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Il Foglio Rassegna Stampa
09.12.2003 Ancora commenti su Ginevra e barriera difensiva
analisi e opinioni dal Foglio

Testata: Il Foglio
Data: 09 dicembre 2003
Pagina: 1
Autore: giornalisti vari
Titolo: «su Ginevra e sulla barriera difensiva»
Un Foglio molto ricco (beh, non è una novità).
Riportiamo alcuni articoli che riguardano la barriera difensiva e gli accordi di Ginevra. Cominciamo con l'editoriale che esprime l'opinione del quotidiano sulle critiche alla barriera. Questo il titolo: "La testa contro il muro"

Le immagini vincono sulla ragione. Iconofilia dispiegata, sotto il segno dalla televisione facile. Dunque, il muro, la testa del mondo sbattuta contro il muro. In un battibaleno il muro di Israele è diventato il sostituto dei colori dell’arcobaleno nella bandiera pacifista: è il simbolo della carognaggine e della prepotenza del nemico militarista, capitalista, imperialista. A raccontarla a un bambino, dopo che l’Onu ci ha offerto il terzo, quarto pronunciamento solenne contro la prepotenza di Israele, costruttore di muri, la
faccenda non è così complicata. Forse Israele non vuole la pace possibile, e
sbaglia strada; forse sbaglia strada con Sharon, forse la sbaglia dal ’67, con tutti i governi, forse dal ’48, con tutte le guerre di indipendenza combattute e vinte. Forse. Forse i palestinesi non si sono mai emancipati dal "rifiuto arabo", e ne sono diventati la più ricattatoria delle espressioni, forse, chissà, può darsi. Ma su un punto non esiste forse. Israele subisce un’aggressione terroristica. Per terrorismo si intende una lotta politica e ideologica che ha per scopo la distruzione dell’avversario e della sua capacità di combattere, e che dunque usa il mezzo estremo dell’odio indiscriminato e della distruzione indiscriminata, con preferenza per la morte di civili innocenti, di vecchi, donne e bambini assiepati sui bus che vanno a scuola, di avventori di ristoranti e pizzerie, di gente ignara seduta al caffè, stazionante alla prossima fermata, nei centri e nelle città dove una società esiste nella sua routine. Il muro invece non esiste. Lo vediamo tutte le sere nei tg, ma è lungo soli nove kilometri, è una barriera di cemento per impedire assalti alle auto lungo un’autostrada. Per il resto si tratta di un confine provvisorio, di un confine difensivo provvisorio segnato da un reticolato e da checkpoint, di un limes che ha per obiettivo evitare infiltrazioni di terroristi, bombe che scoppiano, morti a grappolo, paura universale, voglia di andarsene e di lasciare Israele a un destino di estinzione. E’ la difesa di una democrazia mediorientale non amata. E’ il contrario del Muro di Berlino, che era
difesa dalla democrazia, barriera eretta per evitare la fuga verso la libertà, linea di custodia della schiavitù politica. Ma con il beneplacito dell’Onu e di
molti ministri irresponsabili, il muro di Israele diventa ogni giorno di più la
metafora della grande menzogna, il simbolo dell’annessionismo di questo "popolo forte, sicuro di sé, dominatore" (Charles de Gaulle).
