, ha messo su una squadra di ragazze. Ha trovato subito l’appoggio delle autorità, come dimostrano le parole del governatore di Qena, Adel Labib, raccolte dall’Ahram: "I tempi sono cambiati. Una volta la saidi (la donna dell’Alto Egitto, ndr) era marginalizzata. Mettere il naso fuori di casa una volta scesa
la notte era inconcepibile. Oggi può praticare uno sport di squadra a sua scelta. Le ragazze di Qena oggi possono ritenersi affrancate come quelle della capitale". Quello che è stato difficile superare è stata l’opposizione delle famiglie, che vedevano nel calcio uno sport estremamente maschile e giudicavano scandaloso che le ragazze lo praticassero. Oggi molti familiari seguono i match delle figlie, che corrono per il campo in pantaloncini corti e senza velo (molte lo tolgono durante gli allenamenti e le partite per comodità). Dopo l’esperimento di Qena sono sorte altre squadre nei villaggi vicini.
Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.

lettere@ilfoglio.it

Condividi sui social network:



Se ritieni questa pagina importante, mandala a tutti i tuoi amici cliccando qui

www.jerusalemonline.com
SCRIVI A IC RISPONDE DEBORAH FAIT