Non è certo un mea culpa per essersi aggregato di tanto in tanto alla schiera dei seguaci di quella che nel contesto dell' articolo viene definita la giudeofobia, ma certamente l' Espresso ci aiuta a capire meglio quanto sta succedendo. In alcuni stati europei più che in altri sembra aver ripreso un vigore inaspettato l' antisemitismo tradizionale, con alcune varianti più apparenti che reali, e con un suo trasferimento in blocco dall' estrema destra alla sinistra anche non estrema. Certamente, la Francia è tra questi stati al primo posto, e non solamente perché qui vivono più numerosi che altrove ebrei e musulmani.Il radicalismo sciovinista dei francesi, una certa loro tendenza ad estremizzare concezioni laiche del retaggio illuminista ed egalitario, hanno un ruolo in questo fenomeno. Leggiamo dunque questa analisi, costruita da Riva attraverso interviste ben selezionate, e cerchiamo attraverso questa di capire anche il nostro mondo italiano, che ricalca in parte gli schemi del nuovo antisemitismo, come noi preferiamo chiamarlo anziché ricorrere a termini che lo definiscono in maniera più sfumata ed edulcorata. Del nostro nuovo antisemitismo casalingo ci siamo occupati in passato, e dovremo purtroppo occuparci anche in futuro. A titolo di preavviso di come si stia evolvendo, possiamo portare un esempio di attualità: una sequela di illustri ed insospettabili istituzioni (Ministero dei Beni Culturali, Associazione per la storia e la memoria della Repubblica, Dipartimento della Scienza e dell' Educazione dell'Università Roma Tre)organizzano per il 28 e 29 gennaio un convegno internazionale che si propone di analizzare la realtà dei campi di concentramento; hanno coinvolto l' ANED, l' Unione delle Comunità Ebraiche Italiane ed altre istituzioni direttamente interessate.Ebbene, la conclusione del convegno è affidata ad una tavola rotonda che affianca Massimo d' Alema (che ne sa lui di campi di concentramento?), Amos Luzzatto , David Meghnagi ed un docente dell' Università di Haifa, Ilan Pappè, che è stato sollevato dal suo incarico di docente in quanto si era premurato di invitare tutti i docenti del mondo a boicottare lo stato d'Israele, che non ha il diritto di esitere in quanto fondato sul massacro e sullo sterminio. Di materia da analizzare e sulla quale meditare ne abbiamo anche a casa nostra, senza doverla cercare in Francia. Ecco il servizio dell'Espresso: Primo piano
È tornato l'antisemita
La più numerosa comunità ebraica e la più grande musulmana vivono in Francia. Ed è qui che è più forte la domanda se l'odio razziale e religioso sia in aumento. Con la paura di rivivere tragedie del passato
di Gigi Riva da Parigi
Ha visto come mi ha guardato male quella studentessa musulmana...? Parigi, place Clichy, le 18 di un pomeriggio qualsiasi d'inizio 2004. Il professor Pierre-André Taguieff misura gli effetti della popolarità televisiva. È stato spesso ospite di trasmissioni per spiegare i contenuti del suo libro 'La nouvelle judéofobie'. Giudeofobia: ha dovuto riconiare un termine, ridargli un significato, per definire ciò che sta succedendo in Francia e non solo "perché nulla è locale nel mondo globalizzato". La sua tesi. La giudeofobia post-antisemita è una forma allargata del concetto di razzismo. Per paradosso è il prodotto di una parte di società civile che crede di essere antirazzista. Nasce dalla saldatura tra ambienti dell'ultrasinistra e dell'immigrazione radicale. Nelle periferie ci sono i satelliti, si vedono i telegiornali arabi, le immagini e i commenti sul conflitto israelo-palestinese. Qualcuno, magari disoccupato, magari disperato, magari convinto dal bombardamento mediatico che gli ebrei sono la causa della sua condizione, trasferisce la guerra dal Medio Oriente in Europa e va ("Convinto di fare la cosa giusta", dice Taguieff) a bruciare sinagoghe, profanare cimiteri, picchiare ragazzi con la kippah. Con una regia superiore, è evidente, se è capitato che gli attacchi fossero sincronizzati in diverse aree del Paese.
