Un reportage da Ramallah nello stile del giornale ex DC
Testata: Europa Data: 21 gennaio 2004 Pagina: 3 Autore: Kenneth Brown Titolo: «L'identità frammentata»
Su Europa, in terza pagina, viene pubblicato un lungo articolo dal titolo "Israele e Palestina, la politica del muro e delle barriere in Cisgiordania, l'identità frammentata". L'autore, Kenneth Brown, viene indicato come di ritorno da Ramallah. Il tono antiisraeliano e anti-Sharon è quello solito di Europa. L'autore si dilunga nello spiegare tutte le limitazioni che i palestinesi subirebbero a causa dei check-point esistenti e del "muro" in fieri, dettate a suo avviso da una precisa volontà politica di "distruggere il senso di continuità spazio temporale dei palestinesi, così da costringerli ad abbandonare i territori o a condannarli ad una nuova forma di servitù della gleba". Per i teorici del complotto qui c'è roba da vendere, la fantasia di Brown non ha limiti, probabilmente è rimasto troppo tempo a Ramallah a guardare la televisone dell Anp, la stessa che invita i bambini palestinesi a diventare assassini-suicidi. L'articolo prosegue nella descrizione delle angherie israeliane, manca solo la storiella degli ebrei che rapiscono i bambini per farne azzime pasquali. Sembra di ascoltare i valorosi pacifinti tornati dalla Palestina, tante storie da raccontare, l'interposizione non violenta, la tenda del campo profughi, l'acqua che non c'è.... Intanto però correvano ad aiutare Arafat, il Che Guevara non morto, l'eroe dei due mondi e così via quando in realtà Yasser Arafat è il principale responsabile delle condizioni di vita dei palestinesi. Complimenti alla redazione di Europa , articoli così ci aspettavamo di leggerli soltanto più sul Manifesto. Evidentemente ci ha ingannato la forma grafica che è quasi la stessa.
Ecco l'articolo: Recentemente, ho partecipato a un convegno sulla storia orale all’università di Birzeit, nei territori palestinesi occupati. L’hotel in cui alloggiavo a Ramallah distava circa dieci chilometri dall’università, normalmente raggiungibile in auto in un quarto d’ora. Purtroppo, dalla Seconda Intifada, l’esercito israeliano ha separato le due città erigendo un terrapieno di notevoli proporzioni in mezzo alla carreggiata e rendendo di fatto impossibile il passaggio delle auto. Studenti e docenti, e tutti coloro che vogliono andare da una parte all’altra, devono abbandonare la macchina, il taxi, o l’autobus, arrampicarsi sul terrapieno, ridiscenderne, e trovarsi un taxi o un autobus che li porti a destinazione. Di solito, all’altezza di questa specie di montagnola c’è anche un posto di blocco, e i militari israeliani controllano i documenti prima di permettere il passaggio. Ci possono volere ore per attraversare quei dieci chilometri. L’occupazione ha reso il tempo e lo spazio incerti, imprevedibili.
