Barbara Spinelli in ordine di tempo la sua ultima menzogna
Testata: Il Foglio Data: 20 gennaio 2004 Pagina: 4 Autore: Christian Rocca Titolo: «Una serrata polemica sulle»
Sul Foglio di oggi, Christian Rocca risponde all'editoriale di domenica di Barbara Spinelli, non nuova a mettere sotto accusa USA e Israele. Pubblichiamo il pezzo di Rocca che, al contrario, è preciso e circostanziato. Ci congratuliamo con lui per l'accurata analisi. Nessuno avrebbe saputo fare meglio. Per completezza d'informazione pubblicamio il pezzo della Spinelli dalla Stampa di domenica 18 gennaio. Gentile signora Barbara Spinelli, domenica ha iniziato il suo consueto editoriale sulla Stampa con una "menzogna". Le chiedo scusa per l’uso brutale della parola "menzogna" ma, diciamo così, è una sua citazione. E’ stata lei a scriverla più volte nel corso del suo articolo, a proposito della politica estera dell’Amministrazione Bush. Vengo subito al merito della "menzogna" (la sua, non quella di Bush). Lei ha scritto alla prima riga questa frase: "Abbattere i tiranni ed esportare la democrazia: alla fine, non avendo trovato le armi di distruzione di massa e non potendo certificare l’esistenza di un patto fra Saddam e i terroristi che avevano abbattuto le torri di New York, l’amministrazione americana è giunta a quest’ultima giustificazione della guerra iniziata nel 2003 in Iraq". Ha scritto "alla fine", "infine", "quest’ultima". Secondo lei, dunque, "non avendo trovato le armi di distruzione di massa", l’Amministrazione Bush "è giunta a quest’ultima giustificazione", cioè estendere l’uso della democrazia nei paesi petroliferi del Golfo e in Medio Oriente, far sì che i popoli governino se stessi senza l’oppressione d’un tiranno". Di questo progetto, scrive ancora, "Bush vuol apparire ultimamente profeta, e garante". Lei scrive "ultimamente". Gentile signora, ha scritto una "menzogna", peraltro su un grande giornale che meglio di altri ha raccontato ai suoi lettori le ragioni e le finalità della guerra al terrorismo. Sia chiaro, gentile signora: Bush ha certamente sempre parlato delle armi (che non si sono trovate ma che tutti, Onu, Francia e Saddam compresi davano per scontato che ci fossero) e di legami tra Iraq e al Qaida (che sono stati provati), ma contemporaneamente non ha mai nascosto che l’obiettivo di questo enorme sforzo contro il terrorismo fosse la sicurezza degli Stati Uniti, e che la sicurezza nel lungo periodo non potesse che essere assicurata dalla liberazione dalla tirannia e dall’avvio del processo liberale e democratico in Medio Oriente. Non è una mia opinione, è un suo errore. Una sua "menzogna" direbbe lei. La prego di prendere un taccuino e segnarsi queste date e queste frasi che dimostrano la fallacità delle sue affermazioni. Ottobre 2002, 15 mesi fa, non "ultimamente", la risoluzione del Congresso americano che autorizza l’uso della forza contro l’Iraq dice esplicitamente che, come già previsto dall’Iraq Liberation Act, "la politica degli Stati Uniti deve essere quella di sostenere gli sforzi per rimuovere dal potere l’attuale regime iracheno e promuovere la nascita di un governo democratico che rimpiazzi quel regime". Preso nota? Bene. Qualche giorno prima, il 19 settembre 2002 (16 mesi fa, non "infine"), Bush ha presentato il testo della risoluzione, e alla domanda di un giornalista che chiedeva se l’obiettivo del "cambio di regime" facesse parte della risoluzione, ha risposto: "Sì, questa è la politica del governo". Se non le bastasse, e sempre restando ai documenti ufficiali, nel discorso sullo Stato dell’Unione del 29 gennaio 2002, Bush ha detto che "l’America starà sempre fermamente al fianco delle non negoziabili richieste di dignità umana: stato di diritto, limiti al potere dello Stato, rispetto delle donne, proprietà privata, libertà di parola; giustizia equa e tolleranza religiosa. L’America sarà sempre a fianco degli uomini e delle donne coraggiose che reclamano questi valori nel mondo, incluso nel mondo islamico". Perché crede di essere più buona? No, "perché ha un obiettivo più grande che non la semplice eliminazione delle minacce e del contenimento del rancore. Noi oltre la guerra al terrore, cerchiamo un mondo giusto e pacifico". Non le sembra chiaro? Legga allora cosa rispose Bush, era