L'anno che verrà Speranze e prospettive per il Medio Oriente
Testata: Il Foglio Data: 29 dicembre 2003 Pagina: 0 Autore: Emanuele Ottolenghi Titolo: «2004, Odissea nello spazio di crisi»
Riportiamo il servizio di Emanuele Ottolenghi pubblicato sul Foglio di sabato 27 dicembre '03. Dieci anni orsono, la firma degli accordi di Oslo tra Israele e l’Olp fu celebrata come l’alba di un "nuovo Medio Oriente" integrato economicamente e politicamente, caratterizzato da cooperazione e confini aperti. Dieci anni dopo, a pace fallita, l’anno che si sta per concludere ha visto una nuova ambizione di portare il Medio Oriente a voltare pagina. Un tempo sinonimo di conflitto araboisraeliano, il Medio Oriente appare oggi molto più complesso della semplice contrapposizione tra Stato ebraico e mondo arabo, intesa come scontro tra nazionalismi. Negli ultimi tre anni il mondo occidentale si è accorto di come oltre a Israele e palestinesi, esista in quella regione un mondo impervio e imperscrutabile ai più, che mal si presta a essere compreso – ancor meno addomesticato – dalle categorie normative occidentali. Nonostante il comprensibile ottimismo causato dalla caduta del regime di Saddam Hussein e dalle opportunità che la sua deposizione crea, nel 2004 toccherà avere l’umiltà di accettare che la regione non solo non cambierà con la rapidità auspicata ottimisticamente da alcuni, ma che senza quel cambiamento la regione diventerebbe una minaccia ancora più grande di quanto non lo sia già. Ecco l’impossibile rompicapo per il 2004 sul quale lo storico Fouad Ajami ha messo in guardia l’Occidente: la tragica alternativa offerta dall’ordine politico arabo è prigione o anarchia. La sfida americana dopo l’11 settembre è di creare una terza via tra camere di tortura, prigioni, fosse comuni e polizia segreta dei regimi repressivi, e caos anarchico della guerra civile libanese, dello smembramento dell’Iraq, dei focolai di rivolta delle minoranze etniche attraverso tutta l’area e della lotta fratricida in Sudan e Algeria. Dopo il crollo delle monarchie costituzionali negli anni 50, nessuno è più riuscito a uscire da questo dilemma. Gli americani potranno riuscirci se lo vorranno prima di tutto gli arabi stessi. Fino all’11 settembre si è creduto che il centralismo autoritario di varia natura e forma presente in tutta l’area fosse la risposta al rischio di degenerazione anarchica o peggio fondamentalista. Ajami invece da sempre invoca l’avvento di un nuovo modello che permetta ai popoli mediorientali di affrancarsi sia dalla prigione sia dall’anarchia. Ma la tentazione di ricadere sul modello autoritario come alternativa al caos rimane forte. Né va sottovalutato il dato che questa preferenza sottende: la limitazione delle opportunità di scelta a due ugualmente tragiche alternative è il prodotto di una traiettoria storica e culturale del mondo arabo, le cui cause sono soprattutto endogene e le cui radici sono antiche. Le colpe del colonialismo potevano essere evocate nel 1948, quando il sistema regionale era fragile e privo di legittimità popolare. Ma alle soglie del 2004 nessuno può più seriamente sostenere che le trame coloniali del lontano 1916, quando inglesi e francesi si spartirono segretamente la regione, siano responsabili di quasi 90 anni di errori e tragedie. Saddam Hussein è un prodotto genuino e autentico di quel mondo, come lo sono gli ayatollah iraniani, il fondamentalismo di bin Laden e la corrotta e disfunzionale monarchia saudita. Nel mondo arabo pullulano teorie del complotto che attribuiscono la responsabilità dei fallimenti locali a oscure forze nemiche che tramano nell’ombra. L’ossessione per il complotto riflette l’incapacità di una cultura di eludere il senso opprimente e totalizzante di vittimismo che la caratterizza ed esprime il senso di passività e impotenza di tre generazioni di arabi cresciuti nell’oppressione politica che impedisce loro – così come impedisce ai loro leader – di assumersi la responsabilità della storia e dei propri errori. Gli ultimi tre anni non sono eccezione: persino la cattura di Saddam Hussein ha scatenato nuove dietrologie.
