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La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio Rassegna Stampa
25.11.2003 Fini in Israele
cronaca, analisi e commenti di oggi

Testata:La Stampa - Corriere della Sera - Il Foglio
Autore: giornalisti vari
Titolo: «Fini in Israele»
Sulla visita di Fini riprendiamo alcuni articoli significativi usciti stamattina.
Cominciamo con La Stampa, con i pezzi di Fiamma Nirenstein e Pierluigi Battista:

LA STAMPA
1) "Cade l’ultimo muro con gli ebrei italiani in Israele"
di Fiamma Nirenstein; pg.2

Colpo di scena: anche il presidente della comunità italiana David Cassuto incontrerà, dopo un lungo rifiuto, Gianfranco Fini. Lo hanno convinto i toni del suo discorso a Yad Va Shem e la sua condanna, nella risposta a una domanda di un giornalista, della repubblica di Salò. Il suo era un rifiuto di minoranza, ma significativo: e adesso, si conclude un match almeno triennale tessuto nelle biografie sofferenti degli ebrei italiani, nella storia di questa piccola dignitosa comunità di novemila persone inclusi i nipoti che non parlano italiano, ma integrata a fondo con la storia e i costumi di Israele: una comunità che ha le sue vittime di guerra e del terrorismo, i suoi contadini di kibbutz, i suoi professori, i suoi giudici, i suoi medici e architetti. Una comunità colta, con i suoi uomini di destra e quelli di Pace Adesso, con le Donne in nero e i coloni, e che, per quanto profonde siano le differenze, ha in comune lo stile, la casa: anche le due stanze del kibbutz o dell’insediamento mostrano una tenda ricamata dalla nonna, un mobile dell’Ottocento. Di solito la comunità degli ebrei italiani d’Israele è motivo di articoli sull’archeologia (anche perché hanno trasportato nel centro di Gerusalemme la sinagoga tutta intagli e oro di Conegliano Veneto), la cucina, la cultura classica. Stavolta, questi novemila immigrati e figli di immigrati sono stati oggetto sui giornali locali di acuta attenzione politica: sono pronti, in sostanza, i figli israeliani di Roma, Milano, Firenze, a stringere la mano del leader di Alleanza nazionale che ha fatto generosa ammenda, ma che resta agli occhi di molti un erede del regime che promulgò le leggi razziali? La vicenda cominciò con un diniego, quando la comunità oppose un rifiuto anche dopo la svolta di Fiuggi: addirittura, gli italiani locali chiesero a Nomi Bluementhal, responsabile esteri del Likud, di bloccare le trattative già in corso. Dopo svariate condanne del passato da parte di Fini, e una lunga intervista al quotidiano Ha’aretz, pure un’assemblea di italiani d’Israele che si riunì al Tempio italiano (a minuscola maggioranza) votò con drammatiche accuse reciproche che non era il caso di incontrare Fini. Ma era più di un anno fa: da allora di questo parere sono rimaste poche persone, perché Fini ha compiuto ancora molti passi e perché anche l’Italia in un contesto europeo molto ostile è un prezioso alleato. Il personaggio che ha mantenuto fino a ieri una sua sofferta perplessità è il presidente della Comunità, l’architetto David Cassuto. Ma, dice adesso, «il discorso di Fini a Yad Va Shem mi ha colpito per la forza della condanna della Shoah» e «comunque benissimo ha fatto Sharon a invitare una persona che rappresenta un governo impegnato nella lotta all’antisemitismo e al terrore». Cassuto fuggì da Firenze in Israele a sette anni insieme ai suoi due fratellini Daniele e Susanna, dopo che la madre e il padre, rabbino di Firenze, erano stati deportati ad Auschwitz. David, che in questi giorni porta la barba lunga in segno di lutto per il fratello stroncato da una malattia, ha sofferto sulla sua carne come molti altri italiani d’Israele le ferite della Shoah.
Sul fronte del no fino alla fine, un gruppo completamente diverso, legato alla sinistra e alle sue organizzazioni, che giudica l’incontro fra Sharon e Fini né più né meno che un’alleanza fra personaggi di estrema destra, dominati dal cinismo politico. Yossi Sarid o Yossi Beilin, rappresentanti della sinistra di riferimento anche per gli italiani, hanno fatto dichiarazioni durissime: Primo Levi, dicono, non gli avrebbe stretto la mano. «E come hanno potuto», dice Cassuto, «loro, stringere la mano a Abu Mazen che ha scritto una tesi di negazione della Shoah?». Infine viene il gruppo che ha guidato l’accettazione politica della visita: si tratta di cinquantenni, come l’avvocato Beniamino Lazar, o il professore dell’Università di Gerusalemme Sergio Della Pergola, incaricato di accogliere Fini oggi: «Quasi tutti siamo figli o nipoti di deportati e di fuggitivi, io stesso fui trasportato a piedi in Svizzera a due anni. E la cultura, il pane quotidiano della nostra giovinezza è l’antifascismo. Eppure, è indispensabile dialogare: se la controparte rilevante è pronta farlo, è benvenuta, anche perché siamo avidi di rivolgerle le nostre domande». Che saranno molte, dice Della Pergola, e difficili, ma autentiche.

