Israele, terrorismo, Arafat, Istanbul Tre ottimi aggiornamenti del Foglio
Testata: Il Foglio Data: 21 novembre 2003 Pagina: 3 Autore: Stefanini - Ottolenghi - Panella Titolo: «L'assedio di Costantinopoli»
Il Foglio pubblica tre interessanti articoli che trattano argomenti diversi, ma con un filo conduttore comune: Israele, Turchia, gli ebrei e il terrorismo internazionale . Riportiamo:
1) "Le comunità ebraiche resistono (a fatica) in poche terre dell'Islam" di Maurizio Stefanini Nell’isola di Djerba, di fronte alla città tunisina di Gabès, c’è una comunità ebraica che fu creata nel 586 a.C. da profughi di Gerusalemme in fuga dopo la distruzione del primo Tempio da parte del babilonese Nabucodonosor. Nelle mura di una delle undici sinagoghe c’è una pietra portata dal sacro edificio, e con la grassa terra dell’isola gli artigiani ebrei fabbricano anfore per l’olio, identiche a quelle degli antichi romani, mentre l’attività tradizionale delle donne è la tessitura della lana, con cui fanno vesti identiche da 2.000 anni. Djerba è l’ultimo avanzo dell’ebraismo tunisino, ridottosi dalle 110 mila unità del 1948 a meno di 3.500. E ciò malgrado la tolleranza sia stata un fiore all’occhiello del governo di Tunisi fin da quando nel 1956 il padre della patria, Habib Bourghiba, volle l’ebreo Pierre Barouch come ministro nel primo governo dell’indipendenza. La comunità di Djerba resta se non altro un’attrattiva turistica. Ma furono proprio turisti le principali vittime del camion bomba che l’11 aprile 2002 esplose davanti alla principale sinagoga dell’isola: 14 tedeschi sui 19 morti. Rivendicazione: al Qaida. A Casablanca tra i monumenti della locale comunità ebraica c’è la seconda sinagoga più grande del mondo: inaugurata nel 1994, è intitolata all’allora re Hassan II. Suo padre, Mohammed V, si era trovato sul trono sotto protettorato francese all’epoca in cui la Francia era occupata dai tedeschi, e il regime di Vichy aveva tentato di imporgli leggi razziali ai danni degli ebrei locali: in gran parte sefarditi, discendenti di ebrei spagnoli scappati dopo l’editto di espulsione dei "re cattolici" nel 1492. Ma Mohammed V aveva fatto muro, salvandoli. Anche in Marocco dal 1948 a oggi gli ebrei si sono ridotti drasticamente: da 300 mila a 7.000. Quelli che se ne sono andati hanno potuto portare via i propri beni, e quelli rimasti hanno sempre avuto la possibilità, unica nel mondo arabo, di assumere la doppia cittadinanza marocchina e israeliana. Nel 1997 Simon Lévy, ebreo marocchino con contatti dichiarati in Israele, è stato eletto in Parlamento nelle liste del partito liberale Unione costituzionale: l’unico deputato ebreo di tutto il mondo arabo. Ma il 19 maggio 2003 cinque attentati hanno scosso Casablanca: 41 morti e oltre un centinaio di feriti. Le bombe colpiscono anche luoghi simbolo della comunità ebraica: la sede dell’Alleanza israelita marocchina, un cimitero e un ristorante. Rivendicazione: al Qaida. A Istanbul la presenza degli ebrei risale al tempo dell’Impero bizantino. La maggior parte è costituita da sefarditi espulsi nel 1492, cui l’Impero ottomano offrì asilo. Sotto il sultano gli ebrei costituiscono un "millet", una comunità autogestita con proprie leggi e tribunali, posta direttamente sotto la sovranità temporale e spirituale del Gran Rabbino. Sono gli ebrei a creare nel XVI secolo la moderna industria delle armi ottomana, ed è l’ebreo spagnolo Joseph Nassi tra 1568 e 1574 il primo ministro del sultano Selim II. Per quattro secoli le due più grosse comunità ebraiche del Mediterraneo restano quelle ottomane di Costantinopoli e Salonicco, e qui ancora nel 1910, due anni prima dell’annessione alla Grecia, gli ebrei sefarditi sono i due terzi della popolazione. Non solo sono ebrei industriali e commercianti, ma anche i due terzi degli operai, ed è da Salonicco che il socialismo inizia a diffondersi nell’Impero ottomano, nei Balcani su giornali scritti in in ladino: l’antico spagnolo degli espulsi del 1492. Gli ebrei di Salonicco verranno sterminati dai nazisti, ma 25 mila ebrei turchi restano tuttora, protetti dall’alleanza con Israele che il governo di Ankara mantiene anche quando al potere c’è, come oggi, un partito islamico.