Prima di tutto, prudenza Uno sguardo al 2004 richiede prima di tutto prudenza: non basta la caduta di una statua o la cattura di un tiranno a distruggere quanto da decenni ormai è diventato centrale alla cultura politica e alla memoria storica della regione, ovvero la politica della recriminazione. Due immagini che offrono comunque qualche speranza di rinnovamento dominano quest’anno: la caduta della statua del tiranno a Baghdad, il 9 aprile, e la cattura del tiranno, il 13 dicembre. Ma i leader regionali sono gli stessi di sempre – Yasser Arafat governa l’Olp dal 1968, Muammar al Gheddafi guida la Libia dal 1969, Hosni Mubarak l’Egitto dal 1981 – né le eccezioni offrono grandi speranze, visto che i giovani leader del Medio Oriente non sono altro che eredi, figli di despoti e regnanti, il cui istinto di sopravvivenza è più forte della volontà di cambiare. A costoro fanno contorno gli agitatori professionali della pace, guidati oggi più che mai dal curioso sincretismo di terzomondismo antiamericano, antisemiti-smo di sinistra, fondamentalismo islamico, anarco-marxismo antioccidentale, e ambientalismo antimoderno. Questo composito esercito di agitatori rappresenta la cartina di tornasole dei legami sovversivi che attraversano Oriente e Occidente e si saldano, nella lotta contro l’America, Israele e l’Occidente, in un annullamento delle differenze ideologiche proprio sul teatro mediorientale dove il nemico del loro nemico diventa, Osama bin Laden o Saddam che sia, il loro proverbiale amico ed eroe. Nel frattempo aleggia nella regione la soffocante influenza di bin Laden, un fantasma scomodo la cui esistenza ormai non conta più, perché la scintilla sprigionata dalle sue parole e azioni ha prodotto un fuoco vasto che divora la regione. Parte del futuro della sua eredità politica e spirituale dipende dalle sorti dell’Iran, un regime traballante che esporta terrorismo e offre santuario ad al Qaida, del Pakistan, un regime che combatte il terrorismo e il fondamentalismo solo da poco, un po’ per forza e un po’ per convenienza, e dell’Arabia Saudita, un regime traballante che finanzia il terrorismo per non avercelo in casa. Prudenza dunque nei giudizi e nelle previsioni, e pazienza nelle attese. Specie se vi si aggiungono le tragiche scene cui il Medio Oriente ci ha abituato di carneficina del terrorismo suicida e di naufraghi disperati sulle barche che li portano in Europa. Il Medio Oriente sta infatti diventando un problema di politica interna europea, non solo più di politica estera, e il futuro prossimo offre più ragioni di preoccupazione che di speranza. Il Medio Oriente è una sfida generazionale, e non c’è nessuna garanzia che i tentativi di forzare il cambiamento possano riuscire, anche se esiste un obbligo a provarci, visti i minacciosi contorni dell’alternativa.
Cause immediate, cause antiche Gli americani non sono i primi a conquistare le terre dell’Islam, né, forse, saranno gli ultimi. Ma la regione non offre simpatia al conquistatore, solo adulazione. I vincitori finiscono sempre con l’andarsene, lasciandosi alle spalle solo rovine di architettura aliena al paesaggio e cimiteri, dove riposano i resti dei loro soldati morti nel futile tentativo di domare la cultura locale. Dai castelli crociati in Israele, Siria, Libano e Giordania, ai cimiteri inglesi della Grande Guerra e del Mandato Britannico, gli imperi e i conquistatori si sono succeduti con diversa misura di successo, ma tutti, prima o poi, se ne sono andati con le pive nel sacco. Il Medio Oriente pullula di gente desiderosa di vedere gli americani fare la stessa fine: dall’Iran alla Siria tutti temono il portento militare americano, ma molti credono di individuarne, dietro ai sortilegi tecnologici che danno agli americani le loro facili vittorie militari, anche la debolezza politica e culturale di un impero destinato a un inesorabile declino. E l’odio per l’America spinge la regione a forgiare nuove alleanze: i jihadisti sunniti combattono accanto ai mullah sciiti, Hezbollah si allea con Hamas, i resti del partito Baath "laico e socialista" combattono fianco a fianco con i fondamentalisti islamici, legati più dall’odio comune per quel che si vuol distruggere che dalla condivisa