A confermare la simmetria con gli eventi che accadono tra il Mediterraneo e il fiume Giordano, c'è il grafico degli attentati, schizzato verso l'alto dalla seconda Intifada nel 2000, con punte vertiginose all'inizio (450 nei primi due anni) e una discesa negli ultimi tempi, quando se ne tratta di meno. Se non è in esclusiva un male francese, la Francia è però un paese paradigmatico perché è qui che le due comunità sono numericamente più forti in Europa. Le cifre oscillano, ma grosso modo sono circa 600 mila gli ebrei, la maggioranza proveniente dal Nordafrica e 5 milioni i musulmani, arrivati in gran parte dagli stessi luoghi.
"Anni di cristallo", ha già commentato un preoccupato intellettuale come Alain Finkielkraut, evocando gli esordi visibili dell'antisemitismo nazista. Eccessivo? Allarmistico? La sindrome delle vittime spesso rimproverata agli ebrei? I paragoni sono tutti zoppi, questo che chiama in causa, per derivazione, la Shoah suona insopportabile per un'Europa che ha fatto del 'mai più Auschwitz' un suo dogma fondativo. Nel momento in cui crolla il tabù ("Ed è crollato perché era un tabù", sottolinea Taguieff) assieme al suo totem, è proprio l'identità europea che l'aveva messo alla radice che s'incrina, assieme alle varie identità nazionali. Se l'indicibile diventa dicibile, l'allarme per gli ebrei bastonati travalica la semplice paura fisica, rimette in discussione l'ordine delle cose.
Shmuel Trigano, docente di sociologia della politica e della religione, fondatore e presidente dell'Observatoire du monde juif che si occupa di monitorare le aggressioni (vedi intervista a pag. 40) lo definisce fenomeno nuovo. Pur se non nega certe pericolose discendenze come una supposta 'comprensione' pubblica, se non proprio benevolenza, lontana parente di quella debolezza che fece prosperare Hitler. Gli avvocati Gilles-William Goldnadel e Aude Weill-Raynal, presidente e vice dell'associazione Avvocati senza frontiere riconoscono che, dopo una prima fase di latitanza, le istituzioni hanno fatto la loro parte. Il presidente Jacques Chirac, il ministro della Giustizia Dominique Perben hanno condannato, e duramente, promettendo fermezza contro "tutti gli atti antisemiti, razzisti o xenofobi". Però gli intenti non si sono tradotti in pene. In un loro saggio constatano, esempi alla mano, quanto siano diventati più teneri i giudici, rispetto agli anni Novanta nell'emettere sentenze contro chi si è macchiato di reati di propaganda antisemita. Citano, all'Observatoire, il caso eclatante del rogo della sinagoga di Montpellier. Per controllare gli effetti dell'azione, i tre responsabili si sono fermati a guardare. Presi, arrestati, processati. Risultato: riconosciute le attenuanti perché disoccupati.
'Morte agli ebrei', stava scritto sullo striscione issato sul monumento di piazza della Repubblica durante una manifestazione. Non succedeva dal 1945. Lo choc è stato tale che parte degli organizzatori, l'estrema sinistra, si sono fisicamente ritratti su un lato della grande piazza. Senza però poi prendere decisamente le distanze, come sarebbe stato opportuno. Gli ebrei di Francia se ne sono dispiaciuti: ecco il 'nuovo', si sono detti, non più solo da destra, ora anche da sinistra siamo attaccati. Una sindrome da accerchiamento. Il Belgio soffre dello stesso male. Ad Amsterdam è comparso un altro slogan: 'Hitler ne ha dimenticato uno: Sharon'. In Italia, segnala il professor David Meghnagi, "un docente bolognese ha comunicato la sua indisponibilità a partecipare a un convegno sulle espulsioni degli ebrei dalle università durante il fascismo, fintanto che gli ebrei italiani non esprimeranno un'identica solidarietà verso i palestinesi".