il 7 settembre del 2002, a una giornalista che gli chiedeva quale fosse "davvero il suo obiettivo in Iraq: le armi di distruzione di massa o Saddam Hussein?". Lo sventurato rispose: "L’Amministrazione Clinton ha sostenuto il cambio di regime. Molti senatori hanno sostenuto il cambio di regime. La mia Amministrazione continua a sostenere il cambio di regime". Ancora. Siamo sempre nel 2002, due anni solari fa. A Cincinnati, citando un ispettore dell’Onu, Bush ha spiegato perché tra tutti i regimi con armi di distruzione di massa sarebbe stato necessario fermare proprio l’Iraq: "Il problema fondamentale dell’Iraq è la natura stessa del suo regime". Bush sperava ancora che Saddam accettasse di adempiere alle risoluzioni Onu, se lo avesse fatto non ci sarebbe stata la guerra. Lei, signora Spinelli, potrebbe dire: vedete? la democrazia non c’entra, Bush voleva solo il disarmo, del regime non gli interessava un fico secco. E invece no, gli interessava. Sempre in quel discorso, infatti, Bush ha detto che se Saddam avesse adempiuto agli obblighi imposti dalla comunità internazionale sarebbe stato un fatto così clamoroso che avrebbe, di per sé, "cambiato la natura stessa del regime iracheno". Stessa cosa nei giorni seguenti, alle domande dei giornalisti su quale fosse il vero obiettivo, le armi o Saddam, Bush ha sempre detto: il cambio di regime. Oltre alle armi, insomma, c’era da abbattere la dittatura. Tutti i discorsi, gentile signora, può trovarli sul sito della Casa Bianca. Arriviamo al 2003. Ventisei febbraio, un mese prima dell’inizio della guerra, discorso all’American Enterprise Institute (la citazione, qui, è lunga, perché Bush ha parlato soltanto della necessità di esportare la democrazia in Medio Oriente): "Intervenire per rimuovere la minaccia contribuirà in modo essenziale alla costruzione di una sicurezza e stabilità durature per il nostro pianeta. L’attuale regime iracheno ha dimostrato ampiamente come la tirannia abbia la capacità di diffondere la discordia e la violenza in tutto il Medio Oriente. Un Iraq liberato mostrerà come la libertà abbia la forza di trasformare questa regione di importanza vitale, portando speranza e progresso nella vita di milioni di persone. La preoccupazione dell’America per la sicurezza e la sua fede nella libertà conducono nella stessa direzione: a un Iraq libero e pacifico. I primi a trarre vantaggi da un Iraq libero saranno gli stessi iracheni. Oggi vivono nella miseria e nella paura, sotto il giogo di un dittatore che non gli ha dato altro che guerra, povertà e tortura. La loro vita e la loro libertà non contano niente per Saddam; ma per noi sono assolutamente importanti. Portare la stabilità e l’unità in un Iraq libero non sarà facile. Ma questa non è una scusa per lasciare che le camere di tortura e i laboratori di armi chimiche del regime iracheno continuino a funzionare. Qualunque futuro si sceglierà il popolo iracheno sarà sempre migliore dell’incubo in cui li costringe a vivere Saddam". Continua Bush, peraltro anche in italiano, gentile signora Spinelli, in particolare sul Foglio del 28 febbraio: "Gli Stati Uniti non hanno alcuna intenzione di stabilire la forma precisa del nuovo governo iracheno. Questa scelta appartiene al popolo dell’Iraq. Tuttavia, non permetteremo che un brutale dittatore sia sostituito da un altro uguale a lui. Tutti gli iracheni dovranno avere voce in capitolo nel nuovo governo, e a tutti i cittadini dovranno essere garantiti i propri diritti. La ricostruzione dell’Iraq richiederà l’impegno attivo di molte nazioni, compresa la nostra: resteremo in Iraq per tutto il tempo necessario, e non un giorno di più. L’America ha già preso e rispettato in passato questo tipo di impegno: nella pace seguita alla Seconda guerra mondiale. Dopo avere sconfitto i nemici, non abbiamo lasciato eserciti d’occupazione ma Costituzioni e Parlamenti. Abbiamo creato un’atmosfera di sicurezza, grazie alla quale capi locali riformisti hanno potuto dare vita a stabili istituzioni di libertà. Nelle società che avevano nutrito il fascismo e il militarismo, la libertà ha messo radici permanenti. Ci fu un momento in cui molti dissero che il Giappone e la Germania erano incapaci di vivere nel rispetto dei valori democratici. Ebbene, sbagliavano. Oggi