passione per ciò che si vuole costruire. E le loro gesta ispirano i rivoluzionari occidentali del ventunesimo secolo. Aspettiamoci sorprese da questa prossimità nell’anno che verrà. Inutile illudersi troppo: perché il sogno di un Iraq federalista e democratico si avveri occorre prima di tutto che questo sogno lo abbraccino gli iracheni, poi che smettano di osteggiarlo gli arabi, infine che non lo boicottino i paesi occidentali per far dispetto all’America. E perché l’Iraq diventi il faro di progresso, moderazione e democrazia in Medio Oriente occorre che i popoli e i governanti della regione desiderino essere illuminati. Nulla di tutto questo è certo. Non in Iraq, dove le tentazioni separatiste non sono completamente sopite, e dove le interferenze esterne non spingono all’unità laica e democratica del paese. Non nel Medio Oriente arabo, fatta eccezione tra i pochi veri alleati degli Stati Uniti quali Qatar, Bahrein e Kuwait, che si sono schierati contro Saddam. In generale, quegli stessi governanti che avevano guardato altrove mentre Saddam riempiva le fosse di migliaia di corpi straziati, hanno viceversa cercato fino all’ultimo di riconciliarsi con il tiranno. A nessuno in Medio Oriente è venuto in mente di denunciare l’umiliazione subita dalle centinaia di migliaia di iracheni derubati di affetti, averi, vita e dignità da quel crudele regime. Questo è un sintomo degli ostacoli che si pareranno sul corso democratico che l’America spera di imporre alla regione nel 2004. Forse i regimi prenderanno le distanze, forse i regimi cominceranno a meditare che la fine di Saddam potrebbe toccare prima o poi anche a loro. Forse la regione ha sottovalutato la rabbia degli americani, credendo che di fronte alle bare dei suoi marines, l’America avrebbe fatto dietro front come a Beirut e Mogadiscio. Ma occorrerà più che la determinazione dell’America e la caduta di un tiranno a cambiar musica. Saddam differiva dagli altri regimi solo per eccesso di brutalità, corruzione, inefficienza, arbitrarietà e oppressione. Era figlio di una cultura politica, il suo prodotto e non un’aliena imposizione dall’esterno. La sfida americana oggi non è di catturare gli ultimi gerarchi fuggiaschi e i loro combattenti, ma di convincere gli iracheni – e la regione – a voltar pagina. Ancora nel marzo 2002 i governanti mediorientali accorsero a Beirut per riaffermare l’unità araba di fronte all’odiato nemico sionista e alle minacce americane ai fratelli iracheni (il vicepresidente iracheno Izzat Ibrahim al-Douri, noto psicopatico ora sospettato di tessere le fila delle forze antiamericane in Iraq, fu da tutti accolto e abbracciato); dopo la guerra essi non si sono affrettati a riunirsi a cantare il coro dell’unità. "Ognun per sé e Dio per tutti", sembra ora essere il motto di una regione che è ormai unita solo da una lingua e un patrimonio storico non tanto recente, ma dove i 22 Stati della Lega araba non son disposti a sacrificare gli interessi nazionali in nome dell’unità di un popolo che non c’è. I paesi arabi hanno fatto ben poco, oltre la retorica, la reimposizione del boicottaggio economico e qualche misero aiuto monetario, per sostenere i palestinesi nella loro suicida lotta contro Israele e il compromesso a loro offerto tre anni orsono. Meno ancora faranno in futuro che non sia fatto in nome dell’interesse nazionale. Questa tendenza esiste già da tempo nel mondo arabo, e spiega le divergenti politiche che emergono tra paesi arabi spesso in competizione tra loro. Ma non garantisce né l’avvento della democrazia né la fine di terrorismo e oppressione politica. L’incontrollabile crescita demografica è forse meno irrefrenabile di un tempo, almeno in Egitto, dove il tasso di crescita annuale si è ridotto a "solo" 1,3 per cento annuo, pari a più di un milione di nuove bocche da sfamare l’anno, ma continua a contribuire all’espansione geometrica della forza lavoro senza essere accompagnata da un’equivalente espansione delle economie nazionali. Malthus, in Medio Oriente, funziona. Ai giovani senza lavoro, senza futuro, e senza dignità del Medio Oriente di oggi non offre nessuna consolazione la speranza che gli americani riescano a tradurre la loro vittoria militare in Iraq