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Lo dice anche il principe saudita Bin Salman: Khamenei è il nuovo Hitler


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L'Espresso Rassegna Stampa
09.01.2004 Quel che c'è realmente dietro la gestione delle finanze dell'ANP
ovvero quello che la rivista non dice (o molto poco)

Testata: L'Espresso
Data: 09 gennaio 2004
Pagina: 70
Autore: Gigi Riva
Titolo: «Giù le mani dagli aiuti»
Su L’Espresso di questa settimana compare un articolo a firma di Gigi Riva che esamina le innovazioni che verranno apportate alla gestione delle finanze dell’ANP da parte di Salam Fayyad. In passato – come ormai tutti sappiamo – i fondi ricevuti dall’ANP da qualunque fonte sono stati spesso distratti e per finanziare più o meno direttamente le attività terroristiche. L’articolo di Gigi Riva chiarisce quindi come il compito del funzionario palestinese sia oggi difficile in quanto alcuni finanziatori sarebbero oggi più attenti chiedendo garanzie sull’utilizzo dei finanziamenti erogati.

Ci limitiamo ad aggiungere (con maggiore chiarezza rispetto al giornalista) che la nuova prudenza di cui si parla non trova purtroppo riscontro nei confronti dei paesi arabi che invece continuano a finanziare le attività terroristiche e ad inviare sussidi alle famiglie degli attentatori. Anzi, l’Arabia Saudita, successivamente alla caduta del regime irakeno ha introdotto un nuovo sussidio per le famiglie dei terroristi palestinesi. L’incitamento al terrorismo palestinese si basa infatti sui finanziamenti dei paesi arabi alle organizzazioni terroristiche per il relativo funzionamento, per l’acquisto di armi, per l’incitamento all’odio, per l’organizzazione di eventi con risalto mediatico (ad es. i funerali con cartelloni e grande partecipazione di folla). Inoltre molte sono le pressioni (non solo economiche) che vengono effettuate sulle singole famiglie, tanto che spesso il terrorismo diventa una scelta obbligata (i familiari degli attentatori si mostrano infatti sempre fieri di quanto accaduto).

Queste considerazioni non sono state riportate dal giornalista che si è limitato ad accennare che i paesi arabi "continuano a versare il loro contributo". Una maggiore chiarezza avrebbe consentito al lettore di capire meglio la differente politica attuata da vari Stati che spesso più che complici devono essere considerati veri e propri mandanti.

Per completezza di informazione, sullo stesso argomento dei finanziamenti, rimandiamo al Foglio di oggi "Il terrorismo non ha prezzo".(vedere su Home Page)

Riportiamo comunque integralmente l’articolo che è certamente interessante.

Chissà se Salam Fayyad si addormenta ancora beatamente, accanto alla moglie e ai tre figli, ora che deve sentirsi il peso di una responsabilità così grande per le spalle di un solo uomo. Salam Fayyad, 52 anni, buoni studi economici in America, ex funzionario della Banca mondiale, è il ministro delle Finanze dell'Autorità nazionale palestinese. Lo era con Abu Mazen, lo è con Abu Ala, nonostante non sia propriamente simpatico al grande capo Yasser Arafat. Non è alto negli indici di popolarità, non è carismatico, non decide i destini della guerra e della pace, però è diventato la chiave di volta di ogni minimo avanzamento sulla strada del benessere per la sua gente. A metà dicembre si è presentato a Roma, alla Conferenza dei paesi donatori presieduta dal nostro ministro degli Esteri Franco Frattini, per presentare il bilancio 2004 dell'Anp, stimato in un miliardo e 700 milioni di dollari, di cui 650 per spese correnti, 278 per infrastrutture pubbliche, 164 per assistenza umanitaria e sociale, 39 per le riforme. Aveva chiesto un miliardo e 200 milioni di aiuti, per sostenere lo sforzo, gliene daranno 650. E gli hanno fatto capire tutti che, dopo le provate ruberie del passato, stavolta il denaro arriva grazie alla sua credibilità, non saranno più tollerate distrazioni di fondi affinché nessuno possa dire, in futuro, al contribuente europeo, che i suoi soldi finiscono ai terroristi kamikaze.

