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Il Foglio Rassegna Stampa
03.12.2003 Via i Protocolli dei Savi di Sion dalla biblioteca di Alessandria
Lettera aperta a Umberto Eco

Testata: Il Foglio
Data: 03 dicembre 2003
Pagina: 1
Autore: Carlo Panella
Titolo: «Lettera aperta a Umberto Eco»
Carlo Panella scrive a Umberto Eco affinchè possa far togliere dalla nuova biblioteca di Alessandria come testo fondamentale, insieme alla Bibbia e al Corano, I Protocolli dei Savi anziani di Sion, in modo da far chiarezza una volta per tutte su questo odioso libello antisemita che ha grande diffusione nel mondo arabo. Riportiamo il testo, che è stato pubblicato martedì 2 dicembre sul Foglio.
Gentile professor Eco, la devo informare di un episodio increscioso che, incolpevole, la riguarda, le devo poi rivolgere una preghiera e infine vorrei anche spiegarle, se mi permette, perché lei si è trovato in questa imbarazzante
situazione. Il fatto è presto detto: lei fa parte del Board of Trustees della rinata Biblioteca di Alessandria (con Suzanne Mubarak che ne è presidente, Jacques Attali, Tahar Ben Jalloun, Hanan Hasrawi e altri 25 emeriti professori), ma forse non si è reso conto di quale livello di attenzione pretende questo incarico. Vorrei prendere spunto da un piccolo episodio non del tutto chiaro avvenuto nella Biblioteca recentemente per farle una proposta e per controbattere alcune sue recenti tesi sull’antisemitismo europeo e arabo-islamico. Giorni fa un settimanale egiziano, Al Osbue, ha riportato la notizia che nella Biblioteca, sezione "museo dei manoscritti", nella stessa sala in cui sono esposte antichissime edizioni dei Vangeli e un antico testo della Torah, faceva bella mostra di sé la prima traduzione in arabo dei Protocolli dei Savi
Anziani di Sion, edita dalla casa editrice egiziana Dar el Kitab el Arabi, a opera di Maohamed Khalifa el Tonsi. Il fatto increscioso, naturalmente lei concorderà con me, non è che una biblioteca ospiti quel testo, ma che lo collochi senza distinguo o spiegazioni nella stessa sezione in cui sono ospitati due testi sacri per il cristianesimo e per l’ebraismo.

Lei che è nel Board of Trustees…
I Protocolli, come lei mi insegna, sono un falso, come è stato provato scientificamente da decenni, ed è blasfemo collocarli là dove sono stati maliziosamente inseriti. Prendiamo atto che, secondo quanto ci ha dichiarato ieri il professor Yussef Zidan, direttore di quella sezione della Biblioteca, il libro è stato ora spostato in una sala diversa, cui hanno accesso soltanto gli studiosi. Così come prendiamo atto della smentita, che lui stesso ci ha comunicato, delle dichiarazioni decisamente antisemite che la rivista Al Osbue gli ha attribuito e della curiosa notizia che ci ha fornito del fatto che la Biblioteca di Alessandria ha sentito la necessità di procurarsi più copie dei Protocolli in diverse lingue, dall’arabo all’inglese. Il professore ci ha anche detto – e questo ci ha allarmato, ha riversato una luce un po’ ambigua su tutto questo episodio – che nella Biblioteca di Alessandria non vi è nessuna dicitura, nessuna spiegazione scritta che segnali ai visitatori che i Protocolli dei Savi Anziani di Sion non sono un libro come tutti gli altri esposti, ma un testo prodotto dalla polizia segreta zarista. Qui, visto il suo ruolo nel Board of Trustees, sarebbe forse utile un suo intervento immediato,
un suo suggerimento che stimoli a colmare subito questa imbarazzante
e ipocrita lacuna. Resta comunque, al di là dell’episodio, il problema vero che nel mondo islamico i Protocolli sono la prova provata
che tutta la storia contemporanea è alterata dal "complotto ebraico",
compresa, naturalmente, la nascita dello Stato d’Israele. I Protocolli nel
mondo arabo e islamico sono considerati oro colato (negli anni Settanta un
quotidiano libanese sosteneva che erano il saggio più venduto nelle librerie)
e sicuramente in Egitto, probabilmente anche dentro la Biblioteca d’Alessandria
(non ho potuto controllare via Internet, perché il sito ufficiale in inglese