in successo politico. Il cambiamento regionale, se avvenisse, comincerebbe a produrre effetti socioeconomici tra vent’anni. Questi potrebbero avere un impatto socio-demografico in altrettanto tempo. Troppo lunga come attesa, e la rabbia non ha pazienza. I parametri del circolo vizioso tra demografia, economia e instabilità politica non cambieranno solo perché un tiranno è stato imprigionato. Né le cure garantiscono guarigione: per debellare la malattia a volte finisce coll’uccidere il paziente. L’introduzione di riforme economiche e politiche non porterebbe necessariamente al boom economico e allo sviluppo in senso democratico della società civile. Tutt’altro, riforme economiche e apertura politica potrebbero avere effetti deleteri in tutta la regione, aprendo la porta ai fondamentalisti religiosi, mettendo in pericolo ruoli egemonici di minoranze etniche il cui monopolio delle risorse non verrebbe abbandonato con leggerezza, e scatenando potenzialmente conflitti interni. Il cambiamento deve essere graduale, prudente, pilotato e impercettibile per non produrre reazioni di rigetto; d’altronde, lo stato cronico di crisi potrebbe richiedere proprio delle terapie d’urto. Ecco l’altro grave dilemma che invita alla prudenza e a non aspettarsi miracoli: occorre tempo, non c’è più tempo. Tre primi ministri Abu Mazen, chi era costui? Quanti si ricorderanno delle speranze su di lui riposte nella primavera del 2003, del suo promettente discorso al vertice di Aqaba, tanto pomposo quanto inutile visto il rapido fallimento della road map? La sua meteorica carriera da primo ministro si è conclusa dopo appena tre mesi, complice l’insufficiente sostegno concreto di Ariel Sharon, l’abbraccio un po’ mortale di americani e israeliani a parole, ma soprattutto la pallottola firmata Yasser Arafat che Abu Mazen non voleva beccarsi in testa. Il suo fallimento deriva non solo dalla sua personalità di grigio burocrate non uso ad atti di coraggio, ma dall’impossibilità di imporre una svolta a una società e una classe politica ormai votata al suicidio collettivo e al sacrificio delle speranze e degli obiettivi politici sull’altare della retorica rivoluzionaria. Abu Mazen avrebbe potuto portare i palestinesi alla svolta, avendo visto giusto prima degli altri che l’Intifada si era rivelata un madornale errore. La vita, come biasimarlo, gli è stata più cara. Tocca ora tradurre quella geniale constatazione in conseguenze operative al suo successore, Abu Ala, il quale però sarà molto più prudente. Alla vigilia di Natale 2003 Abu Ala continua a paventare un incontro con Sharon ma a rimandarlo per non far lo stesso errore di Abu Mazen, accolto amichevolmente a Gerusalemme e Washington e per questo stesso fatto bollato di tradimento dai suoi. Abu Ala e Abu Mazen: le due facce della stessa moneta, che non offre sconti per il 2004. La pace tra Israele e palestinesi continuerà a non farsi, fintantoché anche i militanti islamici non capiscono che l’Intifada è fallita, e fintantoché la distanza tra le due posizioni negoziali è così insanabile come lo è oggi. Abu Ala sa bene quanto sia difficile trovare un accordo e sa che non può imporre una resa agli islamici, solo una tregua. Israele ha capito i limiti del primo ministro palestinese dopo la breve e infruttuosa esperienza con Abu Mazen: non ripeterà lo stesso errore ma non avrà più la necessaria pazienza. Dai palestinesi ci si può dunque aspettare tutt’al più una tregua nel 2004. E dopo tre anni di guerra, sarebbe già molto. Che cosa ci si possa aspettare da Sharon invece rimane un mistero. Farà il ritiro? Il vecchio primo ministro sembra determinato, almeno se uno crede ai discorsi del suo vice Ehud Olmert, che oltre che sperare di divenire il successore di Sharon ha scoperto la colomba che è in lui. Di fronte alle prediche europee di interrompere la costruzione della barriera e di negoziare coi palestinesi sulla falsa riga dell’iniziativa di Ginevra, Sharon ribatte che Ginevra è un suicidio politico, che la barriera si continua a costruire e che se i palestinesi la vogliono fermare non hanno che da interrompere la violenza. Ma nessuno si illuda: non solo non ci sarà la pace, ma la barriera non sarà di sicuro completata