2) "Fini: Salò, una pagina vergognosa della storia"
di Pierluigi Battista; pg.3

Come tanti capi di Stato e uomini di governo anche Gianfranco Fini, visitando Yad Vashem a Gerusalemme, ha indossato la kippà in segno di rispetto, ha deposto una corona di fiori, si è chiuso in raccoglimento, ha vergato parole di sdegno per «l’orrore della Shoah». Ma la visita a Gerusalemme, a differenza di tanti politici e uomini di governo di tutto il mondo, rappresenta per Fini il coronamento di una resa dei conti con il passato che impegna il leader di Alleanza Nazionale da almeno dieci anni. Ha dunque un’eco diversa, una risonanza che assume il valore di un ripudio, la condanna «dell’infamia delle leggi razziali volute dal fascismo», dove la parola «fascismo» viene pronunciata in modo inequivocabile. Le «pagine vergognose» della storia italiana deplorata da Fini includono l’arco «della discriminazione e della persecuzione degli ebrei», dal ‘38 al ‘45, compresa dunque la Repubblica di Salò. E «l’epoca del Male assoluto» di cui Fini parla comprende il nazismo ma anche il fascismo che la persecuzione anti ebraica non contrastò fino a diventarne attivamente complice nel biennio di sangue tra il 1943 e il 1945.
E’ l’ultimo strappo. La frattura con un passato personale e politico di un leader che ha compiuto il suo cursus honorum in un partito che pure quel passato lo rivendicò. E l’impegno, proiettato stavolta sull’attualità, di non permettere «mai più» che la tentazione genocida dell’anti ebraismo possa avere sfogo incontrastato. Stavolta, ed è questo l’auspicio di Fini, non per merito di pochi ed eroici Giusti che fecero l’impossibile per salvare la vita dei perseguitati ma attraverso i mezzi della politica internazionale che deve impedire l’annientamento degli ebrei d’Israele ed «evitare a un solo essere umano ciò che il nazismo riservò all’intero popolo ebraico».
Fini non ha pronunciato la parola «scusa» e non ha esplicitamente invocato «perdono». Ma «perdono», come ha detto il presidente della Comunità Ebraica italiana Amos Luzzatto, rischia di diventare parola «inflazionata», un comodo alibi per scaricare la coscienza dalle responsabilità del passato e assolvere quelle del presente. Lo stesso Luzzatto che ha accompagnato ogni passo dell’omaggio di Fini a Yad Vashem. Lo stesso Luzzatto, che Fini ha ripetutamente cercato, con un misto di ansia e di richiesta di sostegno, ogni volta che il presidente degli ebrei italiani veniva risucchiato nella caotica ressa: «Dov’è il professore?»; «Professore, l’avevamo persa di vista». Lo stesso Luzzatto che Fini ha voluto al suo fianco quando, nella Tenda della Rimembranza, il leader di An si è inchinato per collocare la corona di fiori accanto alla fiamma che arde in perpetuo, mentre dal microfono si esortava a ricordare le vittime dei «nazisti e dei loro collaboratori».
Ecco, i «collaboratori», punto doloroso e controverso della ricostruzione storica di un passato spaventoso di cui Yad Vashem porta testimonianza. Sui «collaboratori» Fini poteva apparire reticente, all’inizio del suo discorso. Ha sottolineato più le omissioni di chi, «per ignavia e viltà, per complicità e indifferenza» non fece nulla per impedire lo sterminio. Ha ricordato la «banalità del bene» di una figura eroica come Giorgio Perlasca, il «Giusto» che a Budapest rischiò ogni cosa pur di salvare quanti più ebrei possibile, l’eroe di cui per tanti anni si è dimenticata anche l’Italia democratica e antifascista perché Perlasca era un «Giusto» sui generis, difficilmente collocabile nella agiografia resistenziale, un fascista che era stato volontario nella guerra di Spagna dalla parte di Francisco Franco e che anche nel dopoguerra non rinnegherà la propria identità di uomo di destra. Fini ha deplorato chi se ne lavò le mani e disse: «Io non c’entro».
