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La Stampa Rassegna Stampa
24.11.2003 E' iniziata la visita di Fini in Israele
Un commento di Pigi Battista

Testata: La Stampa
Data: 24 novembre 2003
Pagina: 7
Autore: Pierluigi Battista
Titolo: «Ancora uno strappo per cancellare le ultime ombre di Salò»
Riportiamo il commento di Pierluigi Battista in occasione della visita di Fini in Israele, pubblicato sulla Stampa lunedì 24 novembre 2003 a pagina 7.
La visita di Gianfranco Fini a Gerusalemme coinciderà, sempre che la pace siglata tra gli ebrei e il partito di ascendenza missina e neofascista voglia essere duratura, con un ultimo e doloroso strappo culturale. L’omaggio alle vittime della rappresaglia nazista alle Fosse Ardeatine eppoi il pellegrinaggio ad Auschwitz sono stati dei passaggi simboli essenziali per poter accedere oggi senza polemiche nel dolore immenso custodito a Jad Vashem e le tesi di Fiuggi che hanno inaugurato la nascita di Alleanza Nazionale e l’abbandono tra le lacrime della «casa del padre» Giorgio Almirante, suonano certamente come una condanna inequivocabile dell’antisemitismo. Fini ha definito «orrore» e non «errore» l’infamia delle leggi razziali del ‘38 ma qualcosa di oscuro e di magmatico ribolle nelle vene di un partito che ha rotto con il suo passato, ha reciso il legami ideali e sentimentali con il fascismo, ha smesso di rivendicare il lascito del mussolinismo, ma che ancora accarezza una emotività ambigua con la Repubblica Sociale attraverso l’epopea residuale dei «ragazzi di Salò» che certo sbagliarono, ma sbagliarono in buona fede, con generosità patriottica, animata da un ideale di fedeltà forse mal riposto e tuttavia, secondo l’autorappresentazione ancora in auge in An, genuino, autentico, umanamente nobile. Ma da quest’ultimo vincolo con un passato politicamente ripudiato, per quanto sia pure in forme oblique eticamente rivendicato, viene e spunta totalmente la circostanza che negli anni della Rsi l’antiebraismo incrudelì, svelò la sua tragica subalternità all’alleato nazista, si fece complice di una politica di annientamento della presenza ebraica. E su questo punto gli ebrei non possono transigere, ammettere ambiguità ed edulcorazioni. Per questo resta tra gli ebrei d’Italia e di Israele un ultimo grumo di diffidenza che Fini dovrà saper sciogliere con umiltà e sincerità. Per questo, infine, anche i timidi passi a favore di Israele che pure hanno agitato la destra italiana ai tempi del Msi, sono apparsi finora inutili, deboli, poco persuasivi, balbettanti.
La lettura di un libro uscito di recente di Gianni Scipione Rossi, La destra e gli ebrei (Rubbettino Editore), dimostra che il partito, il Msi, dove Fini ha compiuto i suoi primi passi politici fino ad occuparne i vertici per poi decretarne il superamento e lo scioglimento in Alleanza Nazionale, ha vissuto al suo interno con sentimenti opposti il rapporto con gli ebrei e con Israele. Da una parte c’era la prosecuzione pura e semplice degli stereotipi antisemiti di stampo nazista ancor più che fascista, l’esaltazione delle fiamme apocalittiche in cui si consumò l’ultimo bunker di Berlino prima della vittoria degli alleati, l’invasamento culturale per il razzismo «spiritualista» di Evola, l’omaggio a scrittori (da Céline a Trieu La Rochelle) che hanno frequentato l’inferno dell’odio antisemita, il sostegno «antisionista» alla causa palestinese fin nelle sue componenti più radicali e addirittura esplicitamente terroristiche. Oppure il riduttivismo contiguo al negazionismo dell’Olocausto di Giorgio Pisanò.
Ma dall’altra parte nelle pagine di Scipione Rossi affiora la galleria di tentativi talvolta audaci ma votati al fallimento di riannodare un possibile filo con il mondo ebraico. Filippo Anfuso, ambasciatore della Rsi a Berlino, firmò nei primi Anni 60 per il Secolo d’Italia corsivi con lo pseudonimo «Davide». Giano Accame sul Borghese inviava resoconti da Tel Aviv durante la guerra dei sei giorni in cui si leggeva: «Non v’è soldato d’Israele che non abbia la sensazione di vivere sotto una pesante e continua minaccia. Ora la minaccia non viene più dal nazismo, ma dalla combinazione dei due fanatismi: il comunismo e il panarabismo». C’era Arturo Michelini che esaltava nel ’67 il «pieno diritto di difesa di Israele». O il deputato Giulio Caradonna che ripetutamente parlava d’Israele come «antemurale dell’Occidente» e che scrisse ad Almirante per coordinare un’azione al fine di «stroncare le provocazioni» degli ambienti di destra più legate al passato antisemita. Ci fu un giornale missino, L’Orologio, che si spaccò sul giudizio su Israele. Ci fu Luciano Cirri, il giornalista che creò il «Giardino dei Supplizi» che cantò: «E’ nato Israel, Israel, Israel. Ebreo errante no. Ora basta di fuggire. Hai avuto il suo odio. E’ questa la tua casa». Si tratta di vagiti, di tentativi abortiti, di rottura mai consumate fino in fondo perché troppo, in quel partito veniva riportato e identificato con il passato fascista la cui rivendicazione costituiva la stessa ragion d’essere della comunità missina. Ma si tratta di minoritarie testimonianze di una vena che soltanto con la fine dell’Msi e la nascita di An ha potuto sgorgare con meno impacci. Oggi che Fini raggiunge Israele a coronamento di un itinerario che lo impegna da almeno dieci anni, la rottura simbolica con il passato non può più conoscere remore, timidezze e zone di inespressa nostalgia. Forse si tratta di dettagli oramai inutili nella politica nazionale. Ma la sensibilità ebraica, fino a che la chiarezza non sarà totale e senza macchia, ne coglierà il carattere ancora non compiuto. A cominciare dagli ebrei italiani che hanno scelto di vivere in Israele e che hanno ancora diffidenza sulla nuova immagine di Gianfranco Fini. Un ultimo strappo, a Gerusalemme, per cancellare ogni dubbio.
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