non è completo, e si limita a confermare la presenza dei Protocols of the Wise Men of Zion, senza ulteriori informazioni) fa bella mostra di sé pure la traduzione del 1968 di Shawqi Abdel Nasser, fratello del fondatore dell’attuale
regime egiziano, Gamal Abdel Nasser, edizione tra le più vendute nel mondo arabo. Lei forse, come molti in Europa, ha sottovalutato la gravità del fatto, ma la televisione privata egiziana Dream Tv, durante il Ramadan del 2002, ignorando le inutili proteste ufficiali di Israele, ha addirittura mandato in onda in prima serata e con eccezionale riscontro di pubblico un serial dal titolo: Il cavaliere senza cavallo, che altri non era se non una rilettura di tutta la storia dal 1855 al 1917 secondo la chiave interpretativa dei Protocolli. Le scrivo, dunque, per proporle di organizzare nella Biblioteca di Alessandria un convegno che spieghi al mondo arabo che i Protocolli sono quel
falso che sono. Mi pare che possa essere un uso utile, saggio e anche coraggioso
delle potenzialità che offre questa istituzione culturale. Detto questo, mi corre obbligo spiegarle che ho ben compreso la ragione di questa sua disattenzione nell’esercitare il suo ruolo di garante nella Biblioteca di Alessandria. E’ inutile che le dica che mai e poi mai potrei sospettare
in lei neanche una venatura d’indulgenza verso l’antisemitismo, la sua vita e la sua opera ne sono testimonianze esaurienti. Ma, per puro caso, proprio una decina di giorni fa, lei ha pubblicato nella sua Bustina di Minerva sull’Espresso una breve riflessione che spiega quale errore suo d’analisi sia alla base di questa disattenzione alessandrina. La sua tesi è netta: "Nel mondo arabo non esiste antisemitismo teologico, perché il Corano riconosce la tradizione dei grandi Patriarchi della Bibbia, da Abramo sino a Gesù. Nel periodo della loro espansione i musulmani sono stati abbastanza tolleranti nei confronti dei cristiani e degli ebrei, cittadini di seconda categoria: nella misura in cui pagassero le loro tasse potevano seguire la loro religione, sviluppare i loro commerci. Non essendo religioso, l’antisemitismo islamico è oggi di natura esclusivamente etnico-politica (le motivazioni religiose sono di appoggio, non di fondamento)". Poi osserva: "Per antisemitismo ‘scientifico’ intendo quello che sostiene, con argomento storico-antropologico, la superiorità della razza ariana su quella ebraica e la dottrina politica del complotto ebraico per la conquista del mondo cristiano, di cui sono massima espressione i Protocolli dei Savi Anziani di Sion. E questo è il prodotto anche della ‘intelligenzia’ laica europea". Infine aggiunge: "Anche su Internet, la maggior parte dei siti antisemiti arabi si fonda su questo antisemitismo ‘scientifico’ europeo". E’ questa una tesi tanto forte, politically correct (vi sarebbe una colpa dell’Occidente anche nel supportare l’antisemitismo di arabi più o meno innocenti e comunque vittime di una spoliazione territoriale) e di sicura presa, quanto infondata. Questa spiegazione della genesi dell’antisemitismo arabo, se appena si conosca il mondo islamico, non regge, è semplicemente falsa, ma è una tesi oggi cruciale e dannosissima perché è largamente diffusa in tutti gli strati della cultura europea e genera proprio quella polemica aspra nei confronti dello Stato di Israele su cui si innesta poi l’antisemitismo che sta percorrendo il vecchio continente. E’ infatti assolutamente falso che il mondo islamico non sia innervato da un radicale e assoluto antigiudaismo teologico, sociale e politico (è solo vero che non ha dato vita a pogrom violenti contro gli ebrei, ma gli ha fatti contro gli armeni, sin dalla metà dell’800), che si è poi mutato in odio razzista. E’ anche assolutamente falso che il conflitto israelo-palestinese sia nella sua essenza un conflitto territoriale. Le motivazioni religiose musulmane sono il fondamento, non l’appoggio, come lei sostiene, del contenzioso etnico-politico. Per questo, la mediazione politica non riesce a imporsi dal 1936 a oggi e sempre e solo per una reiterata indisponibilità di parte palestinese.

