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La Stampa Rassegna Stampa
01.12.2003 Trattato non governativo contro la Road Map
Prima la volevano tutti. Adesso non più. La cosa non ci pare chiara. Un commento di Fiamma Nirenstein

Testata: La Stampa
Data: 01 dicembre 2003
Pagina: 9
Autore: Fiamma Nirenstein
Titolo: «Quattro tavoli aperti nel mondo per fare l'accordo impossibile»
Riportiamo l'articolo di Fiamma Nirenstein pubblicato sulla Stampa lunedì 1 dicembre 2003 sull'"accordo di Ginevra".
Come nella famosa battuta di Totò, tutti gli uomini che sono a poppa devono correre a prua, e tutti quelli a prua a poppa. Così appare oggi, come una grande rappresentazione di speranzoso attivisimo, la scena delle numerose iniziative di pace in corso per il Medio Orinete. Con tanto di cantanti e di artisti israeliani e palestinesi, come se si trattasse della celebrazione di un trattato firmato da Stati, oggi a Ginevra viene presentato al mondo il famoso «Accordo», che un gruppo di personaggi della sinistra israeliana ha stilato con un gruppo di importanti figure dell’Autonomia Palestinese. Il governo svizzero si è preso cura dell’organizzazione e degli inviti di quella che deve essere una autentica kermesse di pace: parlano oggi Yossi Beilin e Yasser Abed Rabbo, i due architetti dell’accordo che secondo gli estensori israeliani, ma non quelli palestinesi, elimina il diritto al ritorno, principale ostacolo sulla via della pace, e che spartisce Gerusalemme e torna ai confini del ‘67.
Secondo punti di vista avversi, l’accordo è un’illecita parata di sogni e di bugie, un attacco dell’opposizione politica alla capacità di Sharon di gestire da Primo Ministro un dialogo col nemico, e quindi alla sua legittimità come leader. E secondo molti palestinesi è un tradimento da punire duramente. Per l’osservatore esterno è l’apertura di uno dei molti tavoli che in questi giorni sono stati apparecchiati per riaprire in qualche modo un processo di pace: tavoli di opposizione, come questo, o come quello delle decine di migliaia di firme raccolte dal professore palestinese Sarin Nusseibah e Ami Ayalon, ex capo del Mossad; tavoli governativi, come quello di Londra che si è concluso venerdì sera; tavoli internazionali come quello Madrid, anch’esso attivo nel weekend; tavoli segreti, come quello di Amman.
E non è finita. Emissari importanti, fra cui il maggiore è William Burns, inviato del governo americano in Medio Oriente, si incontrano vorticosamente: l’inviato ha incontratio ieri il ministro degli Esteri israeliano Silvan Shalom, il primo ministro giordano Faisal al Fayez, che a sua volta ha incontrato il primo ministro palestinese Abu Ala (Ahmad Qreia), mentre Sa’eb Erakat, il ministro palestinese per i negoziati, ha incontrato Dow Weisglass, capo di gabinetto del Primo Ministro Sharon. Perchè tutto questo? La parola d’ordine è fare, rispondere alle proprie opposizioni interne, rispondere alle accuse internazionali, accontentare Bush e l’Europa, dimostrare che la buona volontà c’è ma il nemico non vuole. Tutti spingono o tirano per un incontro fra Qureia e Sharon; mentre Arafat, che prima a seguito di molte manifestazioni e uscite minacciose sui giornali palestinesi sembrava disapprovare la partenza per Ginevra di alcuni ministri palestinesi, alla fine ha dato il permesso. E un permesso di Arafat, e come un ordine. Anche Arafat vuole fare. Quindi tutti i tavoli sono apparecchiati.
La premessa è l’insostenibile immobilità della situazione, in cui i terroristi tacciono ma arrotano i coltelli e preparano le cinture: 14 kamikaze e un’altra cinquantina di terroristi vari sono stati scoperti per strada. Sharon è fermo da troppo tempo, il suo immobilismo viene interpretato come inerzia politica, le sue uscite dei giorni scorsi sulla possibilità di sgomberare Netzarim nel cuore di Gaza può essere visto come un incoraggiamento ad Abu Ala a muoversi a sua volta, ma esprime anche l’insofferenza per i suoi capricci: l’ha anche detto, forse dovremo tentare mosse unilaterali visto che i palestinesi non vogliono parlare. Abu Ala a sua volta prepara una qualche apertura, ma ci vuole andare a muso duro per non fare la fine di Abu Mazen. Perciò proclama: «Prima dovete promettere di fermare la costruzione del recinto», ma forse si accontenterebbe, come apertura di gioco, dello sgombero degli avamposti degli insediamenti, che di fatto si prepara.
I tavoli di pace sono il coro che sottende allo svolgimento della commedia. A Londra, dove ci sono stati molti sorrisi e abbracci ma niente di fatto, si sono incontrati però il figlio di Sharon Omri e la nuova stella di Arafat, il responsabile della sicurezza Jibril Rajoub: come dire che Sharon ha parlato con Arafat per interposta persona, e forse di fronte a un caminetto britannico sono balenati i veri problemi: quanto tempo ancora Arafat deve restare dentro Mukata? Se uscisse, cosa intende fare? E, semmai, che cosa è disposto a garantire rispetto alla lotta al terrorismo? L’incontro è finito senza comunicati congiunti.
Passiamo al tavolo di Madrid, meno importante: la conferenza aveva il titolo «Una soluzione internazionale per il conflitto israelo-palestinese». La soluzione l’ha suggerita Martin Indyk, l’ex ambasciatore americano: «Israele si ritiri dai Territori, ed essi vengano posti sotto la sorveglianza internazionale». Non è stata acclamato, e i giornalisti scrivevano piuttosto di una lite furiosa fra due parlamentari israeliani, Ahmad Tibi (palestinese, membro del parlamento israeliano, ex portavoce di Arafat) e Gideon Saar. L’oggetto era ciò che Sharon chiama «recinto» e Abu Ala «muro». Tibi ha chiesto aiuto internazionale ai palestinesi per liberarsene mentre Saar spiegava che si tratta solo di una misura di indispensabile difesa contro il terrorismo e che i chilometri di muro sono solo nove su più di trecento.
La grande assente dalla discussione è stata la Road Map, che è invece il parametro ufficiale di riflessione sia di Sharon sia di Abu Ala che degli Usa e dell’Europa. Ci aveva pensato a riprenderlo in mano un altro gruppo, riunito in Giornania in silenzio il 7 e l’8 di novembre sul Mar Rosso all’hotel Marriott, un centro accademico americano che viene finanziato dal Pentagono: c’era il cervello economico di Arafat Muhammad Rashid con strateghi David Kimche e l’ex ministro laburista Ephraim Sneh. Il loro piano, una volta tanto, è una prosecuzione della Road Map riletta alla luce degli avvenimenti odierni, con la revisione della linea del recinto di sicurezza, molti sgomberi, molti «misure pratiche» per smantellare le strutture terroristiche e prevenire gli attacchi. Ma proprio qui sta il punto: perchè tutti questi tavoli in questi giorni sono apparecchiati nell’artificiale silenzio di una tesa sospensione.
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