Un disegno del terrorismo islamico che l'Europa non riesce ancora a definire
Testata: Il Foglio Data: 18 novembre 2003 Pagina: 4 Autore: Carlo Panella Titolo: «Nel database di al Qaida un filo unisce i terroristi contro i tre "popoli del libro"»
Riportiamo l'articolo di Carlo Panella pubblicato sul Foglio di martedì 18 novembre 2003. Nella successione infernale degli attentati portati a segno nel corso di una settimana si può leggere di tutto, anche la più casuale delle coincidenze, ma è difficile non cogliere l’intimo legame che li unisce. Un attentato islamico contro musulmani, tanti i bambini, nel pieno del Ramadan a Riad; un attentato contro soldati italiani in missione di pace a Nassiriyah; un attentato contro ebrei turchi che pregano in due sinagoghe a Istanbul. Tre attentati, cadenzati, feroci, con una ventina e più di vittime l’uno. E’ possibile, è credibile sostenere che non facciano parte di un unico disegno strategico che ha seminato strage fra tutti e tre i "popoli del libro", musulmani, cristiani, ebrei, uniti da fanatici musulmani dalla condanna a morte per "apostasia"? E’ inutile e forse anche dannoso cercare tracce di organizzazioni verticali, di Spectre del terrorismo di tipo classico. E’ sbagliato mitizzare al Qaida come fosse un’unica centrale raffinatissima che emana ordini e li fa portare a segno, e non invece l’arcipelago terrorista che è unito solo da una strategia comune e condivisa (secondo l’islamista Gilles Kepel il termine vuol dire semplicemente "database", strumento di software che bin Laden si è fatto programmare per creare una rete larga di contatti tra organizzazioni autonome). Purtroppo l’Occidente è ancora diviso nella definizione dell’analisi del terrorismo islamico e consuma una sua tragica spaccatura sulle azioni di contrasto con una "vecchia Europa" che si attarda a vedere zona di crisi per zona di crisi: la specificità del conflitto israelo-palestinese; poi la specificità della crisi saudita, poi la specificità della situazione irachena; infine la specificità della politica turca. Invece, gli Stati Uniti, dall’11 settembre, hanno colto il profondo e intimo legame che unisce in un unico fronte tutte queste crisi, e pragmaticamente tentano di contrastarlo, non senza errori. Ora, nonostante le apparenze, l’attentato contro le sinagoghe e gli ebrei di Istanbul unifica nel sangue innocente delle vittime tutti i principali scenari di crisi. I terroristi turchi, infatti, con notevole intelligenza politica, ben sanno che ad Ankara si gioca una partita fondamentale per la sopravvivenza di Israele, esattamente come per la pacificazione e la democratizzazione non solo dell’Iraq, ma dell’intero Golfo, sanno che il caos in cui sta precipitando l’Arabia Saudita può essere controbilanciato solo da un rafforzamento della potenza regionale turca da contrastare gettando la Turchia nell’instabilità, come già fecero negli anni Settanta (analisi chiara ai terroristi islamici, ma non a quei settori della "vecchia Europa" che continuano a contrastare l’ingresso della Turchia nell’Ue e dicono, con Romano Prodi: "mamma li turchi!"). Mentre sono noti ed evidenti il ruolo che la Turchia può giocare in Mesopotamia così come le difficoltà di metterlo in atto (le vicende complesse della collaborazione militare in Iraq sono il sintomo della difficile concretizzazione di strategie politiche regionali), è poco conosciuta la funzione determinante di protezione di Israele che oggi esercita il governo di matrice islamica di Ankara. La Turchia ha sempre avuto un ruolo estremamente aperto nei confronti di Israele, tanto che – dopo avere votato contro la nascita dello Stato ebraico nel 1947 – è stato il primo – e per lunghi decenni unico – Stato islamico a riconoscere Israele sin dal 1949. Entrata nella Nato, Ankara ha sempre più intensificato la sua partnership con Gerusalemme, tanto da subentrare nel 1979 all’Iran dello scià nel garantirle il flusso degli approvvigionamenti di petrolio. Ma è con il 1996 che si consolida la svolta più importante: nel contesto creato dagli accordi di Oslo tra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Ankara e Gerusalemme annodano sempre più intensi e stretti legami di partecipazione militare ed economica e siglano anche un accordo che prevede l’addestramento israeliano di piloti, la fornitura israeliana di strumenti ad alta tecnologia per modernizzare i caccia turchi F-4 Phantom e la fornitura di carri armati. Contemporaneamente agenti del Mossad – come certifica il 9 ottobre 2003 il Turkish Daily News – intensificano ancora la loro pluridecennale collaborazione con le autorità turche nell’azione di contrasto dei terroristi curdi del Pkk: esfiltrano dalla Turchia nel Nord dell’Iraq nel corso di tutti gli anni Novanta e sono parte attiva e determinante nella cattura di Abdullah Ocalan nel 1998. Oggi, se si guarda all’agenda internazionale di Ankara, emerge a vista d’occhio l’intensità di relazioni bilaterali con molteplici scambi di visite dei ministri degli Esteri Silvan Shalom e Abdullah Gül e tantissime visite incrociate degli alti vertici militari: il 24 dicembre 2002 il capo di Stato maggiore israeliano incontra ad Ankara il suo omologo turco Hilimi Ozok; il 1° gennaio 2003 si svolgono esercitazioni navali congiunte turco-israelo-statunitensi al largo di Israele, uno scudo contro Saddam; il 22 luglio il nuovo comandante della flotta israeliana, ammiraglio Yedudua Ya’ari, incontra il suo omologo turco Bulent Alpakaya. L’intenso round diplomatico-militare ha il suo punto più alto nella visita di Stato effettuata l’8 luglio dal presidente israeliano Moshe Katsav al presidente Ahmet Necdet Sezer, e poi con la firma il 3 ottobre di un megacontratto con cui la Turchia s’impegna a vendere per i prossimi 20 anni a Israele 15 milioni di metri cubi l’anno di acqua dolce proveniente dal bacino del fiume Manavgat cui si aggiungono altri 50-60 milioni di metri cubi l’anno di acqua desalinizzata. Accordo di fondamentale importanza anche perché è siglato (come già quello del 1996 con il governo islamico di Necmettin Erbakan) con il nuovo governo islamico turco di Tayyip Erdogan. Alla luce di questi legami, l’attentato alle sinagoghe di Istanbul assume un significato ancora più sinistro e drammatico, perché colpisce il nervo scoperto di un’alleanza vitale per la difesa di Israele anche perché distrugge la speranza della comunità ebraica turca (20 mila persone) di non essere coinvolta nel conflitto israelo-palestinese, tanto che il suo leader, Bension Pinto, ancora l’11 settembre del 2003, all’uscita da un lungo incontro con il primo ministro Erdogan ha ribadito con forza di non avere parlato della crisi israeliano-palestinese: "Noi siamo cittadini turchi, parte del popolo turco. Noi non trattiamo le questioni degli altri paesi!". Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.