Vessazioni e umiliazioni Vista da lontano, la scena appare come un massiccio movimento di rifugiati in una zona di guerra, ed è facilmente comprensibile il timore dei palestinesi che, con queste procedure, gli israeliani vogliano umiliarli e espellerli dalla loro terra. Quel giorno, i soldati israeliani non erano al posto di blocco, e il terrapieno era stato rimosso almeno in parte dai palestinesi così da permettere ad alcuni veicoli di passare. Ciononostante, all’entrata dell’università, le truppe israeliane avevano messo in riga una trentina di studenti per controllarne attentamente i documenti. Un’altra forma di vessazione. Il giorno seguente, il terrapieno era ricomparso, ripristinato durante la notte dai trattori. Nel lasciare l’università alla fine della giornata, uno dei docenti mi ha offerto un passaggio in macchina per ritornare a Ramallah. Voleva farmi vedere la strada "panoramica", 30 chilometri di strade secondarie che però evitavano terrapieni e posti di blocco. Purtroppo, abbiamo avuto un incidente scontrandoci con un minibus, con diversi feriti che hanno avuto bisogno di ricovero ospedaliero. La prima ad arrivare sulla scena dell’incidente è stata un’auto del comando israeliano. Si sono avvicinati alcuni soldati, poco più che ragazzi dai loro lineamenti, puntandoci addosso i mitra e chiedendoci che cosa stava succedendo. Sembravano spaventati e confusi, vincitori che temono i vinti. Per fortuna, siamo riusciti a calmarli e a convincerli che si trattava solo di un incidente stradale. Si sono allontanati imprecando contro di noi. alla fine, è arrivata un’ambulanza palestinese e ha trasportato i feriti all’ospedale. Nei territori palestinesi occupati, situazioni così assurde sono "normali" e del tutto prive di pathos. Stando ai dati dell’Ufficio Onu per il coordinamento degli affari umanitari (Ocha), in Cisgiordania ci sono 65 checkpoints con guarnigione stabile, e in solo nove di questi casi in un punto di ingresso in territorio israeliano; il resto è posto a controllo del traffico tra le comunità della Cisgiordania. Ci sono poi 607 blocchi stradali fisici che impediscono il passaggio dei veicoli: 475 terrapieni, 94 blocchi di cemento armato, 50 fosse scavate sulla sede stradale. La parola d’ordine è frammentazione. L’onnipresenza degli israeliani può assumere forme drammatiche. A seguito dell’attacco suicida avvenuto in Israele 25 dicembre, in cui morirono quattro persone ed almeno un’altra dozzina fu ferita gravemente, Israele ha dato il via a una massiccia operazione a Nablus con lo scopo di "colpire i terroristi" e catturare uno dei principali leader della Brigata dei Martiri di al-Alaqsa. In realtà, era dal 15 di dicembre che erano iniziate incursioni quasi giornaliere a Nablus da parte dell’Idf (le Forze di difesa israeliane), ma il 26 erano stati dichiarati il blocco e il coprifuoco per buona parte della città e il vicino campo profughi di Balata. La città era stata isolata, e il centro diviso in due parti da un enorme terrapieno con un posto di blocco denominato dai residenti "Tora Bara". Entro una decina di giorni, erano stati schierati un centinaio circa di soldati, decine di blindati, carri armati e un bulldozer. C’erano state scaramucce con la popolazione locale e, alla fine dell’operazione, dodici giorni più tardi, il computo delle vittime tra i palestinesi era di sei morti e cinquanta feriti, colpiti dai tiratori scelti israeliani e granate.
Politica di strangolamento Secondo quanto dichiarato da un giornalista radiofonico di Nablus, lo scopo dell’assedio della città era di distogliere l’attenzione dalla costruzione da parte degli israeliani del "Muro" eretto in Cisgiordania e dalla politica di strangolamento. Per usare le parole di John Berger, lo scopo vero di questa stretta paralizzante è la distruzione del senso di continuità spaziale e temporale dei palestinesi, così da costringerli ad abbandonare i Territori o a condannarli ad una nuova forma di servitù della gleba. E che dire del "Muro"? Eyal Weizman, un architetto israeliano dissidente che lavora a Tel Aviv, sostiene che il confine tra Israele e i Territori palestinesi non sia più una linea unica e continua, ma una serie di frontiere contorte, di apparati di sicurezza e di posti di blocco interni: una serie, cioè, di sacche di instabilità (cf. "Ariel Sharon and the Geometry of Occupation" in www.opendemocracy.net). Il governo Sharon sta preparando uno stato palestinese frammentato stabilendo i fatti sul terreno stesso: isole territoriali sparse e separate, accerchiate e perforate dal territorio israeliano. Uno stato senza frontiere con il mondo esterno. Queste isole saranno unite da tunnel e ponti sotto e sopra il territorio di Israele, e non avranno alcuna giurisdizione sulle risorse idriche o sullo spazio aereo.
