Più faziosi che mai Valli e Ben Jelloun sul giornale dell'Ing.Carlo de Benedetti
Testata: La Repubblica Data: 01 dicembre 2003 Pagina: 1 Autore: Bernardo Valli - Tahar Ben Jelloun Titolo: «Medio Oriente, il patto per la pace - Una luce nell'odio»
Gli accordi informali fra due gruppi di persone di buona volontà che i media hanno denominato "il patto di Ginevra", e che costituiscono una indicazione articolata e dettagliata di un possibile percorso verso un vero trattato di pace fra israeliani e palestinesi, suscitano molto interesse e molte speranze fra tutti coloro che hanno a cuore la pace e la giustizia. Non vogliamo addentrarci in una analisi delle proposte, salvo segnalare: 1) che esse ricalcano in buona sostanza quanto già il governo di Ehud Barak aveva invano proposto ad Arafat, e 2) che le reazioni alle proposte sono state molto diverse sui due versanti del contenzioso: il governo israeliano ha assunto un atteggiamento fortemente critico sul piano formale della loro validità, ma da parte palestinese la reazione è stata incanalata in atti di violenza ed in minacce fisiche nei confronti dei firmatari. Bernardo Valli, nell'articolo al quale facciamo riferimento, dà ampio spazio a ragionamenti attorno a questa proposta, ma inserisce alcune sue considerazioni che costituiscono null'altro che subdola manipolazione dei lettori. A pag. 16, nella continuazione dalla prima pagina, Valli comincia affermando che "è come se il virtuale fronte della pace, occultato dal muro dell'odio e del rifiuto..." e prosegue scrivendo del "muro della paura", finendo col condannare indiscriminatamente: "La semplice idea di pace spaventa chi della guerra - del terrorismo o della repressione - ha fatto un monopolio, un mestiere, una droga". Le citazioni di stati d'animo negativi (paura, odio, rifiuto) sono associate all'idea del muro, con una chiara allusione alla barriera di difesa passiva che Israele sta costruendo per salvare la vita alla propria popolazione: il muro dell'odio e del rifiuto è solo quello non visibile che troviamo da parte araba ed arabo-palestinese, ed è il rifiuto dell'esistenza di Israele. Basta leggere libri di testo scolastici, guardare i programmi televisivi, ascoltare i sermoni del venerdi nelle moschee palestinesi e saudite e siriane per rendersene conto. E che la semplice idea della pace possa spaventare gli israeliani od un qualsiasi governo israeliano è semplicemente una clamorosa e palese falsità. Nessun governo israeliano ha mai fatto "del terrorismo e della repressione un monopolio, un mestiere, una droga". Voler attribuire ai governi israeliani, od a questo governo israeliano, una simile infamante colpa è indegno di un giornalista serio che conosca la professione e la pratichi con onestà. E che la repressione possa essere collocata sullo stesso piano concettuale del terrorismo è nuovamente un abuso del proprio mestiere, una manipolazione brutale della pubblica opinione. Valli non si smentisce in passi successivi, quando accenna ai "fili del processo di pace...naufragato" senza dire perché e per colpa di chi è naufragato, e tacendo che da quel rifiuto della pace è scaturita la violenza che da tre anni insanguina la regione.E proseguendo nella lettura troviamo la singolare affermazione che i tre punti cardine del patto di Ginevra -confini, status di Gerusalemme e soluzione del problema dei profughi palestinesi - si erano finora rivelati come impossibili. Tutti e tre erano già stati proposti dal governo israeliano ad Arafat, che aveva rifiutato il terzo, quello dei profughi, e nulla fa ritenere che lo possa accettare oggi. E allora, perché non dire le cose come sono in realtà, che cioè il rifiuto palestinese ha causato questa situazione, anziché dividere indistintamente e genericamente responsabilità che non ricadono che su una delle parti? E' scandaloso che opinioni così gravemente faziose trovino spazio su un quotidiano di prestigio che ambisce a presentarsi