Ma la condanna per ciò che gli europei e gli italiani non fecero per rovinare anche con un solo granello di sabbia la micidiale macchina di morte della Shoah, poteva apparire reticente senza la contestuale condanna di chi non solo si murò nella propria passività, ma operò attivamente perché la soluzione finale venisse portata a compimento senza ostacoli, in un continuum storico che va dai soprusi delle leggi razziali del 1938 alla fattiva collaborazione della Rsi con l’alleato nazista. Ma questa sensazione di reticenza è venuta meno quando Fini non ha esitato a includere il fascismo nell’«epoca del Male assoluto» che ha prodotto lo sterminio degli ebrei. O ad inserire la pagina di Salò tra quelle in cui i «carnefici» hanno eseguito il loro piano di annientamento genocida. E’ un decisivo «passo avanti», come ha commentato Amos Luzzatto. Ed è anche l’unico modo per rendere credibile il collegamento che Fini istituisce tra il passato e il presente, senza timore di cadere nel sospetto di quel maquillage politico-culturale dettato dalle convenienze che Fini ha ribattezzato con formula icastica «tornacontismo».
Un legame, quello tra il passato e il presente, che impedisce di commemorare le vittime di ieri con una memoria inerte e puramente museale. Perché la «ricucitura della memoria nazionale nel segno della verità» auspicata da Fini significa continuare a vivere «con la guardia alta» il nuovo antisemitismo che si annida nella predicazione anti sionista, che si nutre di pregiudizi «razzisti» e che appare un nuovo capitolo in cui ancora una volta gli ebrei vengono uccisi in quanto ebrei, colpiti nella loro stessa esistenza, magari nell’indifferenza (tragicamente simile a quella del passato) di chi, dice Fini, «per ignoranza» nega a Israele il diritto stesso di esistere. Un nuovo furore anti ebraico che permette di affermare che «l’antisemitismo e il razzismo non appartengono a una storia chiusa». E del resto lo stesso Fini ha voluto concludere il suo intervento a Yad Vashem citando le parole di Amos Luzzatto: «Il ricordo della discriminazione, della deportazione e dello sterminio non è rivolto al passato, ma guarda al futuro ed è attuale in un tempo che, per tutti, è quello della responsabilità: "E se non ora, quando?"». Un omaggio a Primo Levi, ovviamente. Ma anche la sottolineatura di un legame tra le «pagine vergognose» del passato e l’attuale «coscienza nazionale».
Fini parla dei risultati choccanti di un sondaggio europeo in cui Israele viene demonizzata come «principale» minaccia per la pace. E allude alle sinagoghe bruciate, alle scuole ebraiche attaccate, agli stereotipi antisemiti nuovamente diffusi, alla vita degli ebrei d’Occidente messa a repentaglio, prolungamento e dilatazione di ciò che, nel Medio Oriente, costituisce minaccia stessa all’esistere dello Stato d’Israele. Da qui all’identificazione con le ragioni dello Stato d’Israele il passaggio è breve. Da qui l’esaltazione di Israele «unica democrazia, circondata da dittature feroci e teocratiche» e anche il consenso alla costruzione da parte di Israele di una «barriera» difensiva che in modo corrivo si continua a chiamare «muro». Un’identificazione che Fini ribadisce in continuazione e alla base della quale ci sono dichiarazioni mai sentite prima sulle «pagine vergognose» della Rsi e sul male assoluto di cui il fascismo è stata parte integrante. Accade questo, con lo strappo di Gerusalemme. E se gli esami non finiscono mai, la rottura con il passato non per questo risulta meno dolorosa.
Sul Corriere della Sera la cronaca di Maurizio Caprara, il commento dello storico Aurelio Lepre e l'illuminante intervista a Shimon Peres, di fatto il leader dell'opposzione, di Elisabetta Rosaspina.
CORRIERE DELLA SERA
1) "Fini in Israele condanna il fascismo e Salò"
di Maurizio Caprara; pg. 2