Un'interessante analisi di Yossy Klein Halevi e Michael B. Oren sulle possibili conseguenze del Piano di Ginevra, un premio al terrorismo: "Ginevra non è un accordo di pace ma una dichiarazione di resa"

-Copyright The New Republic – Il Foglio, con la traduzione di Aldo Piccato-

Pochi giorni fa, circa due milioni di famiglie israeliane hanno ricevuto per
posta le 47 pagine del testo dell’accordo di Ginevra, che si presenta come una soluzione comprensiva del conflitto israelo-palestinese. L’accordo, frutto di uno sforzo patrocinato dall’Europa e segretamente negoziato da funzionari palestinesi e personaggi pubblici israeliani nel corso degli ultimi due anni, stabilisce il ritiro di Israele entro i confini del 1967 e la nascita di uno Stato palestinese con capitale Gerusalemme, richiede l’accettazione reciproca del diritto all’esistenza da parte dei due popoli e delinea una soluzione per la questione dei profughi. Malgrado i suoi autori dichiarino che l’accordo rappresenta semplicemente una proposta avanzata da privati cittadini, il testo
è presentato come un "accordo definitivo" tra Israele e Olp […]. Nell’introduzione alla versione ebraica, il famoso scrittore David Grossman promette ai cittadini israeliani, "i quali hanno subito innumerevoli guerre e orribili attentati terroristici", che l’accordo farà nascere un Israele "prospero e ugualitario", libero "dalla paura della guerra e dell’annientamento". Per gli israeliani, sfiniti da tre anni di terrorismo, le parole di Grossman sono molto seducenti. In effetti, l’accordo di Ginevra coincide con una storica trasformazione nell’opinione pubblica del paese. La maggior parte degli israeliani sono ora pronti a rinunciare ai risultati della guerra del ’67 (controllo della Cisgiordania, di Gaza e Gerusalemme Est) in cambio dell’accettazione palestinese di quelli della guerra del 1948. La maggior parte degli israeliani considera la creazione di uno Stato palestinese non più come una mortale minaccia bensì come il solo modo per conservare l’identità ebraica e democratica di Israele. Nel 1992, un anno prima dell’inizio del processo di pace di Oslo, il laburista Yitzhak Rabin fu eletto
primo ministro sulla base di una piattaforma politica che negava ai palestinesi il diritto a uno Stato; oggi, il leader del Likud Ariel Sharon esprime regolarmente la sua accettazione di una Palestina indipendente. Per Israele, quindi, la questione non è più se concedere la creazione di uno Stato palestinese, ma in che modo farlo. La maggioranza di centro appoggia la nascita
di uno Stato palestinese, ma solo dopo che i palestinesi abbiano posto fine al
terrorismo, riformato il loro governo e rinunciato al diritto al ritorno dei profughi. L’accordo di Ginevra, tuttavia, ignora anche queste minime aspettative. Al contrario, offre ai palestinesi uno Stato lasciandoli continuare
a combattere una guerra terroristica, legittima e addirittura rafforza il dominio di Yasser Arafat e costringe Israele ad accettare il principio del rimpatrio dei profughi. Inoltre, mina alle fondamenta le possibilità
di successo della guerra al terrorismo e ostacola qualsiasi futura soluzione per la regione mediorientale. La ragione del fondamentale divario tra le aspettative della maggioranza israeliana e le fantasie di Ginevra sta nel fatto che gli architetti dell’accordo non fanno parte di questa maggioranza. […] Ciò determina una netta asimmetria tra i negoziatori israeliani e le loro controparti palestinesi, la maggior parte dei quali sono funzionari di Fatah e del Tanzim, che agiscono con la benedizione di Arafat. Quasi tutti gli israeliani hanno ormai da molto tempo perso ogni fiducia nella volontà del regime di Arafat di rispettare qualsiasi accordo con Israele. A Oslo, l’Autorità
palestinese si era impegnata a combattere attivamente il terrorismo, a limitare
il proprio arsenale di armi e a risolvere pacificamente il conflitto con Israele. Invece, ha incitato un’intera generazione di giovani palestinesi a glorificare gli attentatori suicidi, ha concretamente sostenuto il terrorismo,
ha acquistato clandestinamente grandi quantità di armi, e ha risposto alle
offerte di pace israeliane con una guerra che ha ucciso migliaia di persone su entrambi i fronti.