Gli attentati alle sinagoghe e quelli di ieri Ma il 15 novembre 2003 due autobombe scoppiano di fronte a due sinagoghe di Istanbul, mentre è in corso la funzione del sabato. Tra i 23 morti e 277 feriti circa la metà sono ebrei, l’altra metà musulmani. Rivendicazione: al Qaida insieme al gruppo estremista turco Ibda-C, Fronte dei cavalieri islamici del grande Oriente. Stessa firma per l’attentato di ieri nel centro di Istanbul, non distante dal consolato d’Israele: "I nostri attacchi contro obiettivi non sono soli", avrebbe detto una voce all’agenzia di stampa turca Anatolia. Tunisia, Marocco, Turchia: sono tre degli ultimi quattro paesi islamici dove resta una comunità ebraica. Il quarto è l’Iran. Protetti dalla dinastia Pahlavi, con le vessazioni della rivoluzione khomeinista gli ebrei iraniani si sono ridotti dagli 85 mila del 1978 ai 50 mila del 1986, ai 35 mila di oggi, ma a loro la Costituzione della Repubblica islamica garantisce lo status di minoranza religiosa, con diritto a seguire il proprio diritto privato, a gestire proprie scuole e a eleggere un deputato. Ma il minimo contatto con Israele espone poi al rischio di finire sotto processo per spionaggio. In Algeria i 200 mila ebrei del 1962, anno dell’indipendenza, si sono ridotti a un centinaio scarso. I 40 mila ebrei libici sono stati tutti espulsi nel 1970, assieme agli italiani. In Siria gli ebrei si sono ridotti dai 45 mila del 1948 ai 5.000 del 1987 e ai 63 del 2001. In Iraq i 125 mila ebrei del 1948, discendenti dai deportati di Babilonia, erano ridotti a 300 nel 1987 e a 34 alla vigilia della caduta di Saddam. Ora 28, visto che sei anziani sono stati portati a Tel Aviv dall’Agenzia ebraica. Tra 1948 e 1987 gli ebrei si sono poi ridotti da 12 mila a 90 in Libano; da 61 mila a 1.200 nello Yemen; da 75 mila a 200 in Egitto. In Giordania gli ebrei sono esclusi dalla cittadinanza, in Arabia Saudita di principio addirittura dall’ingresso. In teoria, proprio in quanto "antisionista" al Qaida dovrebbe rispettare quei pochi ebrei del mondo islamico che non sono andati in Israele a "togliere le case ai palestinesi". Invece, li ha scelti come bersaglio. 2) "Abu Ala sa prendere Arafat per il borsello, non basta ma non è poco" di Emanuele Ottolenghi La visione del Medio Oriente espressa con encomiabile testardaggine dal presidente Bush – da ultimo nel suo discorso mercoledì a Londra – insiste su quattro punti: cambio di leadership e riforme democratiche in Palestina; fine di terrorismo palestinese e demonizzazione d’Israele per dimostrare che arabi e palestinesi ne riconoscono il diritto all’esistenza entro confini sicuri; democratizzazione del Medio Oriente arabo per scegliere pace e libertà e abbandonare terrore, dittatura e povertà; in quanto a Israele, congelamento degli insediamenti, rimozione di quelli illegali creati dopo il marzo 2001 e trattative sul resto una volta che i palestinesi abbiano fatto la loro parte. Alla vigilia dell’incontro tra Ariel Sharon e il neopremier palestinese Abu Ala c’è da chiedersi se i due leader possano fare qualcosa per soddisfare queste condizioni. Sharon è diviso tra le dure realtà del presente e i suoi sogni ideologici del passato. Vincitore della guerra scatenata da Yasser Arafat tre anni orsono, il premier israeliano sta però perdendo consensi causa deterioramento economico e mancanza di orizzonte politico che il pubblico sperava seguisse la guerra. Sotto pressione per il risveglio della sinistra incarnato nell’accordo di Ginevra, Sharon ha bisogno di rilanciare. Il dialogo con Abu Ala è nel suo interesse ed è probabile aspettarsi concessioni israeliane se Abu Ala saprà garantire in cambio una continuazione della relativa calma delle ultime settimane. Ma anche se Abu Ala può offrire la calma come contropartita a un allentamento delle misure di sicurezza israeliane, è difficile aspettarsi che il premier palestinese possa spingersi oltre. Abu Ala ha già perso il primo round contro Arafat e la vecchia leadership tunisina del Fatah sugli incarichi per la sicurezza. Il suo esecutivo è pieno di uomini di Arafat. Non riuscirà né a spodestare né a esautorare il vecchio leader, non cercherà d’imporre con la forza la fine dell’Intifada e non farà gesti drammatici in tema di riforme. D’altra parte, gli europei, privatamente, sono stufi di Arafat e dell’imbarazzo finanziario e politico che i