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La Stampa Rassegna Stampa
07.01.2004 Prima contro il Ku Klux Klan
Oggi contro il terrorismo palestinese. Una vita coerente

Testata: La Stampa
Data: 07 gennaio 2004
Pagina: 11
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Mississippi Burning: Vi racconto la vera storia»
Riportiamo l'intervista di Fiamma Nirenstein a Marwin Kessler. Non premettiamo nulla tanto il racconto è appassionante. Da leggere d'un fiato.
Settantasette anni fa, i nostri padri portarono su questo Continente una nuova Nazione, concepita nella libertà e dedicata all’idea che tutti gli uomini sono creati eguali. Ora siamo impegnati in una grande guerra, che ci dirà se un nuovo stato concepito in questo modo, possa durare». Eretto su tutta l’imponente persona, Marwin Kessler recita il discorso di Gettysburg di Abramo Lincoln nell’aria fredda: «Vede? Lo so a memoria, come volle mio padre. Qui è la mia vita, Mississippi Burning e tutto il resto». Lo è anche la sua casa di oggi, l’insediamento di Shilo, affondato nelle rocce del cuore della Samaria, fra Ofra e Beit El, nella zona madre degli insediamenti della West Bank? Non c’è capitato per un bizzarro destino? «Che domande» dice minacciando una tempesta con gli occhi blu sotto la foresta delle sopracciglia candide «Faccio solo quello è giusto e quello che voglio: così mi ha insegnato mio padre».
Mississippi Burning e Shilo: bene, per quanto complicato il nesso possa essere è quello di Marwin, ovvero, nel film Rupert Anderson, ovvero l’attore Gene Hackman. In una parola: l’avvocato dei diritti civili che nel film insieme a Alan Ward, ovvero Willem Dafoe, un ufficiale dell’Fbi, a rischio della vita scoprì gli assassini di un attivista nero, un prete e un avvocato ebreo dei diritti civili, che scardinò il Ku Klux Klan e le sue diramazioni nei poteri locali, che aprì finalmente la porta all’effettivo suffragio universale nel Sud, è oggi un settler di Shilo, immigrato nel 1987. Ha ottanta vigorosi anni: appena lo incontri capisci perchè Alan Parker, il regista, scelse Gene Hackman. La faccia ironica e dura, lo sguardo diritto e carico di sfida, la risata frequente, la positura fisica da cow boy sono le stesse.
La sua vita di coltivatore diretto con la pistola alla cintura su una cresta sassosa della Samaria, è trascorsa nell’anonimato finchè nel giugno del 2002 sua nipote Ghila, una bellissima ragazza di diciannove anni, si è trovata alla fermata dell’autobus a Gerusalemme quando un terrorista suicida si è fatto saltare, assassinandola con tanti altri. Marwin (Moshe da quando è in Israele) e sua moglie Mildred-Malcha trascorsero quattro ore all’obitorio di Abuk Abir finchè non l’ebbero riconosciuta. «Anche lei era come me, amava aiutare e far giustizia, ma questo non l’ha salvata dall’odio. Odio inconsulto e criminale: come quello dei razzisti del Mississippi. Localizzato dalla tragedia, Marwin non si è lasciato acchiappare facilmente dai giornalisti. Finché siamo saliti sul suo picco («imprendibile») e ci ha mostrato una schiera nera del «pino eldarica» cresciuto dalle sue mani(«se si taglia, è l’unico che rinasce») non si è concesso. Poi, è andato ai fatti: «Il film non è preciso».
Come andò dunque la storia di Mississippi Burning? Torniamo con lui alla mattina del giugno 1964 quando l’avvocato newyorkese sbarca a Philadelphia, Mississippi. «Mi chiese di andare la mia Associazione di avvocati per i diritti civili, dato che già a New York e in altri stati difendevo ogni sorta di poveracci che subivano abusi. La strada che mi ci ha condotto comincia nell’infanzia, quando un ebreo americano era una creatura diversa, discriminata. Era legale nel ’48 chiedere di che religione sei o che fa tuo padre; un ragazzo ebreo poteva giusto lavare i pavimenti a Boroughpark; per vendere i bottoni e le bandierine di una squadra di football cristiana dissi che mi chiamavo Kelly e che ero irlandese; quanti lavori mi sono stati rifiutati perchè ebreo... I negri (sì, e non mi guardi così, io li chiamo come li chiamavo, "nigger", per me non c’è niente di offensivo, anzi, io sono un ebreo, "a jew", com’ero, e mi piace moltissimo) erano discriminati ancora più di noi, il Ku Klux Klan odiava loro come noi: e io sono un americano fiero della sua costituzione e di essere ebreo, tutti eguali di fronte alla legge. Prego, parliamo di diritti civili, non diritti umani, la legge fa fede, non la vaga tenerezza delle anime belle. La legge. Noi ebrei fummo lo scudo dei diritti dei negri, i nostri attivisti erano al loro servizio. La mia associazione (di sinistra, certo) si occupava in particolare degli stati del Sud: il voto era universale, ma bisognava iscriversi alle liste dei votanti. Un medico negro ci provò, gli impiegati bianchi incaricati di prendere i nomi quando lui disse "sono venuto a iscrivermi" chiesero "Cosa?", lo presero per il collo, lo sbatterono contro il muro, poi lo cazzottarono fino a rotolarlo lungo tutta la dignitosa, altissima scalinata del comune. I nostri attivisti erano giusto in Mississippi per cercare di convincere a compiere un’azione di iscrizione di massa, e il risultato fu appunto il triplice assassinio. Un avvocato ebreo amico mio, un prete e un ragazzo nero, furono fermati alla polizia con qualche scusa e portati in galera, furono picchiati, al nero fu tagliato un orecchio; la polizia disse che li aveva rilasciati nottetempo e che non se n’era saputo più niente. Intanto in quel periodo cominciarono una serie di incursioni intimidatorie notturne del Klan nelle case, nelle fattorie, nei luoghi di riunione della comunità negra. Veri pogrom. Una chiesa che serviva per le assemblee fu data alla fiamme, venti persone furono picchiate selvaggiamente dagli incappucciati, due bruciarono vive; un ragazzo parlò e indicò i responsabili. Non aveva paura: aveva visto sua madre violentata dal KKK e la sua casa data alle fiamme. Al processo, il giudice condannò i colpevoli a tre anni; ma aggiunse che la comunità nera con il suo comportamento sovversivo si era tirata addosso la disgrazia. Le pene erano sospese. Il ragazzo fu rapito, torturato, gli tagliarono con una lametta i testicoli, morì dissanguato».