Presidente Fini, lei poche ore fa ha parlato di «pagine vergognose nella storia del nostro passato».
In quelle pagine, a suo avviso, rientra la Repubblica Sociale Italiana? «Rientra dal millenovecento... Rientrano certamente tutte quelle pagine relative alla discriminazione e, ancora di più, alla persecuzione nei confronti degli ebrei e, più in generale, delle minoranze. Certamente, vi rientra anche quella pagina».
Pomeriggio di ieri, hotel King David di Gerusalemme. Questa risposta, testuale, a una domanda del Corriere segna la nuova presa di distanze del fondatore di Alleanza nazionale da una tradizione del Movimento sociale che per decenni individuava in Salò un elemento della propria identità, quantomeno un oggetto di meste nostalgie. I giornalisti al seguito della prima visita di Gianfranco Fini in Israele prendono nota.
Come nella mattina, quando, davanti al museo dell’Olocausto, lo Yad Vashem, l’allievo di Giorgio Almirante ha aggiunto a una condanna delle leggi razziali, già formulata, una parola esplicita sulla loro origine.
Aveva in testa una kippà, copricapo degli ebrei praticanti. La sua esortazione a non dimenticare « l’orrore » della Shoah è stata: « Dobbiamo farlo per capire la ragione per la quale ignavia, indifferenza, complicità fecero sì che tantissimi italiani nel 1938 nulla facessero per reagire alle infami leggi razziali volute dal Fascismo».
Fascismo. Il termine che in altre occasioni era stato più oggetto di allusioni che di condanne. Ma il giudizio è stato « non tanto per chiudere i conti col passato, quanto per preparare il nostro futuro». Sul momento, il presidente delle Comunità ebraiche italiane Amos Luzzatto ha annuito. Poi, in disparte, commenta che con Fini «ogni volta ci sono piccoli passi in avanti » più tardi, diplomatico: un importante passo avanti». Fuori dall’ufficialità, a Gerusalemme si diffonde un’impressione. Nell’esprimersi sulla morte di sei milioni di persone, dopo aver attraversato il buio della sala nella quale minuscole luci ricordano il milione e mezzo di piccoli ebrei strappati alla vita dai nazisti, non era atteso che Fini si soffermasse di più sulle responsabilità del regime di Benito Mussolini, colpevole di aver avallato le deportazioni? Ariel Sharon, che nel frattempo lo riceve in ufficio per oltre un’ora, fa arrivare ai cronisti apprezzamenti per il governo italiano. Però, a un certo punto, il ministero degli Esteri rinuncia alla conferenza stampa che il suo titolare, Silvan Shalom, aveva in programma per le 14.30 con il fondatore di An. Alcuni giornalisti già sul posto vengono autorizzati ad ascoltare Fini e Shalom prima della loro colazione. Sembra una cosa più sopportata che organizzata.
È di fronte alle domande delle 15 che Fini specifica la sua esortazione mattutina a far conoscere le azioni dei «giusti» come Giorgio Perlasca e a «denunciare le pagine vergognose». «Occorre trarre insegnamento da chi, nell’epoca del male assoluto... rischiava anche la propria vita per salvare innocenti», sottolinea.
Un’inviata: «'Epoca del male assoluto': parliamo del Fascismo?». Fini: «Certo, tutto il periodo delle discriminazioni, tutto quello che abbiamo visto allo Yad Vashem. Quella era l’epoca del male assoluto».
Sono i momenti che non lasciano uguale la giornata cominciata in uno dei posti nei quali, dicono alcuni ebrei, Dio piange. Lo Yad Vashem, concentrato di documenti, immagini, testimonianze che riassumono, ecco la definizione di Fini «l’orrore della Shoah, simbolo perenne dell’abisso di infamia in cui può precipitare l’uomo che disprezza Dio».
Foto di donne pelle e ossa. Di fosse comuni. Barattoli veri di Zyklon B, il gas delle camere a gas. Nella sala più solenne, la guida Angela Polacco si era rivolta all’ospite con la formula protocollare riservata a tutti i politici stranieri in visita: «Invito il presidente Fini a ravvivare la fiamma perpetua delle memoria che ricorda gli ebrei morti per mano dei nazisti e dei loro collaboratori». Il fondatore di An, deposta una corona di fiori, ha tirato una leva. Il fuoco della memoria è salito. Poi la firma sull’albo degli ospiti, il discorso, le integrazioni del pomeriggio.
Seguite oggi, è probabile, da un’ulteriore condanna del fascismo da parte di Fini.

