We got him ! L'abbiamo preso I tiranni cadono. E Arafat ?
Testata: La Stampa Data: 15 dicembre 2003 Pagina: 9 Autore: Fiamma Nirenstein Titolo: «Il Medio Oriente è avvisato: non è più tempo di tiranni»
La caduta di Saddam, vista da Israele. Il commento di Fiamma Nirenstein sulla Stampa del 15-12-2003 Da oggi il Medio Oriente entra nella seconda fase di una profonda rivoluzione dopo la fase delle guerre dall’esito incerto. C’è stata una evidente, drammatica, inequivocabile vittoria delle forze della coalizione. Lacrime e brividi e incontenibili sensazioni di sconcerto o di gioia, di speranza o di terrore: sentimenti estremi percorrono in queste ore il medio Oriente. Chi conosce il mondo arabo ha percepito immediatamente, con un brivido e un senso di vertigine, che ancora una volta la storica importanza di quello che è accaduto ieri è scritta nelle immagini: la grande faccia corrucciata e anche imbambolata di Saddam presa la barba, onore del mento islamico, la sua testa di Raiss esaminata fin dentro gli orecchi e nella bocca, è uno shock definitivo per il sistema stesso dei molti Raiss, dei tiranni che opprimono uno per per uno tutti i popoli della zona. La sua fine è per molti leader di regimi autoritari e per i loro sostenitori il sigillo che annuncia, almeno in nuce, la fine di un’epoca. Che gli americani cercassero pidocchi o una pillola fatale (come si dice fra gli esperti israeliani) fra i capelli o nei peli della barba o fra i denti non è molto importante: le immagini della testa del Raiss rigirata di sotto e di sopra come un oggetto fra le mani dei nemici sono assai più definitive di quella della statua nel fango. Si dice che nel suo ultimo rifugio sotterraneo, accanto a Hussein i soldati americani abbiano trovato una pistola: il fatto che Saddam abbia preferito non farne uso nononstrante avesse più volte ripetuto che mai i nemici l’avrebbero preso vivo, è, anche questo, un suggerimento per il mondo arabo sull’indole reale dei dittatori che lo tormentano e lo depauperano, ovvero che il loro coraggio in genere viene esercitato attraverso altri martiri, altri eroi. Saddam esce dalla scena da vile. In parole povere, il suo onore è perduto, cade un mito molto violento e aggressivo; i giocattoli per bambini, i manifesti, i dipinti e le foto che lo rappresentavano armato e spaventevole come un colorato vincitore verranno ammainati, ha qui fine la fantasia che lo vedeva con Osama bin Laden come il castigamatti escatologico del regime americano, della cultura occidentale identificata col colonialismo, di Israele denigrata come epitome di tutti i mali del mondo, che lo associava alla grande guerra islamica contro «i crociati e gli ebrei», che ne aveva fatto un grande eroe popolare da quando durante la guerra del ‘91 aveva lanciato 40 missili sulle case di Tel Aviv. Cade con Saddam una parte del fantasioso e fatale castello di accuse contro il mondo occidentale che ne ha creato la rovina rinchiudendolo in un sogno di vendetta senza sviluppo, senza pace. L’Islam estremo ammaina con queste immagini una delle sue due bandiere fondamentali, il vittimismo nei confronti degli USA e di Israele che diventa sempre trionfalismo nella folle convinzione di una vittoria. Ammaina la pretesa indespensabilità delle dittature a fronte della prospettiva di una democratizzazione possibile. Perché, in secondo luogo come segnale politico valido per tutta l’area vengono le immagini della felicità, della gioia e delle celebrazioni del popolo iracheno: la paura della vendetta dei fedelissimi e dell’orribile fantasma di Saddam si restringe immensamente, ma soprattutto, a chi pensa in Medio Oriente e in Europa che i cittadini mussulmani non desiderino, non sognino come tutti la democrazia e la libertà, la smentita è evidente. Tolta la minaccia immediata di Saddam Hussein, chi soffre nella mani di un regime autoritario la prigione, le botte, il delitto di massa, la mancanza di libertà di espressione e di beni che non siano meritati con la fedeltà al regime, mostra di desiderare la distruzione del vecchio regime e l’avvento di una nuova vita. Dal mondo arabo dunque in queste ore giungono prudenti dichiarazioni, solo la moderata Giordania si dichiara sollevata, la tv e radio palestinese si limitano a raccontare i fatti. Si può immaginare che Bashar di Siria, che è stato molto vicino a Saddam, l’Iran che ne era l’antico nemico ma che non ha perso l’occasione di fare dell’Iraq un suo ben nutrito focolaio di terrorismo dopo la guerra e che ha in casa una determinata e diffusa resistenza, il Libano costretto alla convivenza con gli Hezbollah e le truppe siriane, Arafat, che nel corso degli anni ha sempre dimostrato la sua ammirazione e anche la sua alleanza con Saddam, ricambiato di gran cuore, e altri Raiss dell’area stiano in queste ore mettendo a fuoco in termini molto pratici quello che è stato il nesso fondamentale che ha condotto alla guerra contro Saddam Hussein: il terrorismo. L’idea di fondo è quella che ha ispirato dall’11 di settembre la politica degli Stati Uniti, ovvero che i paesi arabi dominati da satrapie inamovibili, e fertilizzati dall’insorgenza islamista, siano la base fondamentale della enorme guerra di terrore che insanguina il mondo, e che il cambio di regime di questi paesi che offrono denaro, infrastrutture, armi, rifugio al terrorismo sia indispensabile. La riprova di questa impostazione non è probabilmente dietro l’angolo, perché anzi Hamas e la Jihad Islamica hanno già dichiarato che «non c’è solo Saddam che ha tenuta alta la fiaccola della resistenza», ed è possibile che per dimostrare la sua vitalità e attirare fedeltà e adesione, il terrorismo si farà vivo dentro e fuori i confini dell’Iraq. Al Qaeda certo progetta uscite, lo stesso faranno le organizzazioni collaterali (ormai moltissime, e così atomizzate da essere quasi del tutto imprevedibili) e le organizzazioni palestinesi. Ma in prospettiva, un miglioramento è inevitabile: i flussi del denaro e della armi non troverà più la direzione univoca che i Raiss sempre impongono, il ricevente ha cambiato indirizzo, lo sconcerto morale avrà il suo effetto, le opposizioni democratiche si rafforzeranno, e quindi i processi di pace potrebbero conoscere un miglioramento. Tuttavia, questo avverrà se la stretta psicologica, l’idea che il terrorismo e gli Stati che ne sono sostenitori, la stretta di intelligence che si è mostrata molto efficiente terrà duro. La guerra contro il terrorismo si vince con dei risultati evidenti: sembra una banalità, ma per noi europei, per cui la pace è un valore in sè e non il risultato di una acquisizione positiva, non lo è affatto. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare il proprio parere alla redazione de La Stampa. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.