entro fine anno. Anzi, più difficili saranno le implicazioni politiche del suo tracciato, più lenta ne sarà la costruzione. Paventando un ritiro unilaterale come già fece il suo predecessore Ehud Barak, Sharon ha gettato il sasso nello stagno paludoso della retorica regionale, ottenendo la stessa curiosa reazione ostile araba al ritiro israeliano dal Libano tre anni fa. Possibile che gli arabi si affannino così tanto quando gli israeliani finalmente dichiarano esplicitamente di volersene andare dalle terre che rivendicano? Non dovrebbe essere contraria la reazione? Sharon ha colpito nel segno, e poco importa se un piano ce l’ha o meno. La reazione araba di confusione di fronte alla "minaccia" di ritirarsi senza aspettare un accordo è già una vittoria, oltre che un’indicazione che le cose, anche a israeliani ritirati, non tenderanno necessariamente verso la pace tra i popoli. Ma il 2004 dovrebbe almeno offrire questa novità: basta inseguire l’impossibile sogno della pace perpetua, un cessate il fuoco e un ritiro sarebbe già molto per chi vive nel terrore degli attacchi terroristici palestinesi o nell’umiliazione dei posti di blocco israeliani.
Due presidenti Arafat intanto resiste, sempre più isolato. Chiuso nel bunker, è circondato da adulatori e assaggiatori, convinto com’è che Israele lo voglia avvelenare. Ma il delirio di questo fallimentare rivoluzionario pur nel ridicolo non lo rende meno pericoloso: Arafat continua a influenzare gli eventi e a condizionare le politiche dei paesi circostanti oltre che quelle della sua società. La misura del cambiamento che ci attende nel 2004 la si coglie guardando Arafat e rendendosi conto che solo la sua morte potrebbe smuovere qualcosa. Sulla biologia invece è meglio non contare contare in Egitto, dove il presidente in carica, Hosni Mubarak, anche se non propriamente un democratico, e anche se non propriamente schierato con gli americani, e anche se non propriamente contento di vedere un Iraq risorto economicamente e politicamente a competere con l’Egitto per l’egemonia nel mondo arabo, è stato comunque per due decadi la garanzia più solida di stabilità nella regione. Non più giovane e non propriamente sano, Mubarak è lo specchio dello status quo politico che gli occidentali hanno sostenuto per quasi mezzo secolo e che gli americani ora si sono decisi a defenestrare. Sta a Mubarak decidere se adattarsi e cambiare o trincerarsi a difesa del vecchio e bancarottiero ordine politico: la sua scelta del figlio Gamal come successore alla presidenza, alla barba dei principi repubblicani su cui si fonderebbe lo Stato egiziano, non promette una discesa in campo in nome del cambiamento.
Un rivoluzionario Su Muammar al Gheddafi non si sa mai propriamente cosa dire, il personaggio ci ha abituati nel corso degli anni a talmente tanti colpi di scena e bizzarrie da rendere difficili le previsioni. Ma non stupisce più di tanto il fatto che, a pochi mesi dalla caduta di Saddam e a pochi giorni dalla sua cattura, il dittatore libico abbia scoperto le sue carte e deciso di negoziare, come ha scritto William Safire sul New York Times, una "resa preventiva". Meglio rinunciare ai giocattoli di sterminio in cambio di un’onorevole e lucrativa prebenda di contratti, fine delle sanzioni e ritorno nel novero delle nazioni che trovarsi la sesta flotta di nuovo nel Golfo della Sirte, ma questa volta pronta a sbarcare. Gheddafi ha rivelato come fossero fondate le preoccupazioni israeliane, che inclusero la Libia tra i paesi con programmi di armi di distruzione di massa alcuni mesi orsono. Appare chiaro ora che la costernazione e l’incredulità con cui rispose la comunità internazionale riflettevano l’imbarazzo di chi sapeva e la stupidità di chi ignorava. Quel che Gheddafi riserva in futuro non lo si può sapere, lo diranno i fatti, non le dichiarazioni. Anche l’Iran invita le ispezioni, ma i mullah hanno qualcosa da nascondere. Ma se il passo intrapreso da Gheddafi fosse genuino e guidato dall’interesse di sopravvivere e dare al paese un futuro migliore, allora ben venga, anche se Gheddafi resta un dittatore e il suo paese, in tema di diritti umani, democrazia e terrorismo, ha molto da scontare e ancor più da farsi perdonare.