I due scenari possibili
L’accordo di Ginevra, tuttavia, fa finta di ignorare gli eventi degli ultimi tre anni. […] Non ignora semplicemente il crollo della credibilità palestinese; nega tout court a Israele i mezzi per difendersi. Mentre persino il processo di Oslo concedeva alle forze israeliane il diritto di combattere attivamente i terroristi, l’accordo porrebbe la sicurezza di Israele nelle mani di una forza
multinazionale composta da contingenti forniti "dagli Usa, dalla Federazione russa, dall’Ue e dall’Onu". Questa forza multinazionale sarebbe incaricata di controllare i confini, impedire attentati terroristici e fermare il contrabbando di armi. […] Considerando la storia dei palestinesi e le precedenti
esperienze con osservatori multinazionali, si possono immaginare due probabili
scenari. Il primo è che i terroristi operino dietro le spalle della forza internazionale, provocando la risposta di Israele e uno scontro tra questi e la forza internazionale. Il secondo è che la stessa forza internazionale cerchi di eliminare il terrorismo e diventi obiettivo di attentati, che porterebbero alla sua evacuazione. Ci sono molti precedenti per entrambi gli scenari (dagli scontri tra Israele e le forze delle Nazioni Unite in Libano fino alla recente fuga del personale Onu da Baghdad). E’ proprio prevedendo questi scenari che Arafat ha fatto dell’internazionalizzazione del conflitto il suo obiettivo dichiarato. […] La principale minaccia per la sicurezza di Israele è rappresentata dallo status di Gerusalemme. A Oslo, la soluzione di questa
spinosa questione era stata rimandata fino alla fine del processo di pace, quando si sarebbe ormai presumibilmente instaurata quella reciproca fiducia tra le due parti necessaria per governare congiuntamente la città. L’accordo di Ginevra, al contrario, salta a piè pari la fase di costruzione della fiducia e intende consegnare ai palestinesi, nel giro di soli trenta giorni, la sovranità
su quasi tutta la Città vecchia, compresa la "spianata del Tempio/al-Haram al-
Sharif". […] Per quanto gravi, i pericoli che insidiano la sicurezza di Israele sono superati dalla minaccia posta all’esistenza di Israele come Stato ebraico. Gli autori dell’accordo hanno garantito all’opinione pubblica israeliana che i firmatari palestinesi hanno rinunciato alla richiesta del diritto al ritorno dei profughi. Ma anche una rapida lettura del testo smentisce questa affermazione. Non c’è nessuna esplicita rinuncia. Perciò, mentre Israele deve abbandonare le sue aspirazioni al "Grande Israele", i palestinesi non sono obbligati a rinunciare nemmeno a parole alla loro pretesa per una "Grande Palestina". […] L’accordo di Ginevra offre così uno strumento per mettere in pericolo l’integrità demografica di Israele. […] In principio, Israele manterrebbe il diritto a controllare il numero di palestinesi intenzionati a rimpatriare. Di fatto, però, avendo dato una legittimazione morale al diritto al ritorno, Israele si troverebbe esposto alle pressioni internazionali che lo obbligherebbero ad accettare un numero enorme di profughi. […] Non sorprende
quindi che lettori attenti del testo, come Gilead Sher, già autorevole negoziatore con i palestinesi, abbiano concluso che l’accordo sarebbe una completa sconfitta per Israele. […]
Se verrà messo in atto, l’accordo di Ginevra non sara soltanto disastroso per Israele ma anche fatale per la politica mediorientale dell’America. Gli Stati Uniti si sono fatti campioni di una politica a due dimensioni: combattere il terrorismo e promuovere la democrazia. Appoggiando la road map, l’Amministrazione Bush ha fatto dell’eliminazione del terrorismo un presupposto
per la nascita di uno Stato palestinese. E’ stata una rivoluzione nella strategia americana. Se, in passato, gli israeliani, in cambio della pace, dovevano prima ritirarsi da certi territori, ora sono i palestinesi che, per ottenerli, devono prima dimostrare concretamente la loro volontà di pace.

Non c’è ragione di arrendersi
L’accordo mette in forse tutti questi obiettivi premiando il terrorismo, compromettendo le norme democratiche e rafforzando il dominio dittatoriale. […] E manda all’aria gli sforzi compiuti dall’America per dimostrare che il terrorismo non serve e per democratizzare la regione. Con questo accordo, i palestinesi otterrebbero enormi ricompense per la loro campagna terroristica.