2)"Il caso della Rsi e tutte le spinte all’antisemitismo"
di Aurelio Lepre; pg. 2

Gianfranco Fini, dunque, è stato coerente fino in fondo e ha giudicato una pagina negativa della storia d'Italia anche la Repubblica Sociale Italiana, perché rientra anch'essa in quelle « relative alle discriminazioni e alle persecuzioni degli ebrei e delle altre minoranze».
Sul razzismo della Rsi non c'è nessun dubbio. La vicenda più tragica fu la consegna degli ebrei ai nazisti che li deportavano in Germania, ma essa fu fondata su una teorizzazione dell'antisemitismo più di f f u s a di quanto comunemente si crede. Alla « razza ebraica» nemica si accennò nel manifesto di preparazione per il congresso di Verona, redatto da Mussolini, Pavolini e Bombacci e durante il congresso, che può essere considerato l'atto costitutivo della Rsi, ci furono violente manifestazioni di antisemitismo.
Inoltre, fu lasciato spazio al maggior teorico italiano del razzismo fascista, quel Giovanni Preziosi che trovava « gocce di sangue ebraico» anche nel ministro dell'interno Guido Buffarini Guidi e che fu incaricato di stendere un progetto per la definizione dei cittadini di « sangue italiano». Infine, presso la scuola per i giovani ufficiali della Rsi, creata a Fontanellato (Parma), furono tenuti corsi di razzismo, che si concludevano con la stesura di temi deliranti, di cui sono rimasti negli archivi quelli che erano considerati i migliori.
Si potrebbe osservare che la Rsi va condannata non solo per il suo antisemitismo, ma anche per altre ragioni. Si tratterebbe di un'osservazione storicamente corretta, ma politicamente ingiusta. La presa di posizione di Fini, infatti, va apprezzata anche perché porta un ulteriore contributo alla separazione tra la riflessione e la memoria storica e le vicende politiche odierne, che sono due cose differenti, da tenere sempre distinte.

3) "Peres: An ha scelto la strada della democrazia"
di Elisabetta Rosaspina; pg.3

Il loro ultimo incontro era stata un' imboscata. A Roma, un anno e mezzo fa: l'allora ministro degli Esteri Shimon Peres si era trovato di fronte Gianfranco Fini, ancora ufficialmente boicottato da Israele, a un appuntamento con il premier Silvio Berlusconi. Sotto le telecamere aveva fatto buon viso a cattivo gioco all'inattesa partecipazione del vicepresidente del Consiglio, nonché segretario di Alleanza Nazionale. Si erano stretti la mano, si erano scambiati poche parole di circostanza. Dopodiché Peres aveva fatto sapere con diplomatico dispetto che si era trattato di una sorpresa, ma non di un affronto: in fondo l'atteggiamento del governo israeliano verso Fini stava cambiando, dopo certi suoi ripensamenti sul fascismo, sulla statura storica di Mussolini e sulle leggi razziali.
E poi An aveva collaborato all' organizzazione di una massiccia dimostrazione pro Israele a Roma. Forse quell'incontro un po' estorto, lo sapevano entrambi, sarebbe stato il prologo a un appuntamento ufficiale. Come quello di ieri, in una sala riservata della Knesset, il Parlamento israeliano a Gerusalemme.
Fini sempre come vicepremier, Peres nella nuova veste di capo dell'opposizione al governo conservatore di Ariel Sharon. Fino a pochi anni fa sarebbe stato difficile prevedere che i due avessero tante opinioni comuni, tanti argomenti da condividere: « Abbiamo avuto una buona e aperta discussione. Ci siamo ritrovati come buoni amici — dice Peres, e stavolta non per convenienza diplomatica — . Il presidente Fini è stato accolto molto amichevolmente dal governo israeliano e anche una parte della sinistra ha apprezzato il suo arrivo».