La giudeofobia si nutre delle critiche (legittime) al governo Sharon, nel mescolarle con vecchi stereotipi dell'antisemitismo arriva però a negare il diritto all'esistenza dello Stato d'Israele, alla sua definizione come male assoluto. Tornano in circolazione i Protocolli dei saggi di Sion, diffusi da Ahmed Rami, il fondatore di Radio Islam, lo stesso che ha stilato liste di ebrei (talvolta immaginari) che dirigerebbero la politica americana. O che l'avrebbero diretta anche durante l'amministrazione di Bill Clinton. Da qui il facile assioma per il quale anche il conflitto iracheno altro non sarebbe se non una guerra sionista per la creazione del Grande Israele. A Rami si affianca, in questo caso, la destra lepenista, attaccata al suo antisemitismo storico, con una serie di articoli pubblicati sulla rivista vicina al Fronte, 'National Hebdo'. Sarà il caso di ricordare come i falsi Protocolli furono fatti circolare specialmente prima delle due guerre mondiali, per giustificare il mito del complotto mondiale e della conseguente 'guerra ebrea'.
Il professor Georges-Elia Sarfati si è preoccupato, in questa fase confusa, di fare chiarezza almeno sui termini. La giudeofobia sarebbe il risultato di almeno tre filoni di pensiero antichi e recenti: l'antigiudaismo di natura religiosa e spirituale (gli ebrei deicidi, come anche nel cristianesimo); l'antisemitismo di natura socio-culturale (gli ebrei erranti, dunque cosmopoliti e corruttori delle tradizioni); l'antisionismo di natura politica (l'esistenza di Israele). Si sa come andò nel passato, quando dai primi due filoni nacquero diaspora, persecuzioni e Olocausto. Si sa come l'antisionismo abbia già avuto come programma l'isolamento diplomatico e il boicottaggio. Nella casella su cosa succederà quando la giudeofobia passerà più pesantemente all'azione, Sarfati ha messo un punto di domanda.
Trattandosi di 'nuovo', nessuno è in grado di prevedere cosa riserverà il futuro. Già è faticoso analizzare il presente. Per farlo, il professor Taguieff ha in programma, per febbraio, un seminario sul 'communautarisme', termine intraducibile in italiano, almeno nella ricca accezione francese, lingua in cui il significato si dilata fino a razzismo, odio tra comunità, chiusura. Secondo un recente sondaggio di Sofres sull'antisemitismo, il 'communautarisme' è la preoccupazione per il 46 per cento dei francesi. Il 45 per cento dei 3.186 intervistati ha poi risposto che non è una manifestazione di antisemitismo contestare l'esistenza stessa dello Stato d'Israele; il 21 per cento scherzare sulle camere a gas. I sondaggi, si sa, sono interpretabili. Proprio facendo parlare le cifre, una studiosa di origine ebraica come Nonna Mayer, nega che ci sia un aumento di antisemitismo in Francia. Le sue pezze d'appoggio. Nel 1946 poco più di un terzo considerava i cittadini francesi di origine ebraica "francesi come gli altri francesi". Nel 2000 erano più dei due terzi. Nel 1966 la metà era ostile all'idea di un presidente francese ebreo, mentre oggi siamo a meno del 10 per cento. Dunque, la sua conclusione, l'antisemitismo sta diminuendo e la Francia non è antisemita anche se resistono, e crescono, due luoghi comuni: gli ebrei sono ricchi e hanno troppa influenza e troppo potere (20 per cento nel 1988, 34 per cento nel 2000). Usa i numeri anche per smentire che l'antisemitismo sia ormai più diffuso a sinistra che a destra. Quanto agli autori degli attentati, li identifica in una piccola minoranza appartenente a famiglie svantaggiate di periferia e "senza una particolare ideologia".
Sorride un po' sarcastico davanti ai dati Marc Lazar, direttore della scuola dottorale di Scienze politiche: "Alle prossime presidenziali vedremo se davvero i francesi vogliono un presidente ebreo visto che ci sono almeno due candidati potenziali come Fabius e Strauss-Kahn che hanno quell'origine". Lui sta in mezzo tra le teorie allarmiste e quelle consolanti di Nonna Mayer. La quale, a suo avviso, commette qualche errore. Anzitutto, venendo da sinistra, non coglie nel profondo la mutazione avvenuta in certe frange: "Nella Lega comunista di ispirazione trotzkista, ad esempio, erano pronti ad accettare a un forum un personaggio discutibile come Tariq Ramadan. Sono state le donne comuniste a salvare i loro compagni, opponendosi decisamente viste le sue teorie sul velo e sul ruolo delle donne. Più in generale: "I sondaggi non sono in grado di fotografare ciò che succede nell'immaginario delle persone, nella rappresentazione del mondo e delle idee".
