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La Stampa Rassegna Stampa
27.12.2003 Attentati riusciti, mancati, pacifisti ed altro.
Una cronaca ed un commento

Testata: La Stampa
Data: 27 dicembre 2003
Pagina: 6
Autore: Aldo Baquis-Fiamma Nirenstein
Titolo: «Tregua finita- Pace a Betlemme»
Una cronaca di Aldo Baquis ed un commento di Fiamma Nirenstein dopo l'ultimo attentato di Tel Aviv dalla Stampa di oggi 27.12.2003. Dai quali si apprende che non c'era nessuna tregua, ma più semplicemente molti attentati sventati. L'azione sciagurata dei cosidetti pacifisti ed un'isola, apparente, di pace: Betlemme.
Ecco il pezzo di Baquis:

Israele, la tregua non dichiarata è già finita


Tornano i kamikaze e le «esecuzioni mirate», l’esercito spara sui pacifisti


TEL AVIV
L’Autorità nazionale palestinese di Yasser Arafat diventa sempre più evanescente e i Territori stanno per sprofondare in uno stato di anarchia, secondo le ultime valutazioni espresse dai responsabili israeliani alla sicurezza all’indomani di un Natale di violenze in cui sono rimasti uccise complessivamente dieci persone tra israeliani e palestinesi. Cinque vittime si sono avute giovedì nel quartiere di Sheikh Radwan, a Gaza, quando un elicottero da combattimento israeliano Apache ha centrato con due razzi l’auto di Maqled Humeid, comandante del braccio armato della Jihad islamica. Con lui sono morti due guardie del corpo e due passanti. Mezz’ora dopo, alla periferia di Tel Aviv, il diciottenne Saad Hanani, un emissario del Fronte popolare per la liberazione della Palestina, si è fatto esplodere a una fermata d’autobus affollata di adolescenti e soldati: le vittime sono state quattro.
In questo clima di violenza ieri militari israeliani hanno sparato contro un gruppo di dimostranti che nei pressi del villaggio di Bidya, in Cisgiordania, cercavano di abbattere un tratto della barriera di separazione, che per Israele è essenziale per fermare le infiltrazioni terroristiche, per la popolazione palestinese è un evidente tentativo di Gerusalemme di annettersi un’importante porzione della Cisgiordania e decine di migliaia di coloni. Gli spari dei soldatihanno ferito in modo grave due manifestanti, uno dei quali risulta essere attivista in una «Sezione anarchica israeliana contro la barriera».
L’improvvisa impennata di violenza dopo due mesi di calma relativa non ha sorpreso né israeliani né palestinesi. Dalla clandestinità, il comandante delle «Brigate Abu Ali Mustafa» (braccio armato del Fronte popolare per la liberazione della Palestina) ha spiegato che nelle ultime settimane aveva cercato di contenere le attività militari dei militanti. «Ma nel frattempo - ha aggiunto - Israele ha continuato ad abbattere abitazioni, a compiere arresti e ad eliminare palestinesi. Ragion per cui abbiamo deciso di chiarire agli israeliani che anche noi abbiamo una capacità deterrente. Le nostre prossime operazioni saranno ancora più dolorose».
Negli ultimi due mesi, i servizi di sicurezza israeliani sono riusciti a sventare 26 attentati. Gran parte di questi successi vengono spiegati con la costruzione di un primo tratto di 110 chilometri della barriera di sicurezza a ridosso della linea di demarcazione con la Cisgiordania. Un’alta fonte militare ha osservato che oltre al Fronte popolare spiccano per attività la Jihad islamica e Tanzim-Jenin, una frangia di Al Fatah che, secondo Israele, riceve fondi non solo da Ramallah, ma anche da Libano, Siria e Iran. Nelle ultime settimane Hamas, secondo la fonte, sembra invece aver limitato le proprie attività nei Territori occupati, su pressione dell’Egitto.
Grande attenzione ha destato l’«esecuzione mirata» di Maqled Humeid a Gaza: da circa due mesi Israele sembrava aver rinunciato a compiere questo tipo di operazioni per non ostacolare la mediazione dell’Egitto finalizzata al raggiungimento di un accordo tra le fazioni palestinesi per una tregua generale. «Nel caso di Humeid - ha detto il ministro della difesa Shaul Mofaz - abbiamo dovuto agire con urgenza perché stava per compiere un grande attentato» che poteva provocare decine di vittime. L’episodio attribuito a Humeidi che più colpisce l’immaginazione risale al novembre 2002, quando accanto a una motovedetta israeliana esplose un’imbarcazione teleguidata imbottita di tritolo.
In seguito a queste ultime violenze Israele ha ordinato la demolizione dell’abitazione del kamikaze fattosi esplodere a Tel Aviv e la chiusura fino a nuovo ordine dei valichi verso i Territori. Ancora una volta, Gerusalemme accusa Arafat di fomentare il terrorismo e rimprovera al premier Abu Ala di non adoperarsi affatto per disarmare i gruppi dell’Intifada armata. Ma il governo dell’Anp a Gaza, secondo la stessa intelligence di Israele, è ormai evanescente, e in un futuro non lontano potrebbe essere Hamas a prendere in mano le redini della situazione.
E quello di Nirenstein:
Fino a pochi mesi fa la città pullulava di uomini di Hamas e dei Tanzim
ed era un vivaio di «martiri». Ora la polizia dell’Anp ha imposto la legge


