Il Likud e il suo congresso ecco come scriverne con occhio attento e distaccato
Testata: Il Foglio Data: 07 gennaio 2004 Pagina: 2 Autore: Maria Giovanna Maglie Titolo: «Il nuovo Sharon»
Al contrario del collega Ferrari del Corriere della Sera (vedasi la nostra critica di oggi, 7 gennaio '04), Maria Giovanna Maglie è molto informata sulle vicende interne del Likud. Ci spiega infatti, con estrema obiettività, come Sharon sia riuscito ad ottenere il consenso all'interno del suo partito. Una lezione di giornalismo per il Ferrari arafat-nostalgico. Pubblichiamo il pezzo apparso sul Foglio di oggi. Il quotidiano liberal Haaretz glielo ripete anche oggi, se vuole essere credibile nella sua nuova pelle, non più guerriero ma politico rivoluzionario, allora Ariel Sharon deve rifondare il suo partito, il Likud, e ridmensionarne, almeno, il nazionalismo, il sogno del grande Israele. Ma non è forse questo che il primo ministro va facendo già da tempo, dall’accettazione della road map, dal vertice di Aqaba, che continua a fare ora, che la road map e il vertice di Aqaba sono già lontani, sfidando per la seconda volta i quadri del Likud, riuniti nel Comitato centrale? Lo fa, ribadisce che è favorevole a una soluzione negoziale del conflitto con i palestinesi, la road map, ma che se questa non sarà possibile sceglierà passi unilaterali che prevedono un ritiro graduale, la rinuncia a settlement e outpost, insediamenti più o meno giovani, più o meno popolati, perché al primo posto c’è la sicurezza. Lo fa e si prende fischi, interruzioni del discorso, striscioni che lo accusano di premiare il terrorismo, probabilmente perché stretto dalla necessità, Israele di una qualche pace ha bisogno estremo, e anche perché convinto che l’estremismo e l’intransigenza dimorino più tra i dirigenti che tra gli elettori del Likud. La base elettorale del premier è infatti più ampia, e più moderata, è pronta a rinunce, si fida di lui, che è stato l’uomo degli insediamenti, ma anche l’unico a ritirarsene. Lo fa riaffermando l’apprezzamento per i coraggiosi sionisti che stanno in trincea, ma spiegando che dovranno rispettare le decisioni dei dirigenti eletti, la legge israeliana e le forze di sicurezza. Lo scontro nel Comitato centrale è appena aperto, si vota fra un mese sulle numerose mozioni, una delle quali propone che Ariel Sharon divida le responsabilità di governo con Benjamin Netanyahu, ministro delle Finanze, ma anche capo della fazione dei duri nazionalisti.
Tommy Lapid invita a ripensare il muro Nel gabinetto di governo, come nella base del partito, il primo ministro è però tranquillo, sostenuto dai laici dello Shinui, che condividono la linea di riconoscimento dei due Stati, a terrorismo finito, e la collaborazione diplomatica stretta con gli Stati Uniti. Di più dal ministro della Giustizia e vicepremier, Tommy Lapid, arrivano inviti a riconsiderare il tracciato della barriera di protezione, a ritirarsi da tratti di territorio palestinese per evitare il rischio di sanzioni internazionali contro Israele. Quella che al solito latita è piuttosto la controparte. Da settimane si aspetta che venga fissata la data di un incontro fra Sharon e il premier palestinese Abu Ala, ma questi non ha nessuna intenzione, o possibilità, di farlo. Di Abu Ala si è detto in questi pochi mesi che è uomo più esperto e navigato di Abu Mazen, che non si sarebbe lasciato intrappolare da israeliani e americani in una opposizione a Yasser Arafat destinata al fallimento; ma Abu Ala intende la scaltrezza come immobilità, e niente sta facendo vuoi per proseguire il negoziato vuoi per disarmare i terroristi. Così domina l’immarcescibile presidente Arafat, che si fa fotografare e riprendere mentre pianta un albero d’ulivo alla Mukata, il suo quartiere generale che di capi terroristi è rifugio sicuro. Dice Arafat che i discorsi di Sharon dimostrano che non è persona credibile, che tutte le sue iniziative sono volte a negare e impedire la realizzazione della road map. La tattica del rais è semplice e già collaudata: far decantare anche quest’ultimo governo palestinese fantoccio, bollire definitivamente la road map, che prevede negoziati continui fra le parti, e piccoli passi progressivi verso l’accordo finale, condizione di base lo smantellamento delle organizzazioni terroristiche e la riforma della polizia palestinese; aspettare le decisioni unilaterali già annunciate da Ariel Sharon per denunciarle nelle sedi internazionali; nel frattempo agitare le stesse sedi internazionali, che gli restano amiche, le Nazioni Unite e l’Unione Europea, contro la costruzione del "muro infame". Sulla strada di Arafat non si mettono solo le scelte coraggiose del governo israeliano; c’è anche il fastidio e il distacco crescente del presidente egiziano Hosni Mubarak e del re Abdullah di Giordania, i quali vogliono stare dentro al processo diplomatico nuovo del dopo Saddam; e c’è l’arrivo di un nuovo uomo americano, James Baker III. Durante le vacanze di fine anno il presidente americano George W. Bush ha esteso al Medio Oriente il suo incarico di soluzione del debito iracheno. Non solo debito, comincia dalla Siria. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.