come equidistante ed obiettivo. Ecco il testo integrale dell'articolo. Il "patto di Ginevra" è un lampo nella buia, sanguinosa contesa tra israeliani e palestinesi. È uno sprazzo di luce che illumina la strada in fondo alla quale potrebbe esserci un0intesa. Cioè la pace. Lo sappiamo, rischia di essere un semplice miraggio, condannato a spegnersi. Non ci facciamo troppe illusioni. Ma non è il vano esercizio di un gruppo senza potere e senza legittimità non è un fatto privato. Il valore simbolico è forte. Nella storia, non tanto remota, ci sono stati esempi di minoranze, anche infime, che hanno rappresentato la ragione. Sono già significativi l’interesse che il "patto di Ginevra" ha suscitato, il dibattito politico che ha acceso, le speranze che ha dischiuso, nei due campi. È come se il virtuale fronte della pace, occultato dal muro dell’odio e del rifiuto, avesse cominciato a vibrare. Non è poco. Così come la diffidenza, i sospetti, o addirittura la colera, che il "patto" ha sollevato, tra coloro che nei due campi giudicano insormontabile quel muro della paura, lasciano intravedere l’effetto dirompente della sola prospettiva di arrivare a un accordo. La semplice idea di pace spaventa chi della guerra –del terrorismo o della repressione- ha fatto un monopolio, un mestiere, una droga. In questo senso il miraggio di Ginevra è benefico. L’accordo che oggi verrà presentato al mondo è il frutto del paziente, coraggioso lavoro compiuto ni due anni da uomini di buona volontà: ministri, deputati, militari, tuttora in servizio o che lo furono, riuniti e guidati dall’israeliano Yossi Beilin, ex ministro della Giustizia, e dal palestinese Yasser Abed Rabbo, ex ministro dell’Informazione. È l’opera di patrioti che non si rassegnano all’idea di vedere i popoli prigionieri di un inarrestabile ciclo di violenza. Ex negoziatori presenti alle ultime discussioni ufficiali tra israeliani e palestinesi a Taba, nel gennaio 2001, quegli uomini hanno ripreso ("privatamente") i fili del processo di pace iniziato nell’ottobre ’91 a Madrid, e naufragato dieci anni dopo, e sono arrivati a un accordo che, pur non avendo alcun valore ufficiale, né l’appoggio di un importante schieramento politico, offre un progetto che tende a dimostrare come la pace sia possibile. A noi piace vedere nella loro iniziativa un tentativo di rianimare l’azione di Ytzhak Rabin. Azione interrotta dal suo assassinio. Il "patto" non propone un progetto vago, elenca soluzioni concrete, minuziose su tre punti essenziali: il tracciato dei confini della Cisgiordania, vale a dire tra Israele e la Palestina; lo statuto di Gerusalemme; la questione dei profughi palestinesi. Da entrambe le parti sono state fatte rilevanti, dolorose concessioni, finora rivelatesi impossibili nella realtà. Da un lato si accetta la sovranità palestinese su una parte importante di GerusalemmeM dall’altro si rinuncia al ritorno in Israele dei profughi palestinesi. Al futuro Stato palestinese viene garantita una continuità territoriale attraverso il riconoscimento delle frontiere che seguono la Linea Verde del 1967, l’anno della Guerra dei Sei Giorni, che si concluse con l’occupazione della Striscia di Gaza e della Cisgiordania. Una forza internazionale dovrebbe vegliare sull’applicazione dell’accordo. Il quale comprende lo smantellamento di grosse colonie israeliane che sorgono nel cuore del territorio palestinese; e, in cambio, la cessione definitiva a Israele di importanti zone di Gerusalemme, come Givat Zeev a Nord, e Pisgat Zeev e Maale Adoumim a Est. Fra gli esperti cartografi che hanno disegnato i confini dei due Stati c’è un ex colonnello israeliano, Shaul Arieli, che oggi lavora nell’industria di guerra, e un ex vice ministro palestinese, Samir al-Abed. Questa abbondanza di "ex", di ministri privi di ministeri e di militari ormai in borghese, tra i negoziatori di un patto senza avvenire, stimola il sarcasmo del Jerusalem Post. Il giornale, molto