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La Stampa Rassegna Stampa
11.11.2003 Cronaca di un viaggio
come si è arrivati alla visita di Fini in Israele

Testata: La Stampa
Data: 11 novembre 2003
Pagina: 7
Autore: Pierluigi Battista
Titolo: «Quel lungo percorso cominciato dieci anni fa»
A proposito della visita del vice premier Gianfranco Fini in Israele, riprendiamo l'articolo di Pierluigi Battista, pubblicato sulla Stampa martedì 11 novembre 2003.
QUELLA volta a Fiuggi, mentre si chiudeva il sipario sul Movimento Sociale e tra lacrime e strepiti nasceva ufficialmente il post-fascismo di Alleanza Nazionale, Gianfranco Fini si impuntò. E si impuntò talmente da minacciare di mandare tutto all’aria se mai qualche testardo si fosse ostinato ad attenuare, edulcorare, smorzare, svigorire il capitolo delle tesi congressuali dedicato alla condanna senza appello dell’antisemitismo che in Italia ha trovato espressione nelle leggi fasciste del ‘38. Fini si impuntò e piegò le resistenze. Lasciò capire che su quel punto non si potesse transigere. Trasmise un messaggio choc alle frange del partito che ancora, come è accaduto domenica nella manifestazione milanese, contestano il loro leader equiparando in modo dissennato il muro di Berlino con quello che sta costruendo Israele. Che ancora, come il regista Pasquale Squitieri, giudicano «blande» le leggi razziali volute dal fascismo, ricevendone in cambio la severa rampogna del Secolo d’Italia diretto dal finiano Gennaro Malgieri. Che ancora non hanno capito che la visita del prossimo 23 novembre in Israele è l’apice, la tappa conclusiva di un percorso di avvicinamento irto di ostacoli, di dolore, di risentimenti, di incredulità se non addirittura di ostilità.
Le tappe sono tutte lì, scandite secondo una disposizione cronologica coerente per sancire la pace tra gli ebrei e il partito che in Italia ha rivendicato fino al ‘95 l’eredità del fascismo. La tappa dell’omaggio alle vittime delle Fosse Ardeatine, proprio nel fuoco dello scontro elettorale per il sindaco di Roma che Fini perse contro Rutelli ma che «sdoganò» nell’elettorato il partito che era stato di Almirante. Quella di Fiuggi, che costò anche una dolorosa scissione con gli irriducibili di Rauti. La definizione dell’infamia delle leggi razziali come apocalittico «orrore» ben più grave di qualsiasi «errore» del regime fascista. La visita alla Risiera di San Sabba, luogo italiano di nefandezze e di sterminio in quanto tale e non solo stazione di transito per gli ebrei rastrellati e mandati a morire nei campi fuori d’Italia, come vorrebbe una tradizione autoconsolatoria. L’omaggio ad Auschwitz, la preghiera davanti ai luoghi della vergogna, il pellegrinaggio tra ciò che rimane delle camere a gas e dei forni crematori che furono lo strumento tecnico specialissimo per l’attuazione della Shoah. La partecipazione, tra la sparuta pattuglia di parlamentari distratti, alla proiezione in Parlamento del film Memoria sui sopravvissuti all’Olocausto. L’intervista al quotidiano israeliano Haaretz in cui Fini ha solennemente ribadito l’incompatibilità tra la destra democratica e il regime di Mussolini.
Tappe di un itinerario che sembrava, fino all’annuncio ufficiale della visita di Fini a Gerusalemme, non riuscire mai a trovare un compimento, il senso di una meta raggiunta, di un riconoscimento inequivocabile. Figurarsi la rabbia del leader di Alleanza Nazionale quando, sul finire dell’estate, è uscito il testo di un’intervista allo Spectator in cui Berlusconi dipingeva con tinte di bonarietà la natura dittatoriale e imperfettamente totalitaria del regime mussoliniano. Fini se la prese molto. «Se la poteva evitare», sibilò. Non protestò, ma si guardò bene dall’andare in Parlamento per rispondere a nome del governo alle interpellanze dell’opposizione su quell’intervista. Si sfilò, come a lasciare a Berlusconi l’onere, se non della spiegazione, per lo meno della precisazione. Rischiava di materializzarsi agli occhi di Fini il rischio di vanificare la politica di dieci anni, di compromettere per una battuta detta da un altro il filo tenue dei rapporti con la comunità ebraica italiana. Perché i problemi, negli ultimi anni, non sono mai venuti da Israele, ma dall’Italia. Con Israele, anzi, il rapporto si è via via rinsaldato. Non è sfuggita, a Gerusalemme, la coincidenza simbolica di un congresso di Alleanza Nazionale, nell’aprile del 2002, che ha abbracciato senza tentennamenti la causa dello Stato di Israele contro il terrorismo suicida mentre, a pochi chilometri di distanza, in un altro congresso, quello di Rifondazione comunista si accoglieva in trionfo il rappresentante di Arafat. E in Israele erano andati importanti ministri di Alleanza Nazionale, da Adolfo Urso a Maurizio Gasparri. Ma il cuore della diffidenza era qui, in Italia, tra gli ebrei italiani, quando presidente della comunità era Tullia Zevi ancor più di quanto non lo sia stato con Amos Luzzatto, che invece con Fini ha intrecciato un rapporto, se non di cordialità, di intesa e interesse.
Fini, dunque, sigla la pace definitiva con l’ebraismo italiano. E la sua visita a Yad Vashem, il museo di Gerusalemme che onora e custodisce la memoria dei milioni di vittime dell’Olocausto, sancirà simbolicamente il coronamento di un percorso decennale. Anche se non è solo un paradosso che la freddezza, anzi il gelo che attualmente divide l’Europa da Israele, e che si è manifestato simbolicamente nei giorni scorsi con l’improvvido sondaggio promosso dagli istituti demoscopici della Commissione europea, ha reso ancor più prezioso per Israele l’appoggio e la solidarietà di un governo amico, come quello italiano, di cui Gianfranco Fini è vicepremier. Contro il nuovo antisemitismo che si ammanta dei simboli dell’«antisionismo» e che non erige una barriera contro i veleni sparsi da chi distrugge sinagoghe e cimiteri ebraici per colpire «l’entità sionista», il governo italiano rappresenta per Israele un appoggio insperato. La visita simbolica di Fini a Gerusalemme si carica così di un significato politico europeo inimmaginabile fino a pochi anni fa.
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