Chi sceglie le fotografie agli esteri della Stampa ? E chi scrive le didascalie ?
Testata: La Stampa Data: 05 dicembre 2003 Pagina: 6 Autore: Bill Clinton Titolo: «A Israele e Palestina serve coraggio, non altri piani di pace»
La Stampa traduce da USA Today un articolo di Bill Clinton sull'accordo di Ginevra. Niente di male,anzi. Per sette colonne l'ex-presidente americano ci ricopre di buone intenzioni,che, si sa, non costano nulla. Un colpo al cerchio e uno alla botte e sono tutti contenti. Quello che fa urlare alla manipolazione è, come sempre, il comportamento della sezione esteri del quotidiano torinese. Cosa c'entra accanto al pezzo di Clinton una fotografia, quasi più grande dell'articolo stesso, che ritrae " una donna palestinese davanti alla barriera di cemento che separa Gerusalemme Est da Abu Dis, in Cisgiordania" ? Due Osservazioni: 1) Il capo servizio esteri della Stampa non avrà mai messo piede in Israele, ma questo non giustifica la sua ignoranza. Abu Dis è Gerusalemme Est, e entrambe non sono in Cisgiordania. 2)Perchè quella foto e non , per esempio, quella di qualche ferito in un attentato palestinese ? Possibile che il 90% delle fotografie che vengono scelte sono sempre quelle che raffigurano palestinesi alle prese con le cattive azioni di Israele ? E' su questo, più che sul testo zuccheroso di Clinton, che chiediamo ai lettori di IC di scrivere alla Stampa. Nei giorni scorsi, a Ginevra, israeliani e palestinesi hanno trovato un accordo per una definizione di tutti i punti del contenzioso che da anni li divide. Nessuno dei negoziatori aveva una veste ufficiale per trattare - la parte israeliana era guidata dall'ex ministro della giustizia Yossi Beilin, quella palestinese dall'ex ministro dell'informazione dell'Autorità nazionale palestinese Yasser Abed Rabbo - sicché l’intesa non ha forza di legge. Ma il fatto in sé è importante, in quanto è un segnale incoraggiante per una regione così insanguinata dal conflitto. Dopo tre anni di intense violenze, adesso sappiamo che cosa dev’essere fatto. L’infrastruttura terroristica palestinese dev’essere completamente smantellata e l’Autorità palestinese riformata. Sull’altro fronte, Israele deve sgombrare gli avamposti, congelare l’attività delle colonie e ritirarsi dai territori occupati con i suoi insediamenti. Entrambe le parti devono cessare gli atti di provocazione. L’esperienza però ci insegna che l’obiettivo della pace in quella regione non si raggiunge con un approccio parziale, dove ognuna delle parti fa passi tangibili senza però sapere in che modo esattamente si concluderà il processo. I palestinesi devono bloccare gli estremisti che attaccano i civili israeliani, ma è difficile credere che lo faranno - per quanto moralmente necessario e politicamente essenziale - finché non vedranno una via verso la fine dell’occupazione e la realizzazione delle loro legittime aspirazioni. Israele deve fare passi per fermare l’espansione degli insediamenti e ritirarsi dai territori, ma è difficile immaginare che lo farà prima di essere certa che i palestinesi sono pronti ad accettare il suo buon diritto a esistere come Stato ebraico, libero dalla paura della violenza o di un ritorno illimitato dei profughi. Perché entrambe le parti mostrino fiducia nella promessa che le loro preoccupazioni maggiori saranno riconosciute, devono arrivare a una visione comune di come sarà la pace. Se si arriva a questo, tutto diventa più semplice: sostenere il partito della pace, isolare gli estremisti, autorizzare i moderati palestinesi a dare un giro di vite alla violenza. Obiettivi parziali, che però daranno una sferzata di energia a un processo politico che progressivamente porti alla pace. Lo ripeto: le parti possono trovare un accordo. Questa è la ragione per cui l’Intesa di Ginevra è così importante, come lo è la dichiarazione congiunta di Ami Ayalon, ex capo dei servizi segreti segreti israeliani Shin Beth, e Sari Nusseibeh, presidente dell'università palestinese al Quds di Gerusalemme. Essi hanno costruito la loro iniziativa su un decennio di negoziati, compreso il piano da me presentato nel dicembre 2000 per una soluzione negoziata permanente del conflitto mediorientale. Le linee essenziali di questi accordi, secondo recenti sondaggi, godono dell’appoggio della maggioranza delle due popolazioni. Ma sebbene la soluzione di fondo sia nota - e si ripeta nelle sue grandi linee in qualunque iniziativa di pace - ed entrambi i popoli desiderino approvarla, il processo non sembra avanzare. Tocca perciò ai cittadini israeliani e palestinesi e alla comunità internazionale creare un meccanismo capace di trasformare questo appoggio popolare in un accordo leale. Per quanto concerne gli Stati Uniti, che sono legati alla regione da vincoli morali, storici e strategici, l’impegno nel processo di pace dev’essere inflessibile e vigoroso. Noi dovremmo appoggiare in tutti i modi i cittadini israeliani e palestinesi impegnati nel cercare un accordo globale. E dovremmo esplicitare la nostra determinazione ad appoggiare, insieme alla comunità internazionale, qualunque accordo gettando sulla bilancia il nostro peso militare e politico e rassicurando le due parti sul fatto che il piano sarà attuato e la loro sicurezza garantita. Trattare ora i problemi dello status finale dei due contendenti non costituisce un premio per i terroristi. I responsabili degli uomini-bomba non vogliono una pace negoziata: vogliono un’Israele spazzata via. Non vogliono che i profughi siano ricollocati in Palestina: vogliono che sommergano Israele. Non vogliono dividere Gerusalemme: la vogliono tutta per sé. Per questo io dico che mettere fine al conflitto israele-palestinese assesterà un duro colpo ai terroristi. Per contro, ulteriori rinvii nel trattare le questioni di fondo aiuta soltanto tutti i sostenitori del terrore nella regione e nel mondo. Dettagli su un accordo finale possono differire dalle iniziative di Ginevra e di Ayalon-Nusseibeh. Ma sono anni che sappiamo che cosa va fatto per raggiungere una giusta pace. E’ arrivato il momento di costruirlo e offrirlo in dono ai popoli d’Israele e Palestina e a tutti quelli che pregano per un nuovo inizio in Medio Oriente.
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