La meta-storia
Naturalmente i due corni del problema si tengono e hanno la medesima origine: si collocano infatti in un contesto culturale arabo-islamico in cui non esiste la Storia, ma solo una meta-Storia, una Storia plasmata non dai fatti, ma dalla ripetizione eterna dello schema profetico, schema in cui agli ebrei tocca una parte vile e spregevole non in quanto deicidi, ma in quanto quinte colonne dentro la umma, la pòlis musulmana, infidi alleati dei nemici del Profeta e della sua profezia. Da qui un anteolotigiudaismo islamico storico ancora più radicale, profondo, ufficiale e rivendicato di quello cristiano ed europeo. E
non emendato dai mea culpa. Tutta la narrazione coranica, la teologia islamica, ruota attorno alla vicenda politica di Maometto, inscindibile da quella religioso-etica, e in questa, il momento centrale, la svolta, l’atto di fondazione del potere temporale, la conquista del potere assoluto sulla città di Medina e quindi del primato realizzato della sua profezia accolta e condivisa dalla umma, dalla comunità, coincide proprio con lo sgozzamento a
freddo, su una fossa comune, dei 600 giudei della tribù dei Banu Quraiza
che pure si erano consegnati, senza combattere alla pietà del profeta.

La decisione di Maometto
La decisione di Maometto di spostare da Gerusalemme alla Mecca la Qibla,
cioè la direzione verso cui il musulmano è tenuto a pregare, è infatti parte di una mutazione radicale del suo atteggiamento nei confronti degli ebrei che contiene il nocciolo dell’antigiudaismo islamico. Le tre tribù ebraiche della Medina, infatti, rifiutano la Rivelazione del Profeta, proprio nel momento in cui egli era sicuro di un’accettazione pronta e totale e anche della loro disponibilità a un’alleanza fedele e spontanea contro i propri avversari arabi, i coreisciti della Mecca. Vinta la battaglia per l’egemonia politica della città, due tribù ebraiche vengono esiliate, la terza sterminata a freddo quale quinta colonna dei nemici meccani. Sorte uguale non tocca ai cristiani per un fatto concreto: sono pochi alla Mecca come alla Medina, sono individui, non sono organizzati in tribù, non influiscono per nulla sugli equilibri di potere né alla Mecca né alla Medina. Così come lo schema delle rivoluzioni del diciottesimo secolo sta alla base della politica in Europa e in America, così lo schema della presa del potere di Maometto nella prima comunità musulmana, alla Medina, fonda dunque la politica arabo-islamica e la teologia musulmana, teologia e politica che nell’Islam sono interindipendenti, inscindibili. Uno schema in cui, ab initio, l’antigiudaismo è dato fondante, tanto che il quarto califfo, Omar, decide che sia "Haram", libera cioè da giudei, tutta la penisola arabica (l’interdizione per i cristiani è limitata all’Hijiaz, sede della Mecca e della Medina). L’abbaglio sulla presupposta tolleranza islamica nei confronti dei popoli del Libro, cristiani ed ebrei, deriva da una codificazione posteriore del diritto islamico che applica il detto coranico in modo pragmatico e indubbiamente illuminato per i tempi. Il precetto del Profeta al riguardo è esplicito e illuminante: "Combattete fra quelli a cui fu data la Scrittura, coloro che non si attengono alla religione della verità. Combatteteli finché non paghino il tributo, uno per uno, umiliati" (Sura IX, verso 29). Il tributo che devono pagare ebrei e cristiani, nel diritto islamico, è la jizya, la "tassa di sottomissione", e l’"umiliazione" di cui parla il profeta va intesa in senso morale e anche politico. Essa comporta infatti il divieto di sposare una donna musulmana, di portare armi, di cavalcare un cavallo (solo islamiun mulo), e altri