Cosa ancora peggiore, verrebbero minate alle fondamenta le norme democratiche
nel solo paese che le rispetta in tutto il Medio Oriente. Il governo Sharon è statoeletto con una strepitosa vittoria affinché seguisse una politica che appare del tutto incompatibile con i presupposti dell’accordo. Ora, coloro che in quelle elezioni hanno perso cercano di capovolgerne il risultato e, insieme all’Autorità palestinese, di imporre la propria volontà invocando un appoggio internazionale all’accordo al fine di delegittimare il governo Sharon. […]
Noi crediamo che l’accordo di Ginevra avrebbe come risultato l’opposto della pace e renderebbe ancora più difficile ogni futuro compromesso. Tenendo conto delle esperienze precedenti, ci si può aspettare che Arafat si intaschi le concessioni ottenute con l’accordo e dia avvio a una nuova serie di richieste a suon di attentati terroristici. Questo accordo è il prodotto di israeliani che hanno dimenticato come si devono difendere i più essenziali interessi della nazione. […] Cosa ancora peggiore, gli israeliani di Ginevra sembrano avere perso fiducia nel futuro del proprio paese ed essersi convinti, come ha scritto Avraham Burg nel suo recente articolo "A Failed Israel Society", che il paese "stia per crollare come un fatiscente edificio di Gerusalemme".
Ma noi vediamo una società israeliana che ha eroicamente resistito contro
quel terrorismo che vuole demoralizzarci e costringerci a sacrificare i nostri più vitali interessi nazionali. Ed è proprio questo che hanno fatto i negoziatori di Ginevra: firmare un documento di resa. Dopo avere dato al mondo un esempio di forza di fronte al terrorismo, non c’è nessun motivo perché ora Israele si debba arrendere.
Emanuele Ottolenghi ci racconta la quotidianità nell'Israele di oggi che vive la sua "normalità" tra terrorismo, pioggia e scioperi, dal titolo: "Il viaggio"
Gerusalemme. Basta atterrare per rendersi conto di essere in una terra di paradossi estremi. Una volta scesi dall’aereo ci vogliono meno di venti minuti per passare il controllo passaporti e ritirare il bagaglio: l’aeroporto internazionale di Tel Aviv mostra un’efficienza che rende Fiumicino un brutto ricordo. Ma, giunti al controllo dogana si presenta una scena diversa. Da due
mesi il paese è sconvolto da scioperi selvaggi: i sindacati sono insorti contro le riforme economiche volute da Ariel Sharon e dal ministro delle Finanze, Benjamin Netanyahu, che si sono presi il compito di smantellare il pachidermico stato sociale israeliano, riducendo il settore pubblico, tagliando le pensioni, i sussidi ai disoccupati e gli assegni familiari, e abolendo privilegi antichi tra i dipendenti del settore pubblico e delle partecipazioni statali. Risultato: all’arrivo i doganieri, per protesta, controllano ogni passeggero, ogni valigia, per sensibilizzare l’opinione pubblica. L’altro giorno quest’opera di sensibilizzazione ha provocato cinque ore di coda ed è costata, insieme agli altri scioperi, un miliardo di dollari a un’economia che bene non sta. Così appare Israele: proiettato nel futuro dell’efficienza, della modernizzazione e dell’innovazione, ma prigioniero del passato. Ma le riforme economiche sono inevitabili. Gli Stati Uniti non avrebbero concesso le garanzie di prestito, e le maggiori banche internazionali avrebbero abbassato ulteriormente il rating. In una difficoltà economica quale quella in cui versa il paese, anche un governo laburista avrebbe fatto altrettanto. La povertà colpisce. I dati statistici dicono che il peggio sembra esser passato, ma la gente non sta bene. Ci sono anche segnali di ripresa: le banche hanno registrato un forte profitto, segno che i cittadini hanno ricominciato a pagare debiti, mutui e ipoteche. Anche l’economia tira di più e il mondo finanziario, che sostiene le riforme economiche, sembra aver assorbito lo shock del terrorismo. Anche a quel tipo di incertezza si abituano i mercati. Molti si chiedono se si abituerà mai la gente. Resistere al terrorismo si può, soffrire un po’ la fame si può, tutti e due insieme forse è troppo. Ecco perché in tanti si illudono che gli accordi di Ginevra offrano una via d’uscita.