palestinesi sono divenuti per l’Unione; l’opinione pubblica palestinese è stanca di sacrifici e ristrettezze, povertà e lutti, e vuole trasparenza e fine della corruzione; l’Intifada è fallita. Sul fronte diplomatico, gli americani sono a metà strada tra l’Europa e Israele: più maldisposti dell’Europa verso i palestinesi, ma con più pazienza di Sharon. Abu Ala non può far molto, ma farà tutto quel che potrà per ridurre la pressione. In questa congiuntura si apre uno spiraglio di compromesso pratico e pragmatico ancorché limitato a meccanismi distensivi su temi di sicurezza e terrorismo. Il difficile sarà tradurre anche questo delicato ma piccolo passo in un’iniziativa politica. A dare speranza alla possibilità di raggiungere un modus vivendi c’è non solo la debolezza palestinese, la fragilità israeliana e la stanchezza dell’opinione pubblica di ambo le parti, ma anche la figura del primo ministro palestinese, che con tutti i suoi limiti è interessato a raggiungere accordi vantaggiosi e quindi disposto a offrire oltre che a prendere.
Ha gestito per anni la holding dell’Olp Abu Ala non è un ideologo né tantomeno un uomo del Fatah della prima ora. Nel comitato centrale dell’Olp ci entra soltanto nel 1989. E’ un uomo d’affari, ha gestito per anni Samed, la holding dell’Olp creata per finanziare le operazioni del movimento. Uomo d’affari, certo, spregiudicato e non proprio aderente agli standard del Fondo monetario. Ma pur sempre mercante, quindi interessato a negoziare se c’è da guadagnarci. Responsabile del finanziamento dell’Olp, Abu Ala ha gestito il denaro, frutto ugualmente di operazioni oneste e meno oneste, in maniera spregiudicata e per fini politici, come quando l’Olp rimosse 700 milioni di dollari dalle banche giordane nel 1986 per protesta contro re Hussein, o quando ne iniettò 200 nelle banche tunisine, per ringraziare il regime dell’ospitalità data all’organizzazione. I soldi sono serviti anche ad aiutare "amici in difficoltà": 12 milioni al Nicaragua nel 1981, 100 a Saddam nel 1986. Non mancano le spese per conquistarsi amicizie o mettere a tacere nemici: 50 milioni furono stanziati nel 1988 alla leadership dell’Intifada nei territori in cambio di maggior docilità ai dettami dell’Olp, mentre il giornale ierosolimitano Al-Quds, di note simpatie giordane, si vide versare una modesta cifra (150.000 $) nel 1986 per aggiustare il tiro, cosa che puntualmente avvenne. Se i tempi son cambiati, non cambiano i meccanismi: negli anni 70 c’erano i proventi del traffico di droga, estorsioni, rapimenti e racket in Libano, ma c’era anche la quota delle linee aeree delle Maldive e della Guinea-Bissau, un duty free shop in Kenya e Nigeria, fattorie in Polonia e Africa orientale, proprietà immobiliari a Mayfair, Londra e tanti altri interessi commerciali e industriali ai quattro angoli della terra. Con la creazione dell’Autorità palestinese, parte dei proventi ora arrivano dal monopolio dell’Anp, proprietario di 27 società e con interessi che vanno dal cemento ai tabacchi e che garantiscono importanti introiti personali al rais e a chi gli rimane fedele. Inutile dire che a controllare questi fondi, negli anni, il ruolo principale lo ha avuto Arafat. Il rais fonda la sua indiscussa leadership sul monopolio delle risorse finanziarie che elargisce generosamente alla maniera del vecchio notabile e del capo tribù, piuttosto che di quella del dittatore, per garantirsi amicizie, corrompere i nemici comprandosene la lealtà, ma anche per mantenere il sostegno del popolo. Chi lo ha visitato a Ramallah non può non aver notato la fila giornaliera di questuanti che attendono udienza per ore e ottengono dalle sue mani un pugno di soldi di aiuti (in contanti e con buona pace dei ragionieri di Bruxelles). Gesti da satrapo bonario, che tradiscono l’acume dell’uomo. Pessimo stratega, disastroso comandante, politico privo di visione e votato alle occasioni perse, ma abile nel gestire un impero finanziario. Abu Ala è stato in passato il suo fedele esecutore. La sua preminenza politica gli deriva dall’abilità di servire con praticità la causa palestinese, abilità manifestatasi non solo nel gestirne i quattrini, ma anche nel negoziare, quando i quattrini mancavano, l’accordo di Oslo, che diede all’Olp un’insperata quanto salvifica boccata d’ossigeno monetario attraverso gli aiuti internazionali che facilitò.