alcuni dicono la stessa cosa dell’Iraq. Si sbagliano anche loro. La nazione irachena – con la sua prestigiosa eredità culturale, le sue abbondanti risorse la sua capace e istruita popolazione – è perfettamente in grado di muoversi verso la democrazia e verso una vita vissuta in piena libertà". Legga qui, gentile signora, la guerra non era ancora iniziata: "Il mondo ha un evidente interesse nella diffusione dei valori democratici, perché le nazioni solide e libere non alimentano le ideologie della violenza. Incoraggiano invece la ricerca di una vita migliore. E nel Medio Oriente ci sono segnali di una voglia di libertà che danno molte speranze. Gli intellettuali arabi hanno invitato i governi degli Stati arabi ad affrontare il problema della ‘mancanza di libertà’, in modo che i loro popoli possano avvantaggiarsi pienamente dei progressi della nostra era. I leader della regione parlano di una nuova Carta degli Arabi che promuova le riforme interne, una maggiore partecipazione politica, l’apertura e la trasparenza economica, e il libero commercio. Dal Marocco al Bahrein e anche oltre, le nazioni stanno facendo passi concreti in direzione delle riforme politiche. Un nuovo regime in Iraq rappresenterà un esempio di libertà straordinario e ispiratore per altre nazioni della regione. E’ una cosa presuntuosa e insultante sostenere che un’intera regione del mondo – o un quinto dell’umanità, di religione musulmana – sia in qualche modo sorda alle più fondamentali aspirazioni della vita. Le culture possono essere diverse tra loro. Ma, in qualsiasi parte del mondo, il cuore dell’uomo desidera le stesse buone cose. Il desiderio di vivere al sicuro dall’oppressione dei violenti e dei prepotenti è condiviso da tutti gli uomini, così come la preoccupazione per i propri figli e la speranza che abbiano una vita migliore. Per queste fondamentali ragioni, la libertà e la democrazia avranno sempre e dovunque un fascino e un richiamo molto superiore a quello degli slogan fomentatori d’odio e della strategia del terrore". Il 16 marzo, al summit atlantico alle Azzorre, Bush ha promosso un documento con Tony Blair e José María Aznar che diceva: "Noi vorremmo sottoporci a un impegno solenne per aiutare il popolo iracheno a costruire un nuovo Iraq in pace con se stesso e con i vicini. Gli iracheni meritano di essere sollevati dall’insicurezza e dalla tirannia, e liberati per autodeterminare il futuro del loro paese. Sosterremo le aspirazioni per un governo rappresentativo che consideri i diritti umani e lo stato di diritto come pietre miliari della democrazia". Signora Spinelli, la guerra non era ancora iniziata in quel momento. Tre giorni dopo, Bush l’ha annunciata con queste parole: "Cari cittadini, a quest’ora, le forze americane e della coalizione, hanno appena iniziato le operazioni militari per disarmare l’Iraq, liberare il suo popolo, e difendere il mondo da un grave pericolo". A guerra finita, i discorsi sulla democrazia non si contano, ma almeno uno glielo vorrei segnalare, magari Le potrà servire per un prossimo articolo. Era il 7 novembre, due mesi e mezzo fa (non "infine" come ha scritto Lei domenica), al National Endowment for Democracy. Lì è stata spiegata la dottrina del virus democratico, simile a quella attuata venti anni fa da Ronald Reagan. Le riporto solo due parole: "Creare un Iraq libero nel cuore del Medio Oriente sarà un evento spartiacque". Il discorso piacque finanche agli anti Bush New York Times e Washington Post. La Stampa, il suo giornale, ne parlò ampiamente. Lei, gentile Barbara Spinelli, non ne ha tenuto conto e, sempre domenica, ha scritto che "a forza di passare disinvoltamente da una menzogna all’altra, tuttavia, c’è il pericolo di affezionarsi alle menzogne". Sottoscrivo. Ecco il pezzo della Spinelli, pubblicato su La Stampa di domenica in prima pagina.