L’importanza della pioggia
Tre eventi dominano le pagine dei giornali: il terrorismo palestinese, gli accordi di Ginevra, la pioggia. In una regione dove il deserto avanza e la popolazione cresce, la pioggia ha ancora un significato quasi religioso. Siccità non vuol dire soltanto razionamento, significa impossibilità di adempiere alcune clausole del trattato di pace con la Giordania, come il trasferimento di ingenti risorse idriche da Israele al regno hashemita; significa mettere a rischio le falde acquifere; significa una recrudescenza del conflitto coi palestinesi, costretti a condividere l’acqua con gli israeliani; significa investire in costosi impianti di desalinizzazione; significa salvaguardare il rapporto diplomatico con la Turchia, che potrebbe vendere
acqua in cambio di tecnologia militare. L’acqua qui è specchio delle asperità e dell’estremismo che caratterizza questi luoghi. Qui non piove, diluvia, nel senso biblico. Il deserto non trattiene nulla: enormi masse d’acqua si precipitano verso il Mar Morto attraverso canali e greti, travolgendo tutto ciò
che incontrano, compreso un autobus di studenti, che l’altro giorno hanno rischiato di annegare. Anche questo è Israele. Poi c’è il terrorismo palestinese, che continua a cercare le sue vittime. Due terroristi sono stati bloccati mercoledì. Uno voleva colpire un centro commerciale a Bet Shean, l’altro doveva farsi saltare in aria in una scuola di Yokne’am. Giovedì i draconiani controlli di frontiera israeliana, che sono oggetto di protesta di tante oltraggiate coscienze, hanno bloccato una macchina diretta a Gerusalemme Est, carica di esplosivi. E in Cisgiordania una soffiata ha permesso di scoprire una cintura con dieci chili di esplosivo, pronta a essere indossata e
innescata. Di questo nessuno ha detto nulla a Ginevra. Jimmy Carter ha tuonato contro gli insediamenti e i palestinesi si sono scagliati contro Israele. Gli israeliani sono stati gli unici a usare un tono conciliante e a parlare di pace. Speranze per gli uni, recriminazioni per gli altri. Per fortuna che Ginevra rimane un accordo virtuale. Il testo non comporta un realistico compromesso, ma una resa israeliana di fronte al terrorismo che mette in pericolo il futuro economico e politico di Israele, la sua natura ebraica, lo costringe a cedere su tutto e non offre nulla in cambio, se non vaghe promesse non diverse da quelle date dai palestinesi a Oslo. Furono disattese allora, perché dovrebbe andare diversamente? La differenza tra i malvagi e gli stupidi è che il malvagio fa male agli altri per trarre vantaggi a se stesso, lo stupido riesce a danneggiare se stesso nell’atto di danneggiare gli altri. Yossi
Beilin, che il giorno prima della firma ginevrina ha fondato un partito di sinistra, stupido non è: l’evento lo rigetta nella mischia politica e dà nuova forza alla sinistra israeliana. Jimmy Carter stupido non è, anche se l’auspicio da lui espresso che si potesse arrivare a una soluzione finale del conflitto non offre spunti di ottimismo. Ma Massimo D’Alema? Non possiamo dire che
sia malvagio. A lui che stava in platea ad applaudire possiamo soltanto far notare l’assenza a Ginevra di un uomo che non è propriamente guerrafondaio: Shimon Peres, Nobel per la pace, non ha offerto il suo sostegno all’iniziativa. Di Israele a Ginevra mancavano governo e opposizione. Chi rappresentavano quei signori che firmavano con arroganza un documento che mette in pericolo il futuro del paese? Nessuno. Perché, che piaccia o no, in democrazia gli accordi
li firmano i governi eletti dai cittadini, non i filosofi re.