I veri ostacoli difficili da rimuovere Questa qualità pragmatica faciliterà il dialogo con Sharon. Ma l’intrinseca debolezza politica di Abu Ala ne ridurrà lo spazio di manovra al di là di un possibile cessate il fuoco e rinnovo della cooperazione di sicurezza. Nulla fa quindi pensare che il premier devierà dal tracciato più del necessario, e che farà quanto possibile per non scontrarsi con Arafat. Dopo di lui non c’è nessun altro rimasto a poter prendere le redini del governo palestinese. Abu Ala conta su questo fatto per presentarsi a interlocutori israeliani e occidentali come preferibile alle alternative rimaste. Ma nessuno si faccia illusioni: il suo rapporto con Arafat rimane immutato e non sarà Abu Ala a fare le scarpe al rais. Perché grande conoscitore dei meandri finanziari palestinesi, e quindi consapevole dei grandi limiti politici che la sua posizione comporta, Abu Ala farà solo il minimo necessario: tratterà, cercherà di capitalizzare sul mese di relativa calma trascorso per ottenere da Israele qualche concessione, offrirà qualche concreto risultato ai palestinesi, circoscriverà per quanto gli è possibile l’istinto sabotatore di Arafat e manterrà la calma per quanto gli sia dato di fare. Ma gli ostacoli strutturali, cioè terrorismo, corruzione e Arafat che orchestra entrambi, rimarranno. Con tutto il suo pragmatismo, non sarà certo Abu Ala, che l’impero finanziario dell’Olp ha aiutato a creare e gestire per buon uso di Arafat, a rimuoverli. 3) "Istanbul e Kirkuk" di Carlo Panella E’ bene guardare agli attentati di Istanbul allargando il campo visivo e aggiungendo il contemporaneo attacco contro la sede del Puk a Kirkuk, nel Kurdistan, che ha causato almeno cinque morti, con una coincidenza che non può essere casuale. Jalal Talabani, leader del Puk e presidente del Consiglio nazionale iracheno, è infatti in queste ore in visita in Turchia ed è impegnato con molti ministri di Baghdad in un round di incontri con Tayyip Erdogan e il suo governo per costruire quell’asse Ankara-Baghdad che è il fulcro della nuova strategia americana. Un asse turco-iracheno che è fatto di rapporti politici, di lotta al terrorismo (il Pkk di Abdullah Ocalan, rifugiatosi nel Nord Iraq è nemico di Ankara come dei curdi iracheni Talabani e Barzani), di unificazione del maturo mercato turco (povero di petrolio, ma ricchissimo di acqua irrigua), con il futuro mercato iracheno (ricco di petrolio e apertissimo a uno sviluppo intensivo dell’agricoltura). Contro l’instabilità di un’Arabia Saudita in preda alle convulsioni dinastiche, contro la rivoluzione islamica che continua a irradiare dall’Iran khomeinista, contro le centrali terroristiche radicate nella corte saudita, nelle moschee iraniane e nelle sedi baathiste di Damasco e Beirut, Washington lavora a rafforzare un presidio democratico che ha oggi i suoi vertici ad Ankara, a Gerusalemme (in una clamorosa alleanza tra un governo islamico e uno sionista) e domani a Baghdad. Ancora una volta risalta dunque nell’azione del terrorismo islamico una notevole elaborazione strategica: la successione degli attentati di questi giorni, da Riad a Nassiriyah, da Istanbul a Kirkuk, dimostra che persegue un progetto di destabilizzazione su base regionale, che ha chiaro a quali nuovi equilibri punti Washington e che intende farli saltare, applicando esplosivo esattamente su tutti i punti di frattura possibili. Il terrorismo a Riad punta a incancrenire la disputa dinastica tra i Banu Saud, a Nassiriyah a staccare l’Italia dal nuovo impegno militare a fianco