vicino all’attuale governo di destra, vede nella manifestazione di oggi uno spettacolo inutile, perché i partecipanti non hanno alcun potere, né traccia di legittimità, e nocivo perché teso a screditare Ariel Sharon, a dimostrare soprattutto la sua rigidità, la sua incapacità a trattare con i palestinesi. Il giudizio non è del tutto avventato. È vero infatti che l’accordo preparato dall’israeliano Beilin (ma sostenuto da tanti altri personaggi di rilievo, da uomini come Abraham Bourg, ex presidente della Knesset, e dal generale Abraham Mitzna, ex segretario del partito laburista) dimostra che Sharon non ha il monopolio delle anime e delle menti israeliane. Società democratica, e quindi composita, quella israeliana non si identifica esclusivamente in un governo, la cui robusta maggioranza è costruita anche sull’emergenza del terrorismo. Il "patto di Ginevra" rivela, a chi non se ne fosse accorto, l’esistenza di un Israele che non si riconosce in Sharon. Che non contesta ben inteso la legittimità democratica del suo governo, ma che nel nome di quello stesso principio democratico si prende la libertà di dimostrare la possibilità di rianimare il processo di pace. L’accordo presentato oggi verrebbe probabilmente bocciato anche da una parte dei deputati dell’opposizione di sinistra israeliana. Un conflitto tanto atroce e tanto lungo scava ferite profonde e alimenta sospetti e diffidenze non facili da estinguere. Crea anche conflitti all’interno della società politica: e dubbi in quella civile. Ma l’interesse e lo slancio con cui è stata accolta l0’iniziativa di Beilin e di Rabbo, non solo in Israele, ma in tante comunità ebraiche e palestinesi nel mondo, provano quanto sia forte il desiderio di porre fine a quel dramma angoscioso. È un errore affrontare in modo manicheo il problema israelo-palestinese. La giusta scelta è trasversale. Vanno sostenuti nell’uno e nell’altro campo coloro che sono favorevoli a una convivenza. Perché questo è l’inevitabile destino dei due popoli. Puntare sulla vittoria dell’uno sull’altro equivale a un delitto. Non è sempre stato facile mantenere questa posizione. Ma oggi il "patto di Ginevra" ci aiuta. Ci aiutano il palestinese Rabbo, contro il quale i terroristi lanciano minacce (e raffiche di mitra contro la sua casa), e l’israeliano Beilin, che suscita la collera dei falchi. All’ex primo ministro francese Laurent Fabius sta a cuore Israele. Là vivono suoi congiunti. In queste ore ha ricordato a israeliani e palestinesi che, otto anni dopo la morte di Rabin, il loro avvenire è nel "patto di Ginevra". Come dargli torto, anche se per ora si tratta di un miraggio? Ben Jelloun si riconferma colmo di pregiudizi antisraeliani, anche se in questo articolo fa qualche debole critica alla parte palestinese. Si veda quando paragona il "terrorismo di Stato" a quello palestinese. In quanto alle guerre scatenate per DISTRUGGERE Israele il nostro si rammarica soltanto che gli Stati arabi avessero sopravvalutato le loro forze. Non delle loro intenzioni, ma solo che avessero sbagliato i calcoli. Lasciamo perdere poi la citazione degli ebrei morti nella Shoah che sarebbero stati 5 milioni. Evidentemente per il nostro i numeri hanno un significato relativo. Diminuiscono quando fa comodo e aumentano quando serve. Come nel caso dei "profughi" palestinesi. Povero Ben Jelloun, anche se ce la mette tutta a spacciarsi per moderato proprio non ce la fa. Ecco il suo articolo: Oggi, degli uomini di buona volontà, uomini di buona fede israeliani e palestinesi senza incarichi ufficiali, firmeranno un accordo di pace detto "accordo di Ginevra". Non è una meraviglia ma è l’unica luce scaturita da questo lungo e tragico conflitto dove l’odio è stato fecondato, dove paure e lutti sono stati numerosi. Questa iniziativa è nata dalla ragione e dall’intelligenza di gente che non accetta che la fatalità della guerra sia totale. L’orizzonte di questo conflitto è chiuso. Il "foglio