Un dossier Altro segno del cambiamento che c’è ma che non basta è il secondo rapporto UNDP sullo sviluppo umano nel mondo arabo. Come nel settembre 2002, la pubblicazione del secondo rapporto è stata accolta da un coro di plausi e di ammirazione sincera per il "coraggio" dei suoi autori, intellettuali di spicco del mondo arabo. Peccato che il rapporto, a differenza del documento di un anno prima, offra come soluzione ai problemi del mondo arabo non un salto in avanti verso l’Occidente e le sfide che esso comporta, ma un balzo indietro nella confortevole retorica panaraba della recriminazione vittimistica. Le soluzioni del passato rimangono radicate proprio tra gli intellettuali che dovrebbero essere l’avanguardia sovversiva della società, non la retroguardia reazionaria. Che questo ruolo rimanga ancora radicato nelle classi istruite e illuminate indica come il 2004 non offrirà forti sorprese, anche se forse fornirà forti emozioni.
I giovani riformatori che non riformano E se gli intellettuali si aggrappano a un passato nostalgico che non torna più, come aspettarsi che i giovani rampolli delle dinastie regnanti, monarchiche o repubblicane, possano cambiare laddove nessuno prima di loro osò? Le grandi aspettative nutrite tra il 1999 e il 2000, allorché i re di Giordania e Marocco e il presidente siriano passarono a miglior vita sono già naufragate, e la grande stagione di riforme economiche e politiche promesse ha lasciato spazio al ritorno delle vecchie élite e alla riaffermazione dei loro radicati privilegi. Quello che Bashar al-Assad, Abdallah II e Muhammad VI non hanno fatto tra il 2000 e il 2003, non aspettatevi che avvenga nel 2004. Solo in Siria si può sperare di vedere qualche timido passetto, e questo non per verve riformista, ma per paura degli americani: circondati da Turchia, Israele, Giordania e Iraq (tutti alleati americani), ai siriani dev’essere venuto un po’ d’affanno. Ma prima di fare la svolta di Gheddafi, Bashar probabilmente giocherà carte più pericolose. Più della pace, vien da predirre un po’ di guerra nei prossimi mesi, anche se non sarà propriamente e convenzionalmente guerreggiata.
ObL L’unica novità che potrebbe offrire il 2004 in tema di lotta al fondamentalismo sarebbe la cattura di bin Laden. Ma anche in quel caso, occorre ricordarsi che il simbolo ormai è indipendente dalla causa che incarna: al Qaida non è un’armata barbara del quarto secolo, che scompare come neve al sole alla morte o cattura del condottiero. Il fenomeno fondamentalismo e i mezzi che ha adottato per la sua guerra contro l’Occidente non svanirà con la cattura, pur sempre auspicabile e positiva, del suo più carismatico ed emblematico rappresentante. I milioni di indottrinati nelle madrasse pakistane (ma anche altrove nel mondo arabo e ora anche in Occidente) non subiranno una folgorazione occidentalista e globalizzante vedendo il loro paladino imprigionato.