degli Stati Uniti; a Istanbul e a Kirkuk a impedire la saldatura tra il moderatismo curdo di Talabani e dei democratici iracheni e il moderatismo islamico di Erdogan. I nuovi terroristi turchi hanno poco a che fare con quelli che insanguinarono il paese negli anni 70 e che furono spazzati via dal golpe militare democratico del novembre del 1980, che ripulì in 24 mesi il paese e riconsegnò il potere agli stessi partiti democratici che aveva temporaneamente esautorato (questo eccezionale ruolo democratico dell’esercito turco in futuro non potrà replicarsi perché l’Ue ha ciecamente preteso che fosse abolito). A quanto scrive il Turkish Daily News, questi sono i principali gruppi estremisti islamici: "Il fronte dei combattenti islamici del Grande Oriente", forte di 600 militanti sotto la leadership di Salih Izzet Erdis (imprigionato nel 1998), che ha già colpito molti intellettuali cristiani e ha ucciso il famoso giornalista laico Ahmer Taner Kislali; Hezbollah, parte della "Internazionale sciita" pilotata da Teheran, con forti appoggi a Damasco e impiantato principalmente nel Kurdistan turco con alcune migliaia di militanti; "Azione Islamica", sempre d’ispirazione iraniana, anch’esso specializzato nell’esecuzione di intellettuali turchi laici e il cui leader Irfan Cagirici è stato catturato nel 1996. Le indicazioni plurime di questi giorni degli inquirenti turchi e anche del ministro degli Esteri inglese, Jack Straw, portano ad al Qaida, ma hanno tutto l’aspetto di una fragile certezza da gettare in pasto ai mass media, più che del frutto di solidi risultati investigativi e di analisi.
Le analisi smentite sulle origini del male Quel che è certo è che il radicarsi parossistico del terrorismo islamico in Turchia manda definitivamente alle ortiche le analisi correnti di area progressista, cristiana o neogollista sulla genesi del fenomeno (povertà, irredentismo, antimperialismo) e dimostra una verità opposta: il terrorismo islamico nasce, cresce e si sviluppa all’interno del mondo islamico, per abbattere i regimi islamici moderati. Il terrorismo si vuole radicare in Turchia perché è l’unico paese islamico del mondo a piena democrazia; perché è governato da un partito islamico; perché è sì alleato degli Stati Uniti e della Nato, ma in posizione indipendente, tanto che ha loro inferto gravi danni nella guerra a Saddam Hussein con il rifiuto di permettere il passaggio della quarta divisione corazzata sul suo territorio. La Turchia ha insomma portato a termine, unico esempio sul pianeta, quel modello di società che coniuga Islam, modernità e sviluppo e democrazia che era nelle aspirazioni di Anwar el Sadat (prima vittima del terrorismo islamico), ed è oggi il modello di riferimento di parte delle élite algerine (costrette a fronteggiare una guerra civile incancrenita con 900 morti nel solo 2003), del re di un Marocco devastato dagli attentati dopo le prime elezioni democratiche, del re di Giordania. Il terrorismo islamico punta a destabilizzare la Turchia, perché considera il modello islamico turco apostatico. E contro gli apostati tutto è permesso. Non è una partita giocata da un’organizzazione verticalizzata (come pare essere al Qaida nelle analisi di tanti commentatori), ma da una forte e radicata corrente politica musulmana che è minoritaria, ma che è impiantata ovunque nei paesi islamici e che riesce a produrre un numero così incredibile di terroristi suicidi che non può che avere alle spalle un contesto sociale complice e plaudente. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.