Confini indifendibili In seguito alla guerra del 1967, con l’occupazione della Cisgiordania, della Striscia di Gaza e delle Alture del Golan, Israele ha triplicato il territorio sotto il proprio controllo. I militari e il governo considerano "indifendibili" i confini stabiliti prima del 1967 e la Linea Verde tracciata dagli accordi del cessate il fuoco del 1949, riconosciuta come frontiera internazionale. Abba Eban la chiamava "la linea Auschwitz". Nell’euforia della vittoria, gli israeliani dichiararono che la Cisgiordania e Gaza erano "territori contesi" che non erano mai stati sotto il controllo di uno stato sovrano, e che erano ora occupati legittimamente, per ragioni di auto-difesa e fino a che non potessero essere determinati i confini permanenti attraverso accordi di pace definitivi. Dal 1967, considerano come fluidi ed elastici i confini tra lo stato di Israele e i Territori palestinesi occupati, gli israeliani hanno annesso un numero sempre crescente di insediamenti ebraici. (Dal 2002, anno dell’elezione di Sharon, ai precedenti 145, si sono aggiunti altri 56 insediamenti riconosciuti per un totale di 400mila coloni, compresi i sobborghi ebrei creati nella Gerusalemme Est). Contemporaneamente, i diversi fattori che incoraggiano l’agorafobia strisciante tra gli israeliani (espansione demografica della popolazione palestinese nei territori occupati, insurrezioni, terrorismo, pressioni internazionali, questioni economiche e opinione pubblica), rendendo ineluttabile l’esistenza di uno stato palestinese.
Una linea di cucitura La maggior parte degli israeliani auspica una separazione fisica con la Cisgiordania e la Striscia di Gaza. Nel corso dell’anno passato, il governo ha di fatto dato inizio alla separazione unilaterale costruendo una linea serpeggiante di recinzioni, barriere, muri. Si sta costruendo un nuovo confine reale, non la Linea Verde, ma una "linea di cucitura" che comprende l’annessione del 6% delle terre della Cisgiordania. L’Autorità di governo palestinese vede questa politica come un tentativo di Bantustanizzazione, la creazione, cioè, di cantoni isolati invece dello stato attuabile e da molto tempo promesso. Secondo l’opinione del corrispondente del quotidiano Ha’aretz, D. Rubenstein, si sta erigendo un "muro di strangolamento". Sono stati previsti oltre 350 chilometri di barriere fisiche, con un costo presunto di circa due milioni di dollari al chilometro; un terzo, la sezione nord, è già stata ultimata, e il completamento del resto è previsto per la fine del 2005. secondo un rapporto Onu, queste barriere isoleranno circa 274.000 palestinesi, confinandoli in piccole enclave. Altri 400.000 si troveranno nella zona a ovest del muro, con notevoli restrizioni alla libertà di movimento verso i loro terreni agricoli, il lavoro, la scuola e gli ospedali. L’ultima fase del piano di separazione Sharon sarà la "Barriera Orientale", un muro di 700 chilometri. Quando entrerà in vigore, lo stato palestinese e i suoi cittadini non avranno più alcun contatto con il mondo esterno se non sotto il controllo di Israele. Alla fine dello scorso anno, l’assemblea generale dell’Onu ha approvato una risoluzione che fa appello alla Corte internazionale di giustizia dell’Aia perché venga emesso un parere urgente sulla legittimità di erigere la barriera di separazione. La discussione è all’ordine del giorno per il 23 febbraio. Secondo la stampa israeliana, il governo di Tel Aviv dichiarerà non accettabile l’autorità della Corte su questa questione, e giustificherà la barriera come necessaria per la propria sicurezza interna. Tuttavia, Washington è contraria all’idea di Sharon di costruire la "Barriera Orientale", che vede come un mezzo per l’annessione della Valle del Giordano e delle alture che la dominano e rinchiudere così i palestinesi in una specie di prigione a cielo aperto. Ma a ben vedere, gli israeliani non possono che essere incoraggiati dalla mancanza di entusiasmo da parte degli Stati Uniti nel voler rafforzare le istituzioni internazionali. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione di Europa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.