Iran, Pakistan e Arabia Saudita La lotta continuerà, oltre che in Iraq, in tre paesi, l’Iran, il Pakistan e l’Arabia Saudita. Nel primo il fondamentalismo recede, ma ipotizzare il crollo dei mullah in un paese dove ad agitarsi contro il regime sono fondamentalmente solo gli studenti sembra azzardato, anche se l’Iran è il paese che offre le maggiori speranze di cambiamento endogenamente indotto della regione. Se avvenisse però, il crollo del regime iraniano avrebbe salutari conseguenze: non solo perché potrebbe portare all’interruzione del programma nucleare in corso, ma perché garantirebbe la fine del sostegno iraniano al terrorismo, prima di tutto al ruolo destabilizzante di Hezbollah in Libano. Nel secondo, il regime resiste alle spinte interne del fondamentalismo e continua a barcamenarsi ambiguamente tra le politiche del passato – dove il Pakistan era il principale sponsor dei Talibani e del terrorismo islamico in Kashmir – e volontà di rinsaldare la rinnovata alleanza con l’America. E’ quest’alleanza che mostra forse più di ogni altra cosa i limiti della politica americana: americana: inevitabile allearsi col Pakistan per colpire l’Afghanistan, inevitabile quindi scendere a patti con la dittatura militare di Pervez Musharraf. Meglio un dittatore laico e filo occidentale, che un’elezione vera e democratica che porti al potere il fondamentalismo e doni ai sostenitori di bin Laden le chiavi del programma nucleare pakistano. Prigione o anarchia hanno ancora un senso in Pakistan, e gli americani lo sanno bene. Discorso diverso per l’Arabia Saudita, che il fondamentalismo esporta da sempre nella pia illusione che finanziandolo all’estero starà buono a casa. Quest’ambiguità ha tenuto prima dell’11 settembre, ma oggi non tiene più. I sauditi hanno ben pensato a scatenare una campagna d’immagine negli Stati Uniti per riparare al danno causato dal fatto che 15 dei 19 attentatori erano sauditi. Farebbero meglio a impegnarsi costruttivamente, cessando di finanziare Hamas, assumendo un ruolo più attivo e univoco nel processo di pace, combattendo al Qaida a casa loro, cooperando con gli Stati Uniti, favorendo la transizione in Iraq, smettendo di finanziare la diffusione del radicalismo nelle moschee d’Occidente, da Tirana a Los Angeles, investendo risorse in casa per migliorare la loro economia e invertire la tendenza di crescita negativa che aggrava gli effetti dell’enorme e inarrestabile crescita demografica nazionale. Invece i sauditi non sembrano aver fretta. Governati da una famiglia reale che conta ormai migliaia di principi e che gestisce lo Stato come patrimonio privato di famiglia, presto l’Arabia Saudita affronterà una crisi dinastica, dovuta al fatto che i successori designati del re malato sono tutti quasi ottuagenari. Di fronte a questo quadro e al fatto che la casa regnante di un paese piagato da problemi sociali ed economici preferisce investire i suoi capitali all’estero piuttosto che nell’economia nazionale, come aspettarsi buone notizie?
Immigrati, Europa, velo Ci si può aspettare invece che le barche di disperati continuino ad attraversare il Mediterraneo. L’Europa ha bisogno di immigrati, e ben vengano dunque quelli disposti a lavorare e a integrarsi. Ma non ci si illuda che tutto rimarrà come prima. Il Medio Oriente è ormai parte dell’Europa. Non ci si stupisca se prima o poi la banlieue parigina si infiammerà di fronte al divieto di praticare la fede in pubblico. Che l’Europa tollerante debba tollerare un divieto di mettersi il velo, che non è un’ostentazione di simboli religiosi bensì l’attuazione di un precetto religioso tanto importante quanto la comunione per il cattolico, è sintomo di tempi che verranno, che non saranno limpidi. La prossima Intifada non avverrà a Ramallah e Gaza, ma per le strade e le piazze europee. E se ciò succederà, la responsabilità cadrà anche sui governi e le società europee che non sono riusciti a creare un modello d’integrazione di successo e non hanno saputo mostrare vero rispetto per il diverso, non solo sugli agitatori e l’ideologia antioccidentale che li scatenerà.
Terrorismo suicida Il Medio Oriente arriverà in Europa nel 2004 non soltanto per il progressivo mutamento del paesaggio demografico del continente e le tensioni che questo cambiamento comporta: il 2004 vedrà probabilmente il primo attentato suicida in Europa. La Turchia non è lontana, il Bosforo geograficamente parlando è già Europa. La prossima tappa porterà all’Europa il messaggio che nessuno, neanche coloro che perseguono una politica di appeasement, si salva dalla furia fondamentalista. Prepariamoci dunque. Cautela, prudenza e pazienza. E anche qualche speranza, che le previsioni pessimiste si rivelino sbagliate. Inshallah. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.