Ci volevano dieci anni di preparazione per questo viaggio?
« Molte cose sono cambiate in questi anni. Il presidente Fini ha lavorato duramente e con ottimi risultati. Siamo felici delle posizioni che ha maturato verso Israele e contro l'antisemitismo, siamo felici che il suo partito abbia scelto la strada della democrazia » .

Di che cosa avete parlato?
« Della necessità di sostenere la lotta internazionale al terrorismo, all' antisemitismo crescente e sul pericolo che tutto ciò rappresenta per il mondo intero. Abbiamo parlato dell' importanza dell' unione degli sforzi europei e americani in questa direzione » .

Come le sembra che stia andando questa tanto attesa e temuta visita?
« Fini mi è apparso molto commosso al termine della sua visita allo Yad Vashem. E poi mi ha molto colpito una sua frase in particolare. Mi è piaciuto quando mi ha raccontato che nel giorno del lutto nazionale per la morte dei carabinieri in Iraq, tanti italiani si sono riversati nelle sinagoghe di Roma per mostrare la loro solidarietà alle vittime del primo attentato a Istanbul. Avevamo anche apprezzato naturalmente le dichiarazioni di Berlusconi sull' opportunità di un nuovo Piano Marshall per questa regione. E non dimentichiamo l'aiuto che la presidenza italiana dell' Unione Europea ha dato a Israele » . I palestinesi sono rimasti sullo sfondo della conversazione, anche se Peres ha sostenuto con Fini l'importanza dell'appoggio israeliano al neonato governo di Abu Ala, « un negoziatore di prima qualità » , come lo ha definito l'ex ministro degli Esteri. Che ha impressionato il vicepremier italiano con qualche cifra: il Medio Oriente rappresenta l' 8 per cento della popolazione mondiale, il 2% dell'economia internazionale e il 65% degli attentati terroristici.
Non riportiamo molti altri articoli (La Repubblica, Il Messaggero e altri) che più o meno bene ripetono quanto già riportato oggi su Informazione Corretta.
Si distingue come sempre il Foglio, con due articoli, uno di commento e uno di analisi dei rapporti israelo-palestinesi. Li riportiamo entrambi.

IL FOGLIO
1) "Fini in Israele guarda al futuro e Berlusconi vedrà Abu Ala"
pagina 3

Gerusalemme. Il cielo tuona quando Gianfranco Fini scende dalla vettura di Stato davanti al museo di Yad Vashem, il museo della Shoà, e tuona di nuovo un’ora dopo, quando egli aziona il comando che alza la fiamma perenne che arde in ricordo dei morti, depone la corona di fiori sulla pietra nuda, si mette sull’attenti e prega. A Gerusalemme, su queste colline dolci ricoperte di pini, il cielo – si sa – ama giocare assai bene la sua parte. In questi sessanta minuti tra i due tuoni, tutto avviene, e non è quello che si pensava. Fini non è
venuto come erede pentito di Mussolini. Non rappresenta la destra europea complice del nazismo, che rientra nella storia pagando pegno. Tutto questo è alle spalle, già detto, già fatto, evocato oggi dall’ennesima "condanna netta delle infami leggi razziali volute dal fascismo". Oggi, qui, a Gerusalemme, nella tenda della rimembranza, nel monumento ai bambini ebrei della Shoà, in cui ardono nel buio spaventoso immagini riflesse di milioni di candele e una voce calda pronuncia il nome di tutti i bimbi ebrei trucidati, non è arrivato
un "erede", ma un politico che ha chiaro che cosa deve fare, da uomo di Stato, da uomo politico, qui e ora. Fini non pronuncia la parola "perdono", e si scopre, semplicemente, che nessuno in Israele gliel’aveva chiesta. Non crolla in ginocchio, come Willy Brandt nel ghetto di Varsavia trentatré anni fa. Fa altro, pronuncia un’altra parola: "impegno". Allora, solo alla fine, si capisce
che questa cerimonia non solo non è rivolta al passato, ma al futuro, diventa improvvisamente chiaro che è qualcosa di radicalmente diverso da un omaggio: è una discesa in campo – formale, solenne – a piena difesa degli ebrei e di Israele nei giorni nostri, che sono i giorni del terrorismo contro gli ebrei, che sono i giorni delle sinagoghe devastate. Gianfranco Fini, a Gerusalemme,
davanti ai morti, si impegna solennemente a difendere i vivi; si impegna a difendere il futuro degli ebrei, ben sapendo che il futuro degli ebrei è inscindibilmente intrecciato col futuro di Israele. Quando Fini termina il suo breve discorso, ricorda Giorgio Perlasca e ripete, con Primo Levi, "se non ora, quando?", a tutti è chiaro che sa bene che è obiettivo di molti Stati "spazzare via Israele dalla faccia della terra"; e vuole fare intendere, proprio qui a Yad Vashem, che lui sarà in prima fila tra quelli che lo impediranno. Questo legame inscindibile tra difesa degli ebrei e difesa d’Israele è ribadito con vigore nella denuncia dell’"antisemitismo stagnante in Europa che si maschera spesso della polemica contro il sionismo, contro Israele". Poi in conferenza stampa – per far capire che non si nasconde dietro il politically correct – Fini spiega ai corrispondenti sensibili al fascino di Yasser Arafat: "Credo che si sia fatto un grande sforzo per capire le ragioni e le posizioni dei palestinesi, ma che non si sia fatto assolutamente altrettanto per capire le ragioni di Israele". Con vigore ritorna più volte il riferimento ai Giusti: "Occorre confrontare tutta la nostra vicenda nazionale con l’azione dei Giusti, non tanto per fare i conti con la nostra coscienza, ma per costruire il presente e il futuro: anche oggi bisogna agire guardando a loro, bisogna tenere la guardia alta contro l’antisemitismo, contro l’antisionismo. Come scrivemmo
d’altronde già nel ’95 a Fiuggi". Negli incontri successivi, con il premier
Ariel Sharon e col ministro degli Esteri Silvan Shalom, di questo si discute: la dichiarazione ufficiale non va oltre le generiche speranze di ripresa del cammino della road map che fa da cortina fumogena a una serie di accordi più coperti che a loro volta fanno capire come il governo italiano stia lavorando d’intesa con le due parti per favorire il prossimo colloquio tra Sharon e
Abu Ala, di cui viene anche preannunciato un imminente incontro con Silvio Berlusconi: triangolazione concordata.