Carlo Pelanda propone invece un'originale interpretazione del significato politico della barriera, titolata "La leva segreta di Arik":
Nonostante le dichiarazioni ufficiali, il recinto di separazione tra Israele e territori ex giordani occupati è un confine definitivo. Che ha anche una funzione di sicurezza contro le infiltrazioni terroristiche, ma ovviamente non è questo il suo scopo principale. Lo sono, invece, due altre opzioni: (a) in caso di negoziato Israele avrà già disegnato i propri confini e, oltre a non farseli imporre da altri, potrà trattare in modo più rilassato quello che ne sta al di fuori; (b) senza negoziato, o con questo non credibile, potrà giocare la carta del ritiro unilaterale dai territori occupati e lasciare che i palestinesi oltre il muro, e quindi totalmente separati da Israele, si arrangino. Il secondo scenario – in base ad analisi non controllate con i think tank di Tel Aviv, molto silenziosi, ma con grandi sorrisi, su questo punto – serve a fare pressione per ottenere il primo. Il ritiro unilaterale, infatti, implicherebbe il trasferimento netto della questione palestinese dal libro dei costi e degli incubi israeliano a quello della comunità araba, Egitto e Giordania in particolare, nonché degli Stati Uniti e dell’Unione europea. Cosa
succederebbe, infatti, ai palestinesi (Cisgiordania e Gaza) se lasciati improvvisamente a se stessi e senza presidio? Amman e Il Cairo avrebbero qualche
problema ad accettare uno Stato palestinese bisognoso di tutto e intrinsecamente
instabile. E molti più guai se scoppiasse nell’area palestinese una guerra civile. Americani ed europei sarebbero forzati a creare un protettorato, sotto cosmesi Onu, esponendosi direttamente al disordine di quel territorio. In sintesi, la più potente mossa che Israele può attuare è la minaccia di trasferire la questione palestinese al resto del mondo. Come mai non lo fa subito? Appunto, perché gli altri lo temono, ma soprattutto perché non si può lasciare agli jihadisti un territorio disordinato dove potrebbero, vincendo
la guerra civile, creare un proprio caposaldo pericoloso per Israele stessa.
Quindi il ritiro unilaterale va visto come una leva segreta per costringere i Paesi arabi dei dintorni e gli americani a far emergere una leadership palestinese di migliore qualità, capace di controllare il proprio sistema e di essere interlocutore credibile. Il punto: o gli altri si impegnano sul serio a bonificare la palude palestinese o Israele gliela scarica. C’è ammirazione nei think tank occidentalisti per il concetto di "muro portatore di pace" se veramente così elaborato dai sorridenti colleghi israeliani. Anche per un’innovazione strategica: i muri possono essere strumenti offensivi e non solo
difensivi. Rimarchevole.
Per finire, Simonetta della Seta parla del possibile riavvicinamento di Israele e Ue grazie all'intermediazione del Governo Italiano ne "La diplomazia":
Roma. Il primo ministro israeliano Ariel Sharon ha tenuto ieri a Gerusalemme
una riunione straordinaria per discutere le implicazioni della decisione dell’Onu di passare la questione del muro all’attenzione della Corte internazionale dell’Aia. Il premier ha ribadito che Israele ha "buone ragioni" per procedere nella costruzione, ma che le deve spiegare e diffondere meglio. Ciò non toglie che nello Stato ebraico stia crescendo una nuova consapevolezza sul fatto che l’erezione della barriera di separazione tra Israele e i territori palestinesi possa creare problemi internazionali concreti. In una riunione a porte chiuse tra israeliani e palestinesi organizzata nei giorni
scorsi a Cadenabbia, sul Lago di Como, dalla fondazione tedesca Konrad Adenauer
(legata al Cdu, il partito democristiano) e dall’Ipcri (Israel-Palestine Center
for research and Information), la questione è stata discussa a fondo da 24 rappresentanti israeliani e palestinesi, tra cui esperti di diritti umani, accademici, tecnici, ma anche funzionari del ministero degli Esteri e di quello delle Finanze di Israele, nonché uomini vicini al governo di Abu Ala. Si è parlato del segmento di muro che è in costruzione attorno a Gerusalemme, che provoca notevoli problemi umanitari ed economici ai quartieri e ai villaggi palestinesi. Il confronto, definito "molto franco e spesso non facile, ma necessario", ha portato le parti a una conclusione comune espressa in una dichiarazione che verrà presentata anche ai rispettivi governi. "Benché – ha espresso la dichiarazione – ci siano israeliani a favore della costruzione di una barriera di separazione che difenda Israele dal terrorismo e benché ci siano