di viaggio" è stato accartocciato e gettato nella spazzatura. La proposta del principe saudita Abdallah è stata ignorata dagli americani e dagli altri. I responsabili dei due campi hanno avuto il coraggio di lanciare un piano di pace fatto di concessioni, di aggiustamenti ragionevoli e soprattutto modesti, vale a dire realistici, allo scopo di mettere fine alla violenza e alle rappresaglie, alle ingiustizie e alle umiliazioni. Di mettere fine alle passioni distruttive, al terrorismo della disperazione cui risponde un terrorismo di Stato sanguinoso e condannabile quanto il primo. Da quando sono nato sento parlare di voi, a casa, per strada, nei bar. Mi sono sempre sentito dei vostri. Da qualche tempo i media di tutto il mondo riportano ogni giorno le vostre ferite, la vostra sventura e la vostra disperazione. Quando un adolescente si fa esplodere in un ristorante uccidendo altri adolescenti, mi sento nell’impossibilità di seguirvi. Quando arrivano le rappresaglie, mi sento aggredito anch’io ma sempre impotente di fronte al meccanismo dell’odio. Nel 1965 ero studente a Rabat; ricordo di aver manifestato come un imbecille contro il discorso del presidente tunisino Habib Bourguiba che esortava i palestinesi ad aderire al piano di spartizione proposto dall’Onu. Gli arabi hanno gridato allo scandalo e al tradimento. «I palestinesi non accetteranno l’esistenza dello Stato d’Israele!». Mio Dio, se i palestinesi dell’epoca avessero accettato quel piano, se avessero accettato di costituirsi in uno Stato accanto a quello di Israele, non solo avremmo evitato due guerre (1967 e 1973), ma gli israeliani non avrebbero occupato e annesso tanti territori, e in particolare la città santa di Gerusalemme. Dico questo perché i dirigenti degli Stati arabi della regione avevano sopravvalutato le loro forze e soprattutto sottovalutato la potenza della volontà israeliana di restare su una terra che pensavano di aver diritto di recuperare dopo duemila anni. Gli arabi avevano lasciato passare la passione davanti alla ragione e fatto più affidamento sul loro spirito d’improvvisazione che sulla logica. Avrebbero dovuto fare affidamento sulla realtà e sulla storia e riconoscere che la Shoah è stata una tragedia senza precedenti. Sarebbe stato un gesto elegante, tanto più che quelli che hanno mandato cinque milioni di ebrei nelle camere a gas erano tedeschi aiutati da milizie europee. Ad ogni modo, per Hitler gli arabi erano sullo stesso piano degli ebrei e se avesse vinto la guerra avrebbe massacrato anche loro. Cari amici, da quando avete evocato la Nabka (catastrofe) del giugno 1967, Israele non ha più smesso di insediare colonie di popolazione sulle vostre terre, e sta completando l’opera di colonizzazione con la costruzione di un muro che ingoia ancora altre terre che spettano a voi. Un muro di apartheid e di vergogna, ma che non si potrà abbattere se non con una pace negoziata. Secondo un sondaggio pubblicato lunedì 24 novembre scorso da una fondazione americana, ormai gli israeliani che accettano il contenuto dell’accordo di Ginevra sono il 53%, mentre a ottobre erano solo il 29%. E la stessa inchiesta ci dice che il 55, 6% della popolazione palestinese sosterrebbe l’accordo. Ovviamente gli estremisti dei due campi vi si oppongono. Non è affar loro. Lo chiamano "il tradimento di Gienvra". Naturalmente se un giorno questo accordo verrà applicato dai dirigenti ufficiali, gli estremisti che vogliono tutto e non ottengono niente saranno obbligati a prendere atto della nuova realtà, quella che darebbe spazio a due popoli con uno Stato ciascuno. Bisogna firmare quell’accordo e dare ai vostri figli un avvenire in cui la guerra e l’umiliazione saranno proscritte. Non bisogna mancare questo appuntamento con la Storia, anche se è stato organizzato da uomini che non sono al potere. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de La Repubblica. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.