impedimenti e doveri, oltre a quelli che attengono ai luoghi di culto, che lo sheikh della moschea Remah della Mecca così ha sintetizzato nel 2002: "Che cedano un posto quando un musulmano desidera sedersi, che non imitino i musulmani nel modo di vestire o di parlare, che si taglino i capelli sulla fronte così da essere facilmente identificabili, che non incitino nessuno contro i musulmani, che non colpiscano mai un musulmano… Se violano queste condizioni, perderanno ogni protezione". E’ indubbio che questo status di dhimmi, protetti, è stato saggio e illuminato nel settimo secolo, è altrettanto indubbio che ha permesso una coabitazione pacifica di musulmani ed ebrei e cristiani nella società islamica sino alla caduta del califfato nel 1918 (ma non ha evitato al suo interno i pogrom, non contro gli israeliti ma contro i cristiani armeni, lungo tutta la fine dell’800 – se ne occupò persino il Congresso di Berlino – per le stesse e speculari ragioni che provocavano i pogrom russi contro gli ebrei; così come
non ha evitato il genocidio degli armeni nel 1914, genocidio che ha innanzitutto una logica califfale, islamica, non solo turca).

La divaricazione netta
Il problema dell’antigiudaismo teologico costitutivo anche della "politica" musulmana si è aperto però – e in modo drammatico – con la fine del califfato.
Gli arabi, sconfitti assieme ai turchi ai cui ordini hanno combattuto
compatti (tranne poche migliaia agli ordini degli hascemiti della Mecca), si trovano di fronte gli ebrei dhimmi che ora desiderano addirittura costruire un loro Stato in Palestina. Qui, da subito, si apre una divaricazione netta nel mondo arabo. Una parte, assolutamente minoritaria, affronta il problema posto dalla Dichiarazione Balfour e dalla possibile fondazione dello Stato di Israele in modo scevro da pregiudizio teologico, come una disputa nazional- territoriale. La direzione politica dei palestinesi, invece, così come la
maggioranza assoluta dei popoli e dei governi arabi, affronta il problema come
costituisse una violazione teologica. Legga lo statuto di Hamas, professore, e troverà espressa dalla sezione palestinese dei Fratelli musulmani (la maggiore forza politica araba transnazionale, maggioritaria anche nelle moschee italiane) in forma chiara e netta la radice teologica dell’antisemitismo islamico, la smentita più chiara del carattere nazional-territoriale del conflitto palestinese. Articolo 11: "La terra di Palestina è un deposito legale (waqf), terra islamica affidata alle generazioni dell’Islam fino al giorno della Resurrezione, non è accettabile rinunciare a nessuna parte di essa. Nessuno Stato arabo, né tutti gli Stati arabi nel loro insieme, nessun re o presidente, né tutti i re o presidenti messi assieme, nessuna organizzazione, né tutte le organizzazioni palestinesi o arabe unite, hanno il diritto di disporre o di cedere anche un singolo pezzo del territorio della Palestina, perché la Palestina è terra islamica affidata alle generazioni islamiche fino al giorno del Giudizio". Questa non è l’analisi di un’organizzazione
estremistica, è la base "teologica" condivisa da tutta la prima leadership palestinese del Gran Muftì di Gerusalemme sino al 1948, da Nasser nel 1967, è la ragione profonda per cui Yasser Arafat declina le offerte di Bill Clinton e di Ehud Barak nel 2000 e lancia l’Intifada dei terroristi-suicidi; è la ragione per cui 19 Stati arabi su 23 ancora oggi non riconoscono il diritto a esistere dello Stato di Israele; è la motivazione perenne della delegittimazione ab initio della legalità internazionale incarnata dall’Onu che nasce proprio il 29 novembre 1947 con la mozione che stabilisce la nascita dei due Stati in Palestina che viene ignorata, irrisa, negata, sino a oggi; è la ragione per cui è stato ucciso Anwar el Sadat, che aveva riconosciuto lo Stato di Israele (tra i complottatori, Ayman al Zawahiri, oggi braccio destro di Osama bin Laden); è la base statutaria dell’Olp e di quella al Fatah di Yasser Arafat che manovra i martiri assassini delle Brigate al Aqsa. Qui nasce il grande equivoco sul carattere nazionalista della lotta dei palestinesi che lei ripete e che l’Europa