Spiega un ministro plenipotenziario della Farnesina presente ai colloqui: "Il pilastro su cui si regge la nostra iniziativa è la presenza di Fayyad e del suo staff. C'è poi un altro pilastro rappresentato dai meccanismi di controllo previsti da Banca mondiale e Unione europea, più rigorosi che in passato". In pratica i fondi finiranno esclusivamente al ministero delle Finanze e saranno versati su un conto della Banca centrale palestinese a firma congiunta. Non potranno muoversi se non dopo l'ok di donatori e loro referenti, andranno a finanziare progetti concordati e saranno bloccati qualora non si verificasse un soddisfacente stato d'avanzamento dei lavori previsti. È esplicitamente menzionata nell'accordo anche la possibilità di effettuare ispezioni senza preavviso.

Pare tramontata l'epoca delle elargizioni generose, incondizionate e incontrollate. E questo anche in virtù di un mutato credo politico che guarda più al denaro che all'ideologia. La convinzione è che il buon andamento dell'economia favorisce la pace assai più delle dichiarazioni di principio. In questo quadro, l'anno appena cominciato dovrebbe vedere la nascita del 'piano Marshall' per il Medio Oriente, lanciato da Silvio Berlusconi e al quale stanno lavorando i tecnici dei ministeri dell'economia dei Paesi del G8: cinque miliardi di dollari in cinque anni la cifra tonda, stabilita per approssimazione, da impiegare nella zona più calda del Pianeta per disinnescare tensioni e conflitti.

Se i soldi possono molto, non vanno sperperati. Soprattutto non possono servire per finanziare il terrorismo. Si può accettare, come ammettono gli stessi uomini del comitato dei donatori, una percentuale fisiologica di ammanchi. Ma nel passato quella quota è stata largamente superata, dando origine agli scandali. La Commissione europea si è detta contraria all'istituzione di una commissione d'inchiesta per capire dove sono finiti effettivamente i suoi 1.500 milioni di euro versati dal 1995 al 2002. Anche perché circola una teoria secondo la quale la distrazione di fondi ha semmai riguardato i dollari provenienti dagli altri Paesi arabi, avendo Bruxelles stabilito una gabbia di verifiche a prova di malfattori. Quanto ferrea fosse però quella gabbia, nessuno è in grado di stabilirlo. Il Fondo monetario internazionale, nella sua ultima relazione sui bilanci dell'Anp, nel felicitarsi per i progressi sulla strada della trasparenza, ha segnalato un buco di 900 milioni di dollari finiti su conti segreti, forse in Svizzera.

La comunità internazionale ha sinora travasato nelle casse dell'Anp 4 miliardi e mezzo di dollari. I Paesi arabi, nel dettaglio, contribuiscono con 45 milioni di dollari di aiuti al mese, l'Unione europea 10 milioni di euro sempre al mese, cioè circa il 10 per cento del bilancio complessivo. Il fabbisogno, per il solo pagamento dei salari, secondo le stime dichiarate, è di 60 milioni di dollari. In realtà, documenti sequestrati dall'intelligence israeliana durante le incursioni nei Territori, proverebbero che solo 40,5 milioni vengono spesi in stipendi. E grazie a un'operazione vantaggiosa sul cambio (dai dollari ricevuti agli schekel versati ai lavoratori) si risparmierebbero altri 7,2 milioni di dollari. C'è infine da considerare che il 2 per cento della paga viene versato dai militanti direttamente nelle casse di Fatah, l'organizzazione politica di Yasser Arafat. In totale sarebbero dunque circa 28 milioni di dollari al mese quelli che è stato possibile accantonare in questi anni di amministrazione creativa. Di più: molti uomini di Fatah, dei combattenti Tanzim e delle stesse Brigate al Aqsa sarebbero iscritti, senza averne diritto, negli elenchi della pubblica amministrazione, in modo da ricevere un salario per svolgere il loro ruolo di attivisti e, in qualche caso, di terroristi. I dipendenti reali sarebbero 118 mila e quelli dichiarati 130 mila. Negli archivi del Mossad sono finiti documenti, con in calce la firma di Arafat, che attestano cospicui versamenti a personaggi più o meno coinvolti in attentati contro Israele tra cui Marwan Zallum, Fuad Shubaki, Zadki Zeu, Nasser Awis e, soprattutto Marwan Barghouti, leader della seconda Intifada, ora in carcere accusato di 29 omicidi, ma assai popolare nei Territori e considerato un possibile successore dell'anziano Rais.