BETLEMME
POCHI giorni fa il capo dello Shin Beth (i servizi segreti interni), Avi Dichter, aveva avvertito: la quiete di cui godiamo dal 4 ottobre inganna. In realtà ogni giorno vengono bloccati, con l’aiuto della fortuna e del lavorio frenetico dell’intelligence, dai 10 ai 15 attacchi di vario genere, alcuni con la cintura esplosiva già innescata. Tutte le organizzazioni terroristiche, da quelle più importanti come Hamas e i Tanzim (la prima religiosa, la seconda laica, di Al Fatah) a quelle più piccole (la Jihad Islamica, legata agli Hezbollah a loro volta dipendenti da Siria e Iran, e il Fronte popolare per la liberazione della Palestina, di ispirazione marxista) sono rimaste attive anche in queste miracolose settimane di grazia in cui la gente di Israele già cominciava a credere di potere vivere meglio. Un’altra tregua non programmata di questo genere la si era avuta quando Hamas aveva subito cinque «eliminazioni» in quattro giorni, e lo sceicco Yassin aveva deciso di cercare di riassestare l’organizzazione in silenzio e in clandestinità.
Adesso, le ragioni di questa tregua semicausuale sono state più composite: eliminazioni e incarcerazioni hanno giocato una parte sicuramente importante; ma anche la decisione che al Cairo avevano annunciato Hamas e il Fplp di «escludere i civili dal cerchio della violenza», ovvero di astenersi dagli attacchi all’interno della «linea verde», aveva fornito ai due gruppi un peso negoziale negli incontri, poi falliti, promossi da Mubarak per ristabilire un clima possibilista che non scontentasse gli Usa. Nel frattempo Saddam Hussein veniva catturato, Gheddafi rinunciava alle armi di distruzione di massa, Bashar Assad preparava la sua visita in Turchia.
Anche Arafat e l’Autonomia palestinese partecipano del brivido e dei rischi del cambiamento di scenario portato dagli americani. Ma le organizzazioni hanno adepti pronti a morire o a combattere per ogni dove, e comunque l’arma del terrorismo resta la più efficace per gestire gli sviluppi del conflitto: secondo fonti della sicurezza, l’annuncio di Sharon di riprendere la strada delle trattative o del ritiro unilaterale è stata interpretata nell’Anp come fu interpretato dagli Hezbollah l’annuncio dell’uscita dal Libano, una fuga che se spinta con l’aiuto delle armi può essere più veloce e più ampia. Anche la risposta all’attacco di Rafah può essere stata una molla di ripresa degli attentati. Ma tutto era già pronto, e in grande: la settimana scorsa, parallelamente all’operazione di Rafah, a Gaza, dove l’esercito ha ucciso otto persone nello scontro che ha portato alla distruzione di un lungo tunnel con l’Egitto attraverso il quale venivano contrabbandate armi, lo Shin Bet concludeva un’operazione di cattura di 22 membri di Hamas nella zona di Ramallah. Gli uomini della sicurezza israeliana sono rimasti stupefatti da una scoperta raccapricciante: la cellula pianificava (e si era già munita degli strumenti) di uccidere quanti più soldati e di tagliare loro la testa per chiedere un riscatto in cambio della restituzione dei corpi. Anche Maqled Humeid, il capo della Jihad assassinato ieri da un elicottero Apache, stava preparando qualcosa di grosso, un mega-attentato sui cui dcettagli si preferisce per ora tacere.