non vuole comprendere. Israele, quella di Ben Gurion del 1948, come quella di Ariel Sharon del 2003, sa bene che di fronte non ha una leadership arabopalestinese che considera il contenzioso da un punto di vista nazional-territoriale, sa che questa è solo la posizione dell’ala minoritaria del suo antagonista. Questo era l’atteggiamento del clan palestinese dei Nashashibi fino al 1948, sempre sconfitto nella lotta per l’egemonia dagli Husseini del Gran Muftì; questo era l’atteggiamento di Feisal Al Hashemi, re dell’Iraq, che incontrava cordialmente Chaim Weizman negli anni Venti e concordava con
lui una spartizione della Palestina; questo era l’atteggiamento di re Abdullah di Transgiordania, fratello del re iracheno, che trattava in segreto nel 1949 con Golda Meier una pace impedita dal suo assassinio. Questa è oggi la posizione minoritaria nell’Olp di Hanna Siniora, di Hanan Ashrawi, di Abu Mazen, di Abu Ala. La posizione maggioritaria arabopalestinese, anche nelle sue componenti laiche, è invece da sempre ancorata a un pregiudizio teologico: l’indisponibilità alla trattativa con i dhimmi ebrei del possesso di una parte del "deposito legale" di Allah all’Islam della Palestina. Un’inclinazione che ha
profonde radici teologiche nell’Islam, nell’esempio del Profeta, e che è confermata dalla meta-storia musulmana. Basta leggersi lo Statuto dell’Olp per
rendersene conto.

Alcuni testi illuminanti
Si legga, professore, il memorandum pubblicato da un egregio libro edito dalla Fondazione Agnelli ("L’Islam e il dibattito sui diritti dell’uomo") in cui il regno dell’Arabia Saudita negli anni Settanta comunica formalmente alla
Lega araba e alle Nazioni Unite la sua indisponibilità a firmare e condividere la Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo. Premessa la definizione di tutte le popolazioni storiche della Palestina, fenici, amurriti, cananei, hittiti, sumeri, eccetera eccetera, quali "arabi" (una forzatura insostenibile sotto ogni profilo, ma indispensabile alla logica della meta-storia), questa è la chiave di lettura del "moderato" regno saudita: "La storia ci insegna che la venuta dei figli di Israele in Palestina nell’antichità e il massacro dei suoi legittimi abitanti, da essi perpetrato, hanno dato origine ogni volta a disordini tali da minare la pace nel mondo e provocare un intervento internazionale: dapprima l’intervento babilonese, poi quello persiano, poi quello greco con Alessandro Magno, infine quello romano. Tutti gli interventi successivi in questa regione del globo sono stati effettuati ogni volta per conto di una nuova potenza imperialista e grazie all’indebolimento della popolazione araba. Oggigiorno vediamo dunque ripetersi gli stessi avvenimenti del passato a causa delle aggressioni israeliane". E’ dunque, sempre, lo stesso schema della Medina, del Corano: i giudei sono la quinta colonna dei nemici del Profeta, allora i coreisciti della Mecca, prima e dopo i babilonesi, i greci… poi gli inglesi, oggi (ma i sauditi non hanno il coraggio neanche di dirlo), gli Stati Uniti. La storia nella visione arabo-islami ignoranca dal 1918 in poi (con forti addentellati ideologici nell’opera anteriore di al