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La Stampa Rassegna Stampa
11.12.2003 Yehoshua, anche lui deluso da Ginevra
ma il titolo dice l'opposto

Testata: La Stampa
Data: 11 dicembre 2003
Pagina: 29
Autore: A.B. Yehoshua
Titolo: «Un raggio di sole per la pace»
La Stampa di oggi pubblica un articolo di A.B. Yehoshua che racconta le sue impressioni sulla conferenza di Ginevra. Dall'articolo prevale un sentimento di delusione nei confronti della delegazione palestinese che non riconosce la visione della storia degli israeliani. Il titolo che pubblica la Stampa, "Un raggio di sole per la pace", è fortemente fuorviante e non rispecchia il contenuto dell'articolo, disinformando così i lettori.
L'incontro avvenuto a Ginevra il primo dicembre scorso, in seguito alla firma di un trattato tra israeliani e palestinesi, ha impresso slancio internazionale a questa iniziativa. Il Medio Oriente ha conosciuto così tanti inviati speciali, piani, proposte, proclami, petizioni, che esisteva il pericolo che anche questo importante documento cadesse nel dimenticatoio. Quindi, per infondere vitalità e vigore alla presente iniziativa era necessario organizzare un evento internazionale di ampio impatto mediatico e assicurare l'impegno di diversi capi di stato.
Sotto questo punto di vista l'incontro di Ginevra non ha deluso le aspettative. La Svizzera, in quanto nazione neutrale, non è sospettata di avere interessi occulti e Ginevra è sede di innumerevoli istituzioni internazionali. E poichè in ogni caso era impossibile tenere l'incontro in Israele o in Giordania, non c'era posto migliore di quella città.
Gli svizzeri si sono mostrati efficienti e generosi, ospiti impeccabili nel non imporre troppo il loro marchio sull'evento.
L'aereo israeliano noleggiato dal governo svizzero era stipato di ex generali e ufficiali dell'esercito (tra cui un ex capo di stato maggiore), uomini politici, uomini d'affari e anche, naturalmente, rappresentanti del mondo della cultura, dell'arte e dei mass media. Io, che negli ultimi anni sono abituato a trascorrere la maggior parte del mio tempo con i miei familiari e gli amici più cari, mi sono ritrovato per ventiquattr'ore in una sorta di «gita scolastica» o di «escursione di organizzazione giovanile», con tanto di atmosfere goliardiche e tensioni interpersonali. Ma la cosa insolita per me è stata affrontare un lungo viaggio di nove ore (andata e ritorno) per sedere passivamente in una sala congressi e ascoltare i discorsi di altri.
Come previsto, la maggior parte dei discorsi sono stati ripetitivi, eccezion fatta per quello dell'ex presidente della Polonia Lech Walesa che, parlando in polacco con tono diretto e semplice e ignorando il discorso preparato in precedenza, ha interrotto più volte con entusiasmo l'imbarazzato interprete che riusciva a stargli dietro a fatica. D'un tratto, dietro il rispettabile capo di stato e vincitore del premio Nobel per la pace, ho rivisto l'elettricista dei cantieri navali di Gdansk, in particolare quando ha tentato di infonderci speranza dicendo: «Noi, del movimento Solidarnosc, abbiamo dovuto affrontare ventun problemi, e siamo riusciti a risolverli tutti. Voi ne avete solo dieci, perché quindi non dovreste risolverli?». Sinceramente non so ancora quali fossero i ventun problemi di Solidarnosc e quali i nostri dieci, ma se i polacchi ce l'hanno fatta, perché non dovremmo farcela anche noi? Lech Walesa, con il suo stile semplice e diretto, ha dato a tutti noi un'iniezione di fiducia».