palestinesi che tollererebbero tale barriera se costruita sulla linea verde, qualsiasi cambiamento territoriale venga apportato in questi giorni nell’area di Gerusalemme non serve alla sicurezza di Israele e non può essere sopportato dai palestinesi da un punto di vista economico e sociale". La nuova sensibilità israeliana sulla problematica creata dal tracciato della barriera difensiva è stata stimolata da un lungo lavoro di dialogo e di pressione fatto sia dall’Amministrazione americana, sia dalla presidenza italiana durante i mesi del semestre Ue. "Abbiamo indicato la necessità che la barriera di sicurezza non invada il territorio palestinese", ha spiegato lo stesso ministro degli Esteri, Franco Frattini, durante l’Euromed di Napoli la scorsa settimana. "E’ evidente che le ragioni di sicurezza e lotta al terrorismo sono una ragione fondamentale per lo Stato di Israele, tuttavia abbiamo indicato la necessità
che il tracciato di quella barriera di sicurezza non invada il territorio palestinese. E’ un’opinione che abbiamo in più occasioni con grande franchezza detto ai nostri amici israeliani". Fonti europee confermano che da quando l’Italia ha assunto la presidenza Ue è stata fatta una pressione continua su Israele affinché tenga conto degli aspetti umanitari palestinesi implicati nella costruzione del muro e del necessario accesso ai luoghi santi". La presidenza Ue, "pur prendendo atto che il governo israeliano asserisce a tale costruzione motivi di sicurezza su cui è difficile interloquire e del fatto che oltre l’80 per cento dell’opinione pubblica si è più volte dichiarato a favore di una barriera di difesa che prevenga gli attacchi terroristici", ha tuttavia ribadito a ogni occasione che il tracciato della barriera deve rimanere sulla linea verde, ovvero lungo il confine precedente il giugno 1967.

La disponibilità di Sharon
Il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, allineato alle conclusioni della Conferenza Affari Generali Ue del 18 novembre e della Conferenza associazione Ue- Israele del giorno successivo, ha illustrato la problematica del muro all’amico Sharon durante la sua visita a Roma negli stessi giorni. E perfino il vicepremier Gianfranco Fini, pur dichiarandosi più volte solidale con la necessità di Israele di difendersi, non ha nascosto, durante i colloqui bilaterali avuti in Israele, "forte preoccupazione per la questione umanitaria che l’erezione del muro potrà provocare", collegando il discorso anche alla situazione in cui si troveranno alcuni conventi e luoghi santi. L’Italia ha quindi riportato in diversi consessi la considerazione europea che la costruzione di un muro, capace di strozzare le aree palestinesi e confiscarne territori agricoli, sia "contraria al ripristino di un clima di fiducia tra i due popoli". "Peraltro – viene fatto notare dagli addetti ai lavori – si tratta di una posizione assolutamente parallela a quella tenuta dagli Stati Uniti negli ultimi tempi, la quale sta dando i suoi risultati". L’Italia ha inoltre,
sui luoghi santi, diritti ex antiquo, avendone più volte nella storia garantito la protezione. Su questo punto ha agito spesso in parallelo con la Santa Sede, suggerendo a Israele di trovare soluzioni concrete. "L’insistenza è stata tale – viene spiegato – che Israele ha cominciato a mostrare una certa disponibilità e anzi, due mesi fa, si è dichiarato disponibile ad avere con l’Unione europea un confronto sulla questione della barriera come ha fatto molto tempo fa
con l’Amministrazione di Bush". Il governo di Gerusalemme ha proposto di inviare subito a Bruxelles i due consiglieri più stretti di Sharon, Dov Weisglass e Amos Gilad, per un giro di consultazioni. Dall’Ue si è insistito tuttavia che fosse Sharon a ricevere a Gerusalemme l’inviato dell’Unione per il Medio Oriente, Marc Otte (boicottato invece dal premier israeliano per aver prima incontrato Arafat). Nessuno dei due incontri si è per ora verificato, ma resta la disponibilità di Israele a discutere sulla barriera con gli europei.
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