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La Stampa Rassegna Stampa
17.12.2003 Tra ideali e pragmatismo
a volte si rende necessario che prevalga il secondo

Testata: La Stampa
Data: 17 dicembre 2003
Pagina: 10
Autore: John Keegan
Titolo: «L’Occidente non deve vergognarsi»
Riportiamo una interessante analisi di John Keegan, uno tra i maggiori esperti mondiali di questioni internazionali, a proposito dei rapporti Iraq-Occidente.
C’è gente che non è mai contenta. Appena ieri inglesi, americani e iracheni festeggiavano la cattura di Saddam. Oggi alcuni commentatori occidentali già dicono che questo porterà nuovi guai.
Robert Fisk, il rinomato corrispondente dal Medio Oriente dell’«Independent» scrive che «l’incubo è finito ma il peggio sta per arrivare». Il suo ragionamento è un po’ arduo da seguire ma suona circa così. Le circostanze della cattura di Saddam, che viveva alla macchia come un troglodita, dissipano la convinzione che fosse lui a coordinare la resistenza irachena contro le forze di occupazione del Paese di cui era fino a tempi recenti presidente. D’altra parte, molti dei suoi ex sottoposti non si sarebbero messi contro di lui, finché era in libertà, nel timore che potesse riprendere il potere. Così gli iracheni, secondo le fonti di Fisk, sono concordi nel ritenere che la guerriglia continuerà. La responsabilità di questo stato di cose è dell’Occidente perché all’epoca del suo splendore, Saddam era molto corteggiato dai capi di stato. I francesi gli mandavano dottori per curarlo, Chirac lo adulava. Donald Rumsfeld guidò a Baghdad una missione diplomatica. Ed è sempre l’Occidente che, dopo aver destabilizzato la politica del Paese, sta tentando di di portarlo verso la democrazia. E sarà ancora l’Occidente a pagare il prezzo dell’instabilità che ha causato.
C’è un barlume di senso negli argomenti di Fisk. E’ vero che Saddam era blandito dall’Occidente quando si pensava che in Medio Oriente la vera minaccia fosse costituita dal regime fondamentalista dell’Iran. Gli ayatollah predicavano la guerra santa contro il Grande Satana, gli Stati Uniti, e sponsorizzavano apertamente il terrorismo anti-americano. E violarono le più antiche regole di relazioni internazionali invadendo l’ambasciata americana a Teheran e prendendone in ostaggio i dipendenti.
Saddam, allora, sembrava un alleato desiderabile. La sua politica estera era fervidamente anti-iraniana. In politica interna rappresentava tutto ciò che qualsiasi Paese occidentale si sarebbe augurato da un governante mediorientale. Era sinceramente laico, ben intenzionato a tenere il clero islamico confinato alle moschee. Favoriva la scolarizzazione, l’emancipazione femminile e lo sviluppo economico e per questi scopi utilizzava gli enormi utili tratti dallo sfruttamento delle risorse petrolifere. E, naturalmente, all’epoca non manifestava sentimenti anti-occidentali.
Nessuna meraviglia che i leader occidentali accorressero in massa a Baghdad. La modernizzazione del Medio Oriente, un sogno dell’Occidente fin dai tempi della spedizione napoleonica in Egitto del 1798, se mai era possibile, sarebbe passata attraverso uomini come Saddam, sinceri patrioti con programmi di sviluppo illuminati. In precedenza l’Occidente aveva riposto le speranze in governanti come Nasser in Egitto e lo Scia in Iran. Lo Scia, però, benché fosse un vero riformatore, aveva insistito nel fondare il suo potere su una base politica troppo ristretta e si era dimostrato eccessivamente brutale nei confronti dell’establishment islamico, finendo per suscitare una rivolta religiosa interna che aveva travolto i suoi progetti. Anche Nasser era un autentico riformatore ma aveva unito alle sue ambizioni nazionali l’aspirazione a diventare un leader per l’intero mondo arabo, cosa questa che implicava la necessità di attaccare gli interessi occidentali e combattere Israele. Così facendo aveva suscitato l’ostilità dell’Occidente e si era alienato ogni possibile e fruttuoso contatto. Sadat, il successore di Nasser, poi, si dimostrò eccessivamente filo-occidentale e ne pagò il fio con un destino frequente in Medio Oriente, l’assassinio per mano di fanatici tradizionalisti.