2) "Una visita, non un esame tardivo"

Tutta l’enfasi storico-retrospettiva che accompagna il viaggio di Gianfranco
Fini in Israele, forse inevitabile, ha però un sentore piuttosto provinciale.
Fini è il vicepresidente del governo europeo considerato a Gerusalemme il più equilibrato nelle questioni mediorientali. In una fase così critica per la
sopravvivenza dello Stato ebraico, mentre è in corso una offensiva terroristica
internazionale di forza ed estensione inaudite, che sceglie come pretesto proprio l’esistenza di Israele, e mentre si avvertono i segni di una ripresa dell’antisemitismo in Europa, a cominciare dalla Francia che ne fu la culla alla
fine dell’Ottocento, Israele pesa gli amici e gli avversari per come si collocano oggi, e le ascendenze e gli avi restano sullo sfondo.
In questo senso l’idea che Fini o il suo partito dovesse "passare un esame"
è solo metaforica. Con il passato razzista sono gli italiani che devono fare i
conti, non gli israeliani, e da questo punto di vista è apprezzabile la considerazione del vicepremier sulla responsabilità di chi non aiutò gli innocenti all’epoca delle leggi razziali e la sua chiara parola su Salò. La sottolineatura mediatica del profilo storico della visita, e c’è anche quello, punta sul solito drammone ideologico dell’idoneità democratica di Fini, ma ha anche l’effetto secondario, più o meno consapevole, di mettere in ombra il senso
politico attuale della visita. L’Italia non si accontenta di essere in Europa un
partner di Israele, intende condurre l’intera politica continentale a una posizione più equilibrata, che consenta all’Unione europea di partecipare effettivamente alla mediazione del "quartetto", rimuovendo le cause dalla sua attuale impotenza, che consistono nel persistente appoggio all’ala meno affidabile della dirigenza palestinese. Fini è andato a Gerusalemme per tante ragioni, e ha fatto bene a dare a questa visita anche il carattere di una sincera revisione dell’identità del suo partito. Ma per gli italiani non è una novità. Fini è "uscito dalla casa del padre, per non farvi ritorno mai più", quando la lungimiranza di Silvio Berlusconi e soprattutto il voto degli italiani gli diedero la forza di produrre una felice svolta mai rinnegata. Correva l’anno 1994.
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