Ma in quest’alzarsi di una marea di sangue, c’è un’isola in cui per scelta dell’Autonomia palestinese, e, pare, di Arafat personalmente, il terrorismo non c’è più, almeno per ora. L’isola è Betlemme: nella mattinata dopo Natale, trascorso nella quiete e con una certa soddisfazione anche se i turisti erano pochi (ma molti più dell’anno scorso), ci avviamo nel silenzio assoluto delle strade verso l’edificio del Mukhabarat, i servizi di sicurezza: venerdì è festa per i musulmani, e i cristiani riposano. Ci riceve quasi solo nell’edificio il generale del Mukhabarat in persona, Majdi al-Atana, detto Abu Jihad: Arafat l’ha voluto a Betlemme da Jenin perché il suo lavoro non sia disturbato da rapporti antichi, simpatie, parentele; il capo dei Servizi di qui è stato scelto per un’operazione modello.
L’esercito israeliano ha lasciato Betlemme a luglio, Betlemme è con Gerico la sola città in cui la polizia lavori a pieno registro («anche se - dice Abu Jihad - gli israeliani sono rientrati otto volte suscitando pericolose reazioni fra la gente, che non ne può più»), ed era, racconta Abu Jihad, una città letteralmente preda delle organizzazioni «combattenti», come lui le chiama: da qui sono usciti 15 terroristi suicidi, molti di Hamas; da qui un gruppo molto nutrito di Tanzim ha preso a fucilate il quartiere di Gilo, alla periferia di Gerusalemme, per più di due anni. Prima di fronte alla Moschea in piazza della Mangiatoia si vedevano a gruppi stazionare gli uomini di Hamas, sotto la piazza si riunivano i Tanzim: facciamo questo giro e non li incontriamo.
«Oggi tutto questo è finito - spiega Abu Jihad - esiste solo il potere dell’Autonomia, la gente ora sa che qui esiste la legge, e così continuerà a essere se i soldati israeliani non entreranno di nuovo. Prima di Natale abbiamo lavorato duramente per mesi per evitare che vi fossero attentati contro gli israeliani; niente, ne siamo certi, si preparava contro i cristiani. Abbiamo istituito un centro con i cinque responsabili della sicurezza, delle informazioni, delle guardie, dei check-point, dei vigili. Abbiamo impegnato 500 persone e abbiamo agito coordinatamente. Per la prima volta noi stessi abbiamo in questi mesi fermato e messo in prigione, dove si trovano tuttora, nove persone. Gli ultimi due sono suicidi che uscivano dal campo di Aida, due ragazzi di vent’anni. Tutti e nove sono molto importanti. No, non posso dire cosa preparavano, ma chi lo deve sapere lo sa, da queste parti e più lontano».
Secondo Abu Jihad «la popolazione reagisce, pensando che la nostra lotta debba essere solo contro Israele: abbiamo avuto due manifestazioni davanti alla nostra sede. Ma tutti gli arrestati si sono arresi senza reagire. Io sono comunque molto preoccupato, vorrei che ciò che facciamo aiutasse la pace, ma Sharon non è su questa linea». E il terrorismo? Per Abu Jihad il terrorismo ha motivazioni nella situazione di sofferenza dei palestinesi: alla fine, dice, chi ci va di mezzo sono i civili di entrambe le parti.

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