Afghani e altri pensatori, come Rahaman) è distorta da una lettura teologica e la riduce al conflitto tra l’espansione della comunità musulmana contrastata dalla quinta colonna giudaica al servizio del nemico. E’ una pseudoscienza autoctona, non importata dall’Europa, che unifica nella paranoia del complotto ebraico gli intellettuali di paesi moderati come l’Egitto, i Fratelli musulmani, la casa regnante saudita, Saddam Hussein, il Baas siriano, il presidente iraniano Mohammad Khatami (che finanzia pubblicamente Hamas), così come l’ayatollah Alì Khamenei, e arriva sino a bin Laden, in una perfetta omogeneità d’analisi. Solo
"battuti e umiliati", gli ebrei possono essere ammessi quali cittadini di
seconda classe dentro la polis musulmana. A tutt’oggi. Qui solo qui, professore, trova la limpida e orrenda coerenza del gesto e del programma del terrorista suicida palestinese. Su questo fertile terreno culturale arabo-islamico antigiudaico si innesta, negli anni Venti e Trenta del 900, il contagio dell’antisemitismo europeo. Che ne è una gradita conferma, nulla più. Il Gran Muftì di Gerusalemme e tutta la dirigenza palestinese, tutta, si
trasferiscono in Germania e lottano al fianco di Adolf Hitler non perché avversari della Gran Bretagna, ma perché condividono teologicamente i capisaldi
della sua dottrina.

Lo statuto di Hamas
C’è una corrispondenza piena tra la meta-storia sostenuta in documenti internazionali dal regno saudita e la meta- storia condivisa dai Fratelli Musulmani come da tanta parte della cultura araba. Dallo Statuto di Hamas, articolo 22: "Ormai tutti sanno che i nostri nemici, gli ebrei, hanno organizzato la Prima guerra mondiale per distruggere il califfato islamico. Il nemico ebreo ne ha approfittato finanziariamente e ha preso il controllo di molte fonti di ricchezza; ha ottenuto la Dichiarazione Balfour e ha fondato la Società delle Nazioni come strumento per dominare il mondo. Gli stessi nemici hanno organizzato la Seconda guerra mondiale nella quale sono diventati favolosamente ricchi grazie al commercio delle armi e del materiale bellico e si sono preparati a fondare il loro Stato. Hanno ordinato che fosse formata l’Organizzazione delle Nazioni Unite, con il Consiglio di sicurezza all’interno di tale Organizzazione, per mezzo del quale dominano il mondo. Nessuna
guerra è mai scoppiata senza che si trovassero le loro impronte digitali". "Ogni volta che i giudei accendono un fuoco di guerra, Allah lo spegne, gareggiano nel seminare corruzione sulla terra, ma Allah non ama i corruttori" (Corano, 5, 64). Questa follia è un prodotto contemporaneo e autoctono della teologia islamica, professore. Purtroppo. I Protocolli dei Savi Anziani di Sion, l’antisemitismo "scientifico" europeo, altri non sono per il mondo arabo che una conferma a posteriori di questo radicato e primario antigiudaismo teologico arabo-islamico. Per questo, nella Biblioteca di Alessandria, erano stati posti nella stessa sala in cui erano esposti i Vangeli e la Torah. Per questo, al mondo culturale arabo ed egiziano non
importa nulla della loro conclamata e provata falsità. I Protocolli dei Savi Anziani di Sion sono veri, per loro, perché corrispondono alla lettura maggioritaria che l’Islam, anche quello moderato, dà del ruolo degli ebrei nella Storia. A prescindere da Israele, ma confermata da Israele.
Per questo è indispensabile che anche lei, gentile professore, si impegni in una battaglia culturale in cui l’Europa obblighi il mondo arabo a uno scrutinio severo e all’abbandono della sua meta-storia, iniziando magari con il rinnegare la loro fede nei Protocolli.
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