La cacciata dello Scia e la morte di Nasser e di Sadat avevano lasciato nell’area un solo candidato alle simpatie occidentali, Saddam Hussein. Molti allora pensarono, e qualcuno ne è ancora convinto, che la politica corretta fosse quella di coltivarlo per attrarlo nel sistema occidentale. E di certo fu sostenuto in pieno. Tuttavia la politica occidentale non poteva venire a patti con l’aspetto irrazionale del carattere di Saddam. Lui non voleva essere comprimario in alcun schema deciso da altri, nè, benché baathista, trovarsi subordinato al partito baathista siriano; non voleva diventare un protetto degli ufficiali egiziani e men che mai un uomo di paglia dell’Occidente. Il suo obiettivo era diventare uno statista di riferimento per l’intero Medio Oriente e, sovrastimando il potere conferitogli dalle sue riserve petrolifere, si mise all'opera per soddisfare queste ambizioni.
I suoi guai dopo il 1980 nacquero da questa politica fuorviata. Dapprima decise di attaccare e sconfiggere l’Iran con il pretesto di uno screzio sui confini. Gli otto anni di guerra ebbero un costo così alto da indebitarlo con gli alleati arabi, che, come lui, temevano l’influenza degli ayatollah sulle masse islamiche. Quando si annesse il Kuwait, nel 1990, per ripianare i suoi debiti, offese il mondo intero e inevitabilmente anche l’opinione pubblica occidentale,e andò incontro a una cocente sconfitta nella guerra che ne seguì. Ma, anche dopo una simile umiliazione, perseverò nella ricerca di un modo per ristabilire il suo prestigio, inseguendo lo sviluppo di armi di distruzione di massa come un mezzo a buon mercato per vendicarsi.
Le conseguenze sono note. E’ difficile capire quali sarebbero le colpe dell’Occidente. E’ successo altre volte. Di tanto in tanto, nel corso della storia recente, un leader, o un partito o un potere la cui politica, sembrando rappresentare al momento l’opzione meno sfavorevole per la democrazia, era stata incoraggiata, si è rivelato nel corso degli eventi un alleato di cui doversi vergognare. Mussolini, nel 1930, era visto come un utile contrappeso a Hitler, benché fosse con ogni evidenza un imperialista. Allo stesso Hitler, nel momento in cui il bolscevismo appariva come la più grave minaccia all’Occidente, fu concesso il beneficio del dubbio. Fu con estrema riluttanza che, nel giugno 1941, Winston Churchill si risolse a promettere aiuto a Stalin dopo l’invasione tedesca della Russia. E così via. La lista dei beneficiari indegni del soccorso delle democrazie è pressoché infinito. Noriega a Panama, Pinochet contro Allende, i Diem in Vietnam, Ceausescu quando sembrava nemico dell’Unione Sovietica, Bokassa, l’imperatore cannibale dell’Africa centrale, persino Idi Amin, anche lui sospettato di antropofagia.
I cittadini delle democrazie non amano sentirsi ricordare tutte le cattive compagnie frequentate dai loro governanti. Siamo soliti pensare che i nostri Paesi dovrebbero agire eticamente. Robin Cook ha debuttato come ministro degli Esteri laburista promettendo «una politica estera morale». Ma i Paesi non hanno un’etica, hanno solo degli interessi. Talvolta il loro perseguimento costringe a prendere direzioni difficili da difendere. Il nostro antico rapporto con il laico Saddam era appunto uno di questi casi. Non dovrebbe essere ritorto contro chi ci governa. «Addio, senza rimpianti».
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