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Il Foglio Rassegna Stampa
17.12.2003 Israele si costituisce parte offesa nel processo a Saddam
mentre cerca vie alternative per la pace

Testata: Il Foglio
Data: 17 dicembre 2003
Pagina: 1
Autore: la redazione
Titolo: «Atti d'accusa - Il piano di pace di Sharon»
Il tiranno di Baghdad lanciò 39 missili Scud su Israele durante la prima guerra del Golfo ed ha continuato a finanziare il terrorismo suicida palestinese fino ad oggi; pertanto Israele gli chiederà di rispondere per i suoi crimini. Allo stesso tempo, così come la prima guerra del Golfo portò alla conferenza di Madrid, la seconda, secondo molti, sarà spunto di un nuovo approccio alla risoluzione del conflitto. I primi risultati si sapranno domani con il discorso di Sharon, intanto il Foglio ci dà alcune anticipazioni.

Riportiamo dalla prima pagina il pezzo sugli "Atti d'accusa" nei confronti di Saddam:

Il guardasigilli Lapid si candida a fare l’avvocato d’Israele parte offesa (non solo nel ’91) da Saddam

Tommy Lapid era partito in quarta, com’è nel carattere del ministro della Giustizia, combattivo e franco fino alla brutalità, dichiarando, non senza fondamento, che "lanciare missili, senza essere stato in alcun modo provocato, contro un paese non coinvolto nella guerra è un crimine internazionale sotto qualunque giurisdizione internazionale", e aveva lunedì annunciato che Israele intende costituirsi parte offesa e chiedere adeguato risarcimento nel processo contro Saddam Hussein, si tenga a Baghdad, si tenga all’Aia, o in qualunque altro luogo del mondo. Dal ministero degli Esteri, dopo colloqui telefonici con Washington, hanno deciso di usare toni più blandi, e ieri Alan Baker, il consigliere legale del ministro degli Esteri, Silvan Shalom, proprio dopo un incontro con Lapid, spiegava che le ragioni legali ci sono tutte, che ha ragione il ministro della Giustizia, visto che i trentanove missili Scud lanciati contro Israele e contro centri abitati nel 1991 la legge internazionale
l’hanno violata e come, ma poi precisava che "saremo in contatto con gli Stati Uniti, il Dipartimento di Stato, il Dipartimento di Giustizia, e una volta che le cose, ora allo stato nascente, si svilupperanno, una volta risolte molte questioni di sostanza e di procedura, decideremo come comportarci e agire nell’interesse del popolo israeliano". Ma ci vuol altro per scoraggiare un uomo come Tommy Lapid. In accordo con l’Attorney General, Elyakim Rubinstein, sta raccogliendo dati sui crimini di Saddam contro Israele, e non intende occuparsi soltanto degli Scud del 1991 ma dell’intera vicenda terrorismo anche se non lo dice ancora, è in contatto costante con i consiglieri legali dei ministeri, e con l’avvocatura generale dell’esercito. E sta già scrivendo il testo che accusa, con testimoni e documenti da spedire al giudizio. Schierato con il ministro della Giustizia c’è un altro duro vero del governo Sharon, il ministro della Difesa, Shaul Mofaz. Ha dichiarato, esplicitamente, che "Israele deve essere coinvolta nel processo internazionale a Saddam, non ci sono solamente i missili Scud, c’è anche il sostegno continuo alle organizzazioni di terrorismo
palestinese nelle azioni contro Israele, l’assistenza all’organizzazione terroristica pro Iraq nei territori".
In relazione al discorso di Sharon di domani, riportiamo l'articolo pubblicato, sempre sul Foglio, a pagina 3, dal titolo: "Il piano di pace di Sharon sboccerà e darà frutti in estate"
Gerusalemme. Da qualche settimana, non passa giorno senza che vi sia una dichiarazione di Ariel Sharon sulla necessità di atti unilaterali che comprendano un ritiro israeliano da alcuni insediamenti. Lunedì, Sharon aveva deriso chi si illudeva di poter stare per sempre a Netzarim e Morag, due insediamenti a Gaza. La settimana scorsa aveva sottolineato di fronte alla commissione Difesa ed Esteri come passi unilaterali avrebbero incluso il trasferimento di insediamenti isolati. A queste dichiarazioni ha fatto eco l’intervista rilasciata quasi due settimane fa da Ehud Olmert, vice di Sharon e ministro per l’Industria. Olmert si era preparato il terreno nel corso della recente cerimonia di commemorazione di Ben Gurion dove aveva sostituito Sharon assente per influenza. Difficile credere che quel discorso non fosse stato coordinato con l’influenzato primo ministro. Altrettanto difficile credere che Olmert non si sia consigliato con Sharon prima di dichiarare, venerdì 5 dicembre, di sostenere un ritiro israeliano unilaterale dalla maggior parte dei territori, compresa Gerusalemme Est. Olmert si è spinto oltre quello che Sharon aveva in passato offerto ai palestinesi come confini temporanei – circa il 50 per cento della Cisgiordania contro il 90 presumibilmente concepito dal piano Olmert – ma il principio è stato sancito d’accordo tra i due. Indubbiamente, da un anno e mezzo Sharon sta preparando l’opinione pubblica a questo tipo di sviluppi. L’idea di un ritiro unilaterale, promossa inizialmente dalla sinistra
negli anni 90, trova consensi attraverso lo spettro politico israeliano perché
offre una via d’uscita dal corrente conflitto senza il bisogno di negoziare una contropartita coi palestinesi, quindi non richiede alcuna concessione israeliana che non soddisfi l’interesse nazionale. Con l’opinione pubblica a larga maggioranza convinta che non esista un credibile interlocutore palestinese
o che il prezzo di un accordo sia troppo alto, l’idea del ritiro unilaterale gode di ampi consensi al centro dello spettro politico ed è osteggiata ideologicamente solo da sinistra e destra estrema, oltre che trovare opposizione tattica a sinistra e destra più per il potenziale danno alla forza negoziale o alla deterrenza strategica israeliane in futuro che per altro.