I palestinesi, pur venuti per concludere la pace e parlare di speranza, non sono riusciti a evitare il tono polemico con gli israeliani e numerando aggressivamente le ingiustizie subite e i problemi quotidiani che si trovano ad affrontare ma senza menzionare gli atti di brutale terrorismo in cui hanno perso la vita quasi mille israeliani (per lo più civili, tra cui intere famiglie) negli ultimi tre anni. Secondo i palestinesi il conflitto mediorientale è iniziato solo nel 1967, come se prima, fin dagli inizi del secolo scorso, loro, spalleggiati dall'intero mondo arabo, non si fossero opposti al ritorno degli ebrei nella loro patria storica, e non li avessero combattuti senza tregua. Come se anche dopo la guerra dei sei giorni non avessero disconosciuto per molti anni il diritto di esistere dello stato di Israele e non si fossero rifiutati di stringere la mano ai suoi rappresentanti o di dialogare con loro. Il mio caro amico Amos Oz, che sedeva accanto a me durante quegli infiniti discorsi, ha borbottato: «Sono disposto a restituire loro tutti i territori conquistati nella guerra dei sei giorni ma non a rinunciare alla nostra versione della storia». Io ero meno infastidito dal tono lamentoso dei palestinesi e questo per due motivi:
1.I palestinesi giunti a Ginevra rivestivano un ruolo di rappresentanza o di semi rappresentanza. Fra loro c'erano ministri del governo e collaboratori diretti di Arafat, ma anche chi è venuto in veste privata ha mantenuto un «contatto visivo» con le istituzioni. In quanto esponenti semi ufficiali erano dunque tenuti a rispecchiare i sentimenti della popolazione palestinese mentre gli israeliani, che non avevano alcuna funzione di rappresentanza, potevano esprimersi con la massima libertà.
2.Nonostante la responsabilità morale che grava sulle loro spalle per lo scoppio dell'Intifada nel settembre del 2000, negli ultimi anni i palestinesi si trovano in una situazione molto più difficile di quella degli israeliani. La loro sofferenza è quotidiana e interessa ampie fasce della popolazione. Non c'è quindi da stupirsi che sentano il bisogno di esprimere il loro malessere e non si limitino a parlare di speranze di pace.
E in effetti il momento che ha rappresentato per me motivo di interesse e di emozione e per cui è valsa la pena di affrontare il lungo viaggio a Ginevra e di ascoltare gli estenuanti e ripetitivi discorsi, è stato quello dell'incontro informale con i palestinesi avvenuto al di fuori della sala congressi. La rapidità con cui si è creata una sorta di intimità tra noi e loro, due popoli che si combattono con tanta crudeltà da così tanti anni, è stata stupefacente. Ci siamo scambiati indirizzi e numeri di telefono e ciascuno ha raccontato le proprie esperienze come se tra noi, nonostante tutto, ci fosse un occulto legame di parentela.
Recenti ricerche sulla ricomparsa dell'antisemitismo hanno rivelato un fatto all'apparenza sorprendente, benché per me rappresenti un'ulteriore conferma a un'analisi sulle «radici dell'antisemitismo» che intendo pubblicare tra breve. A quanto pare i palestinesi si dimostrano meno attivi nel manifestare sentimenti antisemiti e nell'inventare storie fantastiche sugli ebrei di altri popoli arabi. Di certo odiano gli ebrei e ce l'hanno a morte con loro ma non si sognerebbero mai di pronunciare frasi assurde come quella di José Saramago: «A Ramallah gli ebrei erigono campi di concentramento come quello di Auschwitz», o quella di Miki Theodorakis: «Gli ebrei sono alla radice dei mali del mondo» (e questo cinquant'anni dopo la Shoah!), o come quella dell'ex capo del governo malese: «Gli ebrei dominano il mondo».
I palestinesi sanno bene che non solo noi non dominiamo il mondo, ma non riusciamo nemmeno a dominare loro, un popolo piccolo e debole. Nelle strade di Ramallah, movimentate da mercati, commerci e attività culturali, i residenti sanno bene di non essere ad Auschwitz. E loro, che conoscono da vicino il sanguinario fanatismo islamico, non possono sostenere che solo gli ebrei sono alla radice dei mali del mondo. Quindi proprio loro, i palestinesi moderati che ho incontrato a Ginevra, potrebbero insegnare a tutti gli antisemiti (fra cui anche alcuni rispettabili vincitori di premi Nobel) che non é necessario inventare ogni sorta di perfide fantasie per opporsi all'attuale linea politica del governo israeliano.
La sensazione di intimità e di vicinanza tra i nostri popoli - l'israeliano e il palestinese - incatenati come due prigionieri che vorrebbero separarsi ma che sanno che dovranno restare vicini per l'eternità, è stata per me un nuovo raggio di sole nel grigiore della bella Svizzera. Ancora una volta, come Catone il censore, torno a ripetere ciò che ho detto infinite volte: europei, aiutateci a uscire dal vicolo cieco in cui ci troviamo. Non aspettate gli americani. Se vi dimostrerete attivi e decisi nella vostra iniziativa, noi vi seguiremo. Così come i promotori del trattato di Ginevra, palestinesi e israeliani, non hanno esitato ad accettare l'invito del segretario di stato americano.
(Traduzione di Alessandra Shomroni)
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