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La Stampa Rassegna Stampa
16.11.2003 Dalla penisola iberica ad Istanbul
500 anni di vita ebraico-musulmana

Testata: La Stampa
Data: 16 novembre 2003
Pagina: 3
Autore: Elena Loewenthal
Titolo: «Dalla Spagna della «reconquista» alle sponde del Bosforo»
Riportiamo l'articolo di Elena Loewenthal sulle radici della comunità ebraica turca pubblicato domenica 16 novembre 2003 sulla Stampa.
Non c'è luogo della Diaspora ebraica che non sia anche rifugio: come il vento sospinge e piega le spighe in un campo di grano, così il popolo d'Israele migrava lontano da chi non lo voleva, in cerca del primo approdo disposto ad accoglierlo. Questa storia lunga quasi duemila anni e un numero imprecisato di generazioni ha disegnato tortuosi arabeschi di dolori e ricordi, nostalgie e speranze, sulle carte geografiche d'ogni dove.
Se nella trama ebraica del passato ogni destinazione fu inevitabilmente anche un riparo, certo è che l'attuale Turchia e soprattutto Istanbul, lo sono state in un modo particolare, diverso da ogni altro. Non a caso, del resto, le due sinagoghe devastate ieri mattina nell'ora della prima preghiera sabbatica, portano nomi confortanti: una, la più grande di tutta la città, si chiama Newe Shalom, «dimora di pace», e l'altra Bet Israel, «casa d'Israele». Nomi che sono attestato ma anche auspicio di continuità, un po' come il confidenziale Kushta, che è la parola ebraica per dire Costantinopoli/Istanbul, che nei responsi rabbinici del XVI secolo è chiamata persino «città madre». Già intorno alla metà del XV secolo, infatti, rabbi Itzhak Sarfatti inviava da Adrianopoli in Turchia una lettera entusiasta ai suoi correligionari di Germania, Austria e Ungheria, invitandoli ad abbandonare l'ostile Europa per trovare la serenità e la sicurezza sotto le ali dell'impero ottomanno. Molti accolsero il suo invito, e così da allora accanto alla comunità di ebrei cosidetti «romanioti», cioè originariamente bizantini, si è vista radicarsi una presenza di ashkenaziti.
Eppure, la lingua più comune fra i tanti quartieri ebraici di Istanbul, ancora nella prima metà del XX secolo (quando in città c'erano più di quaranta sinagoghe), era il ladino. Non quell'impasto montanaro parlato fra un versante e l'altro delle Alpi, bensì un suo omonimo dalla vicenda tutta diversa: si tratta di un miscuglio di antico spagnolo ed ebraico, con qualche sparuta traccia di arabo. Era la lingua che gli ebrei della penisola iberica portarono con sé nel 1492 e nel 1497, quando furono cacciati prima dalla Spagna e poco dopo dal Portogallo, in nome della «limpieza de sangre» e della riconquista cattolica.
Molti di loro, a decine di migliaia, attraversarono il Mediterraneo e sbarcarono in Asia Minore. Insieme a quella lingua melodiosa che non ha pari nel cantato e nella poesia, e a tante usanze che, già vecchie di secoli, hanno continuato a tramandarsi. Come ad esempio quella di usare soltanto e rigorosamente l'olio d'oliva in cucina, destando lo stupore dei vicini turchi islamici ma anche dei loro correligionari ashkenaziti, tutti avvezzi a condire in un modo diverso.
Insieme a uomini, donne e bambini in fuga dalla Spagna arrivarono anche le idee, e i libri: già nel 1493 fu aperta a Istanbul la prima tipografia ebraica. Non molti anni dopo, spinti dalla brutta temperie europea, approdano qui anche Gershom e Eliezer Soncino, i più famosi stampatori ebrei i tutti i tempi, originari dell'omonima cittadina in provincia di Modena: fra il 1530 e il 1547 dai loro torchi di Istanbul esce una lunga serie di capolavori, ed è solo l'inizio di una florida, multiforme stagione culturale.
Istanbul è stata dunque una città rifugio pronta ad accogliere e rispettare non solo il presente e il futuro, ma anche il passato di quei profughi. Ha saputo far propria una storia che l'Europa aveva respinto in nome della sua trionfale e indemoniata pulizia etnica: le bombe suicide di ieri non sono solo l'ennesimo, abominevole rituale di morte. Sono anche lo schiaffo a quella secolaria storia di coraggio e temperanza, di rispetto e umanità, fra una sponda e l'altra del Mediterraneo.
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