Nell'immaginario insondabile abita la figura di un'identità ebraica difficile da afferrare. Anche per una sua intrinseca ambiguità. "Sarà per questo", chiosa Taguieff, "che gli ebrei, complessi, poliedrici, un po' francesi, un po' italiani, un po' tutto, sfuggono a una classificazione chiara e dunque diventano un nemico in un mondo che si va polarizzando e che non bada a sfumature". È questo il nocciolo culturale della giudeofobia? Ogni risposta è parziale. C'è il pensiero opposto: di una Francia in crisi d'identità per il venir meno del solido riferimento dello Stato, qui nato prima e una volta più forte della nazione. E che invidia agli ebrei una supposta forte coscienza di sé.
Comunque sia, resta un dato di fatto: c'è, in un pomeriggio qualunque di inizio 2004 a place Cliché, un professore che crede di vedere ostilità, per le sue idee, negli sguardi di una studentessa musulmana.
Ciò che si chiede a Israele non lo si chiede agli altri
Lo sa che ci sono persone che mi chiedono di prendere le distanze dal premier d'Israele Ariel Sharon per rendermi frequentabile? Come se quello fosse un criterio per appartenere alla società civile... Anche adesso che lo riferisce, sul volto di Shmuel Trigano, professore universitario, fondatore dell'Observatoire du monde juif si dipinge uno stupore misto a orrore.
E se lei lo difende cosa succede?
"Una sorta di finta comprensione. Del tipo: la capiamo perché lei è ebreo. Non conta nulla se sono anche persona, intellettuale. No, conta l'appartenenza. Si è costruito, nell'immaginario, un Israele mostruoso, diabolico. Sharon come Milosevic o peggio. Così si è fatto di Sharon un mito, il che è ridicolo. E comunque è stato eletto democraticamente, tornerà, prima o poi alla sua fattoria".
Questa percezione d'Israele è cambiata con la seconda Intifada?
"No, il processo è stato più lungo. Dalla guerra del Libano nel 1982 in poi direi. Oslo poi ha creato l'illusione che potesse esserci la pace e invece era solo l'inizio di un percorso. Da allora è stato come vedere un film a rovescio con gli ebrei accusati di essere nazisti. Credevamo che certe cose, come la memoria sulla Shoah fossero acquisite, che la nascita dello Stato d'Israele fosse decisiva sia perché così si entrava nel consesso delle democrazie, sia perché noi ci appoggiavamo a quello Stato anche per ricostruire le comunità in Europa. Invece, ora, molti ebrei si chiedono se lasciarla l'Europa, visto quello che accade".
E tuttavia ci sarà un limite entro il quale è possibile criticare Israele senza essere antisemiti.
"Certo. I criteri sono due. Il governo ha una durata temporanea è criticabile ciò che fa ma non fino al punto di mettere in discussione l'esistenza dello Stato. E il metodo di critica deve essere comparabile a quello usato con altri Stati. E invece ciò che si chiede a Israele non lo si chiede agli altri".
Dunque, lei non condanna Israele.
"Quando ce lo si chiede è come chiederci di condannare noi stessi. Perché là c'è la grande maggioranza di noi. Proprio a causa di questo siamo accusati di non essere affidabili, di avere una doppia fedeltà nei confronti di Israele e dello Stato dove viviamo. Quando in realtà, per dire della Francia, noi siamo sempre stati fedeli alla Repubblica e ai suoi valori.
Ci siamo appellati per essere difesi ora che siamo aggrediti".
Atti fino a poco fa inimmaginabili.
"La monumentalizzazione della Shoah, la sua totemizzazione ha impedito di pensarla. E questa mancanza di elaborazione si è rivolta contro gli ebrei. So che c'è anche l'interpretazione psicoanalitica: vedere gli ebrei come nazisti è un modo per l'Europa di liberarsi della sua colpa antica. Ma attenzione, il malinteso su questo può essere fatale per l'Europa".
G. R.
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