Che Arafat sapesse è scontato. Nella sua triplice veste di presidente dell'Anp, dell'Olp e di Fatah, era lui ad aver creato un sistema che alimentava la corruzione ad ogni livello. Era lui a tenere la cassa e a decidere, dunque, chi beneficiare. Fino all'arrivo di Salam Fayyad: la sua banale decisione di far pagare gli stipendi in banca, dietro presentazione di una carta d'identità è sembrata simile a una rivoluzione copernicana. Sbaglierebbe, tuttavia, chi pensasse a un arricchimento personale per una vita di sfarzi. Arafat vive confinato alla Muqata e i suoi bisogni sono ridotti al minimo. Il denaro lo ha usato semmai per perpetuare il proprio potere attraverso un'infinita serie di clientele che ha favorito soprattutto la sua corte. Si sa che la moglie, Suha, e la figlia Zahwa, continuano a vivere nella lussuosa suite di un albergo a Parigi, con un appannaggio mensile di 100 mila dollari. Ed è stata la stessa suocera del Rais, Raimonda Tawil, affermata giornalista, a denunciare lo scandalo dell'ex ministro delle Finanze Mohammed Zuhdi Nashahibi, che aveva alloggiato la famiglia in un cinque stelle di Gaza in attesa che fosse ultimata la sua residenza ad Amman. Altri alti dignitari del regime si sarebbero fatti la villa con i fondi Ue destinati all'edilizia popolare, mentre sarebbero spariti anche centinaia di milioni originariamente destinati agli ospedali.

Se le critiche, fino a poco tempo fa, arrivavano solo dall'esterno, ora il malumore serpeggia anche tra gli stessi palestinesi. Alcuni parlamentari del Blocco Democratico hanno chiesto di aprire un'inchiesta su ingenti somme di denaro che sarebbero finite in conti esteri. Il loro portavoce, Hassan Khraisheh, sostiene che l'uomo d'affari Muhammad Rashid, discusso ex consigliere finanziario di Arafat, noto anche come Khaled Salam, ora riparato al Cairo dopo un furibondo litigio col presidente, avrebbe depositato non meno di 200 milioni di dollari su un conto bancario segreto. Un rapporto del Fondo monetario internazionale fa sempre risalire a Rashid e Arafat un conto privato della banca Leumi, nel centro di Tel Aviv, dove finirebbero le imposte petrolifere pagate, attraverso Israele, dai consumatori palestinesi. Altri milioni di dollari, frutto dei profitti di lucrosi monopoli come quelli su cemento e benzina, sarebbero finiti in attività extra-bilancio. Anche se ha rotto con Arafat, Rashid non tradisce. Interrogato si è chiuso nel mutismo, facendo notare solo che sarebbe da sciocchi nascondere denaro illegittimamente accantonato in una banca israeliana. Parte dei soldi di quel conto sarebbero finiti su un altro conto della Lombard Odier Bank, in Svizzera, chiuso però nel 2001.

Dagli accordi di Oslo in poi, cioè da quando un'asserita e poi tradita buona volontà di arrivare alla pace, ha fatto allargare i cordoni della borsa di Paesi ricchi e istituzioni internazionali, Yasser Arafat avrebbe accumulato (non per sé, ma per la causa, come abbiamo visto) una cifra superiore al miliardo di dollari secondo quanto asseriscono fonti qualificate statunitensi vicine all'amministrazione Bush. Anche la furibonda battaglia scatenata con l'ex ministro dell'Interno Mohammed Dahlan sul controllo delle forze di sicurezza avrebbe avuto, come sottofondo, non solo questioni di carattere militare, ma anche interessi legati al relativo budget. Basti pensare che, per la sola sicurezza personale, il Rais spende circa 20 milioni di dollari al mese. L'Occidente ha cominciato a protestare, vuole vederci chiaro, soprattutto per il futuro. Non altrettanto hanno sinora fatto i munifici Paesi arabi che tanta parte hanno avuto nell'accumulo di una fortuna per pochi tanto più scandalosa se si considera il livello di vita della popolazione. Arabia Saudita e Siria, soprattutto, continuano a versare il loro contributo. Non è un mistero che anche Saddam Hussein pagasse, quando lo poteva, le famiglie dei kamikaze, mentre sono state trovate prove, sempre secondo l'intelligence israeliana, di un corposo contributo una tantum (50 milioni di dollari) durante la prima Guerra del Golfo perché Arafat sostenesse il dittatore di Baghdad.

È proprio in questo quadro che arriva Salam Fayyad. Chiede credito. Gli è stato concesso. Per lui sarà forse più facile diventare popolare all'estero che in patria. Non è mai senza ostacoli la strada dei moralizzatori.
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