Anche per indurre Abu Ala (o altri) a trattare
Rimane il dubbio che l’accelerazione sia dovuta in parte al successo mediatico ottenuto dai promotori dell’iniziativa di Ginevra, cui Sharon ha voluto contrapporre un piano alternativo che piace. Contro la reale possibilità che il ritiro unilaterale avvenga van notate la straordinaria lentezza con cui la barriera difensiva è stata costruita negli ultimi mesi e la riluttanza del premier a perseguirne il progetto. Peraltro, a favore della possibilità di un ritiro unilaterale gioca il fatto che Sharon e Olmert sono consci della minaccia demografica che grava su Israele in assenza di un ritiro, negoziato o meno, dai territori. Se di insediamenti si tratta, solo Sharon ha la credibilità politica per rimuoverli. Solo lui, non Yossi Beilin che pure fu
ministro in due governi, non Shimon Peres che favorì gli insediamenti negli anni 70. Nessun altro a destra o a sinistra ha rimosso insediamenti israeliani in nome della ragion di stato. Sharon lo fece nel 1982, nel Sinai. Potrebbe rifarlo fra breve. Dopo appena due settimane dal circo mediatico di Ginevra, Sharon e Olmert hanno riconquistato l’attenzione interna e internazionale con il rilancio dell’idea del ritiro unilaterale, ribadita ieri da Olmert all’annuale conferenza di Herzliyah, dove domani avverrà l’atteso discorso di Sharon che dovrebbe delineare i contorni della sua visione politica per il futuro. Molti sperano, ma pochi si aspettano, che Sharon offra i dettagli pratici di un ritiro di cui da molto si parla ma di cui poco si sa. Sharon invece aspetterà l’ultimo momento per scoprire le sue carte e difficilmente si spingerà oltre quanto da lui detto già negli ultimi dodici mesi, o negli ultimi dodici giorni da Olmert. Il sospetto che il progetto unilaterale passi dalla retorica alla pratica esiste da quando il governo ha intrapreso la costruzione della barriera. Certo, il progetto sottolinea ambiguità e incertezze legate all’idea di un ritiro. A destra si ribadisce incessantemente come la barriera sia uno strumento puramente difensivo, non un confine politico. Pochi, fino alle dichiarazioni di Olmert, avevano contemplato la possibilità che Israele si ritirasse dietro la barriera difensiva una volta completata. Nessuno nel governo ne aveva accentuato tale funzione anche per motivi strumentali: la valenza politica della barriera creerebbe divisioni domestiche allorché si dovesse deciderne il tracciato rispetto a tanti insediamenti israeliani nel
cuore della Cisgiordania, e produrrebbe anche forti tensioni con l’Amministrazione Bush, perché l’inclusione di aree della Cisgiordania a Ovest della barriera significherebbe, nel contesto del tracciato inteso come nuovo confine, un’annessione di territorio inaccettabile per gli americani. Queste
due obiezioni hanno frenato il progetto di costruzione, ritardato dal governo e non completato fino a oggi, proprio a causa della potenziale controversia interna e internazionale sul tracciato del muro. Ma quel che ci si può aspettare è che, con l’arrivo della prossima estate e il prevedibile crollo del governo Abu Ala, Sharon potrà giocare la carta unilaterale. Se Abu Ala arrivasse
al capolinea, Washington sarebbe più disponibile a digerire azioni unilaterali
israeliane, e a pochi mesi dalle presidenziali l’Amministrazione eviterebbe di cercare lo scontro aperto con il governo israeliano. Nel frattempo la costruzione della barriera continua. Dove passerà rimarrà dettato più da contingenze di sicurezza che dalla determinazione di creare un confine politico. Ma l’impressione che Israele si prepari a un ritiro potrebbe esercitare benefiche pressioni sui palestinesi e spingerli a negoziare prima che sia tardi. Se ciò non avvenisse, allora Sharon scoprirà le sue carte e soltanto allora deciderà il ritiro, chiarendone a tutti la natura.
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