Abbattere i tiranni ed esportare la democrazia: alla fine, non avendo trovato le armi di distruzione di massa e non potendo certificare l'esistenza di un patto fra Saddam e i terroristi che avevano abbattuto le torri di New York, l'amministrazione americana è giunta a quest'ultima giustificazione della guerra iniziata nel 2003 in Iraq. Estendere l'uso della democrazia nei paesi petroliferi del Golfo e in Medio Oriente, far sì che i popoli governino se stessi senza l'oppressione d'un tiranno: di questa rivoluzione Bush vuol apparire ultimamente profeta, e garante. È una missione che muta i dettami stessi della dottrina sulle guerre preventive - dette anche «guerre di difesa anticipata» - e almeno in apparenza è piena di forte e buona volontà: almeno in apparenza, l'attenzione oggi si concentra tutta sulla costruzione di Stati democratici. La nuova vulgata della Casa Bianca è a parole semplicissima, e non sembra temere le accuse di incoerenza: in Iraq si è fatta una guerra giusta ma non autodifensiva, come pure fu detto in principio. Dai propositi difensivi si è passati d'un sol colpo a propositi rivoluzionari e offensivi. Non ci si è mobilitati per proteggere il proprio territorio da una minaccia imminente - tale fu la giustificazione iniziale - ma per mettere la democrazia al posto di regimi sanguinari ma non troppo rischiosi per l'attaccante (troppo pericolosa, la Corea del Nord è risparmiata). A forza di passare disinvoltamente da una menzogna all'altra, tuttavia, c'è il pericolo di affezionarsi alle menzogne. Si evocano pericoli incombenti, per poi dire che no, i motivi della guerra erano da principio tutt'altri. Si scopre che esiste ormai un terrorismo globalizzato, e poi si colpisce un paese molto dispotico ma senza legami certi con l'11 settembre. Esattamente la stessa cosa rischia di accadere, ora, con l'esportazione della democrazia: anche questa promessa ha tutta l'aria di essere poco credibile, come poco credibili son risultate le ragioni belliche esposte in precedenza. Anche i discorsi americani sulla democrazia in Iraq rischiano d'esser percepiti come impostura: tale è la loro sconnessione dalla realtà vissuta sul terreno dagli iracheni, tale il bisogno di uscire da una menzogna con un'altra menzogna. È quello che ha scritto recentemente Philip Bobbitt, ex consigliere di Clinton e autore di un’importante storia della guerra che s'intitola The Shield of Achilles - «Lo scudo di Achille» (New York 2002). In verità, scrive Bobbitt sull'Observer e nel suo libro, «gli Stati Uniti non sanno spiegare perché vogliono estendere le pratiche democratiche a tutti gli Stati». E non sanno spiegarlo perché dal loro punto di vista «è la forza a creare il diritto (might makes right), e non l'esistenza d'un ordine legale ben definito». Di qui l'incongruenza: forse quel che gli uomini di Bush dicono non corrisponde affatto a quel che vogliono. Dicono che vogliono la democrazia, ma senza approfondire alcunché. Si propongono di restituire la sovranità agli iracheni col metodo democratico, ma in fondo è precisamente questo che non desiderano. Forse la Casa Bianca muterà posizione, forse riscoprirà il ruolo prezioso che l'Onu può esercitare nel controllo dei processi elettorali. Ma per il momento l'impotenza dell'amministrazione è vasta. È un'amministrazione che promette cose in cui evidentemente non crede: la democrazia, per lei, sembra essere più un modo di dire, che di fare. Bush si comporta, con la democrazia, come l'apprendista stregone di Goethe: il maestro d'incantesimi ordina a una scopa di fare quel che egli le chiede, ma ecco che la scopa fa di testa sua. Alla fine, disperato, lo stregone vorrebbe liquidare le forze che lui stesso aveva suscitato: «Signore, il pericolo è grande! Gli spiriti, chiamati per magia, ecco che non riesco a liberarmene!». Proprio questo sta accadendo in Iraq, con gli sciiti e il loro ayatollah al-Sistani che sono più che mai decisi a prendere alla lettera le parole così sbadatamente ripetute da Bush. La democrazia? Sì, proprio quella vogliamo e non l'assemblea di cooptati che ci avete promesso nel piano di trasferimento dei poteri: questo il messaggio di al-Sistani. Vogliamo la stessa democrazia che avete voi: le elezioni al più presto, un'assemblea veramente rappresentativa che scriva la Costituzione, e non un'ennesima assemblea selezionata dagli americani. Stanco di non essere ascoltato, al-Sistani ha emesso una fatwah, un editto religioso che chiede la convocazione di elezioni libere. Poi ha dato forza alla fatwah organizzando una grande manifestazione di sciiti a Bassora, giovedì. In quest'occasione ha minacciato una seconda fatwah: se Washington continua a ignorare quel che accade