Marwin non ha dimenticato un colloquio, non una faccia: «Ero stupefatto: come poteva odiare così quella gente che portava i suoi bei bambini a pesca, che insegnava a dare un bacio alla sorellina? Io penso che era radicato nell’educazione: gli spiegavano che il Vangelo dice che i bianchi cristiani custodiscono un bene superiore, che i negri e gli ebrei corrompono il disegno divino.. Del resto come hanno potuto uccidere Ghila così, alla fermata dell’autobus, vicino a un bambino di undici anni? Come possono ogni venerdì mattina urlare dalla moschea kill the jews, uccidete gli ebrei... No, non esagero affatto, al contrario: è vero che non ci hanno ucciso tutti, ma non perchè non vogliono, è solo che non possono».
Marwin per prima cosa,insieme a due compagni, uno scrittore bianco e un vice sceriffo che viaggiava sul fondo della macchina perchè non sparassero all’auto, viistò il giudice della contea di Meridian che li consigliò di evitare di suicidarsi in un’operazione impossibile: «La gente non parlerà mai. Vi possono ammazzare». Cominciai a vivere fra le gente giorno dopo giorno, a respirare la loro aria, a capire i punti deboli, a parlare con tutti: fino dalla prima visita capii che il vicesceriffo Cecil Price era uno della banda, tutto carino con la sua cravattina. Il quadro generale lo confermò. Gli incendi, le botte, anche gli assassini si moltiplicavano L’Fbi mandò rinforzi via via che le cose si facevano più calde. Io riuscii a ritrovare l’auto su cui i tre ragazzi erano stati assassinati; riuscii a far capire a qualcuno che se non mi dava informazioni, avrei rivelato il suo traffico di whisky. Riuscii a costruire il quadro sociale per cui il notabiliato di Philadelphia si rivelava come uno schifoso nido di KKK, e soprattutto la polizia. Ma nel film sembra che sia io ad aver scoperto tutto, invece i tre corpi infilati dietro una fonte in un terrapieno li comprò l’Fbi per 30 mila dollari e un’operazione di plastica facciale per la spia». Nel dicembre del ‘67 per la prima volta un grande processo condannò nove complici con lunghe pene, e da qui la battaglia per l’eguaglianza dei neri ebbe grande risonanza, e vinse.
Marwin venne in Israele per convinzione morale, con la piccola graziosa moglie innamorata e i loro sette figli. «Volevo terra da lavorare con le mie mani, volevo piantare alberi» spiega mostrando le mani callose come fosse la cosa più naturale del mondo per un avvocato dei diritti civili di New York scegliere un insediamento: «Non mi faceva nessuna differenza la cosiddetta Linea Verde: ci hanno attaccato, abbiamo vinto, non vedo perchè in cambio di odio dovremmo abbandonare la terra conquistata con tanto sangue. Loro continuano a predicare un odio razzista, legga i loro testi. Devo dare la terra su cui c’è tanto sudore e sangue a chi attacca i bambini sugli autobus? A chi vive in una società priva del concetto di diritti civili, nel cui stato si daranno appuntamento tutti i terroristi del mondo per farmi fuori? No, troppo pericoloso. E poi le voglio dire: non è giusto!» Le sopracciglia di Marwin sono una foresta di determinazione percorsa da un vento d’ira: eppure i check point, le eliminazioni mirate, la barriera che tutto il mondo chiama muro... C’è chi dice la parola, apartheid. Che facciamo con i diritti civili, avvocato Mississippi Burning? Lui lo sa che cosa fare: «Allora: tutti gli assassini che hanno ucciso ebrei con atti terroristici, tutti quelli che hanno fomentato il terrore dalle scuole e dalle moschee, tutti quelli che lo hanno organizzato, siano processati secondo la legge. Poi, una volta in galera i colpevoli, allora comincerò a chiedermi se i miei alberi sono nel posto giusto, Per ora lo sono, altrochè».
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