in Iraq, l'editto si farà ancora più ostile. A tutti i fedeli sciiti, che pure avevano accolto positivamente le truppe Usa, si vieterà qualsiasi collaborazione con le forze d'occupazione. Gli sciiti sono sicuri di vincere le elezioni, perché rappresentano il 60 per cento della popolazione. Naturalmente si possono capire le preoccupazioni statunitensi. Una vittoria dell'Islam sciita - nonostante l'esistenza nel suo seno di una corrente moderata, ostile alla fusione tra Stato e chiesa - non porterebbe necessariamente democrazia e Stato di diritto. La legge musulmana prenderebbe forse il sopravvento, il pluralismo non sarebbe garantito. Non è una preoccupazione da prendere sottogamba, perché in effetti la democrazia non è solo vittoria di maggioranze numeriche: è anche rispetto di leggi che non mutano a seconda dei governi, è rispetto di istituzioni neutrali e di costituzioni che tutelino le minoranze. E poi c'è un motivo strategico per temere le elezioni immediate richieste da al-Sistani: il trionfo sciita spaventerebbe i sunniti, che per la prima volta si troverebbero a non governare l'Iraq, e accentuerebbe, nei curdi, il desiderio di secessione. La guerra in tal caso non finirebbe ma ricomincerebbe più aleatoria di prima, coinvolgendo anche Turchia e Iran. Se le preoccupazioni sono giustificate, però, non si può dire che l'occupante americano abbia lavorato a fondo per scongiurare i mali che paventa. Non ha usato prudenza e per un anno ha fatto il sordo, senza meditare risposte serie alla sfida degli sciiti. Non è solo nell'ultima settimana infatti che l'ayatollah al-Sistani (inizialmente il più moderato e meno teocratico degli sciiti) ha espresso la sua preferenza per elezioni libere e rapide. È dal mese di giugno che rivendica il diritto alle urne, e sempre Washington ha sminuito quel che diceva. Credeva di avere in pugno al-Sistani, credeva che con i soldi o l'abbattimento di Saddam avrebbe conquistato per sempre gli sciiti. Ha insomma avuto molti mesi per prepararsi, e ora si trova impreparata di fronte a una fatwah che può divenire antiamericana. Bush poteva anticipare le elezioni, o fare in modo che alcune regole sulla protezione delle minoranze venissero concordate prima di un voto. Poteva negoziare più lealmente con al-Sistani, evitando di trattarlo come un minorenne un po' riottoso, ma pur sempre minorenne. Poteva dare un ruolo davvero centrale all'Onu, visto che al-Sistani non parla più con Washington ma parla con Kofi Annan. Solo nelle ultime ore, Bush chiede aiuto alle Nazioni Unite, che tanto aveva vilipeso. Dilemmi del genere, legati al nascere delle democrazie, non sono sorti con l'occupazione dell'Iraq. Washington e gli europei accettarono nel 1992 la sospensione di un democratico processo elettorale in Algeria, quando il Fronte Islamico di Salvezza vinse le elezioni. Probabilmente non sbagliarono, ma ben presto smisero di pensare a questa questione che restava pur sempre scabrosa per la democrazia: già allora fu la forza a creare il diritto, e non l'elaborazione di un nuovo ordine legale o di una nuova definizione delle democrazie. Oggi inoltre non basta riferirsi all'Algeria del '91-'92. L'America vuol creare in Iraq un protettorato imperiale, e le conseguenze di un mancato appuntamento con la democrazia ricadono su chi ha iniziato la guerra con la scusa di esportare la democrazia. A differenza dei vecchi protettorati, tuttavia, quello odierno è un protettorato riluttante, e afflitto da grave incompetenza. Bush non vuole restare a lungo in Iraq, perché non è come occupante che vuol vincere le elezioni. Non vuol versare troppo denaro. Ma soprattutto c'è una cosa che lo distingue dai protettori coloniali d'un tempo: il Presidente sa assai poco, del paese che dice di voler civilizzare. Non ne conosce le tradizioni, il linguaggio, le suscettibilità. Non sa che un popolo che si pretende di liberare non lo si può a lungo ingannare. È Bobbitt stesso a dirlo, che pure approva le guerre di difesa preventiva: non ci si comporta «come quei piccoli imprenditori che hanno solo il mercato e la market-democracy in mente, e nessun senso delle leggi e delle istituzioni». Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio e della Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.