Tutte le ragioni del no sull'accordo di Ginevra e del sì sulla barriera di difesa nei due articoli sul Foglio
Testata: Il Foglio Data: 05 novembre 2003 Pagina: 4 Autore: Ottolenghi - Rubin Titolo: «Opinioni su Ginevra e sul 'muro'»
Perchè l'accordo di Ginevra non può essere valido: ce lo spiega Emanuele Ottolenghi nel suo articolo pubblicato su Il Foglio di mercoledì 8 novembre 2003. Questo il titolo: "Tre ragioni per non credere alla bella cerimonia di Ginevra (Israele non ha bisogno di accordi finti)" Gli accordi di Ginevra non rappresentano una novità. Negli ultimi tre anni ci sono stati centinaia d’incontri, formali e informali, tra accademici, intellettuali, giornalisti e figure pubbliche israeliani e palestinesi. In molte occasioni vi sono stati scambi di idee e tentativi di formulare compromessi. La differenza tra Ginevra e gli altri incontri di diplomazia informale che l’hanno preceduta e che vi hanno con tutta probabilità contribuito sta semmai nella pubblicità dell’evento, suggellato ieri pubblicamente con firma a Ginevra, come se si trattasse di un vero accordo diplomatico tra governi con tutti i crismi dell’ufficialità.
Il patto presenta alcuni seri problemi Il primo, più semplice e banale, sta nella sua futilità. I governi di entrambe le parti e le loro rispettive opinioni pubbliche non si riconoscono nei suoi contenuti. In parole povere, Israele è oggi disposto a concedere molto meno di quanto offra l’accordo ai palestinesi, mentre i palestinesi si aspettano di ricevere da Israele molto di più di quanto l’accordo non concederebbe loro se fosse un vero trattato di pace e non un semplice esercizio intellettuale, come molti lo hanno definito. Il secondo problema sta nella strumentalizzazione che se ne sta facendo. Gli israeliani coinvolti nel negoziato non fanno mistero del loro desiderio di offrire l’accordo all’opinione pubblica israeliana e internazionale come un’alternativa politica al presente governo. Per quanto insistano a dire che si tratta di un legittimo esercizio intellettuale, è chiaro l’intento di scavalcare il governo israeliano. Qui esiste un problema di forma, oltre che di sostanza. Non si tratta insomma soltanto di presentare un’alternativa politica all’attuale linea adottata dal governo israeliano, cosa che l’opposizione ha non soltanto il diritto ma anche il dovere di fare. L’accordo riflette un tentativo di una forza politica sconfitta alle urne di scavalcare la volontà popolare mediante l’appoggio della comunità internazionale. Che il governo in carica non sia condizionato da questi documenti è un’acrobazia semantica. Il contenuto degli accordi mira a creare un punto di riferimento che l’esecutivo israeliano non potrà ora ignorare. Il che mostra la problematica natura dell’intera questione: governi stranieri (non soltanto la Svizzera ma di fatto anche alcuni membri dell’Unione europea) hanno dato la loro benedizione, il loro sostegno finanziario e la loro ospitalità, indicando come per loro l’interlocutore israeliano preferito sia non il governo eletto dal popolo e le politiche sostenute dall’opinione pubblica israeliana, ma i re filosofi che, sentitisi investiti da un senso di missione e dall’urgenza della situazione conflittuale sul terreno, pensano di poter imporre le loro condivisibili speranze di pace (e i mezzi che reputano idonei per raggiungerla) alla volontà popolare. Esiste dunque un problema di fondo. Nessun governo europeo oggi sembra seriamente disposto a riconoscere le ragioni di quella fetta d’opinione pubblica israeliana che ha sconfessato la sinistra di Gerusalemme e i suoi leader, principali artefici degli accordi ginevrini. Quest’atteggiamento si è già rivelato in passato tatticamente perdente: le aperte simpatie dimostrate per Shimon Peres dall’Amministrazione Clinton nel 1996 e dall’Unione europea per Amram Mitzna nel 2003, lungi dall’aiutare i due candidati laburisti a vincere, hanno eroso ulteriormente le loro già deboli speranze di vittoria. Gli esercizi intellettuali sono naturalmente legittimi, e Svizzera e governi europei possono spendere i soldi dei loro contribuenti come credono. Ma la visibilità dell’iniziativa, la fanfara che ne accompagna la cerimoniosa firma e le speranze attribuite ai suoi contenuti mostrano come chi sostiene Ginevra non sia sensibile ai principi democratici e al fatto che la democrazia, oltre che la tragica realtà del conflitto mediorientale, rendono poco credibili i firmatari dell’accordo e poco attuabili i suoi contenuti.
Non è giusto tirare in ballo Rabin Il terzo problema sta nell’appropriazione simbolica della figura del primo ministro israeliano Itzhak Rabin, assassinato otto anni orsono, il 4 novembre 1995, da un estremista di destra israeliano. La firma degli accordi di Ginevra nel giorno della morte di Rabin indica come i firmatari vogliano presentare l’iniziativa come continuazione della edizione di Rabin alla pace e compimento della sua eredità politica. Peccato che anche Barak, quand’era primo ministro, si fosse presentato come simile erede, e le sue posizioni negoziali (confermate dalla netta condanna da lui espressa per gli accordi di Ginevra) fossero ben lontane dal testo firmato oggi sul lago Lemanno. E che persino Sharon, nel suo discorso di vittoria il 28 gennaio 2003, avesse citato Rabin suggerendo di essere lui, con la sua circospetta disponibilità a compromessi dolorosi in cambio di sicurezza, l’erede del compianto statista. Nessuno può con certezza arrogarsi quell’eredità, visto che non è dato sapere come Rabin avrebbe affrontato diplomazia e conflitto dal 1995 a oggi. Quel che si sa è che un mese prima di morire, difendendo la firma di Oslo-2 alla Knesset, Rabin chiarì che la pace per lui significava che Israele avrebbe mantenuto il controllo della Valle del Giordano e dei più importanti blocchi di insediamenti nella Cisgiordania, e non avrebbe rinunciato alla sovranità israeliana su tutta Gerusalemme. Tutte cose invece puntualmente disattese dagli accordi di Ginevra. Forse insomma nemmeno Rabin si sarebbe spinto a tanto. Il che mostra la vera natura dell’accordo: un esercizio di fantascienza politica, attuato da politici screditati e almeno per ora non rappresentativi, sostenuti da una diplomazia europea largamente ininfluente sulla scena internazionale e lontana dalla realtà, che propone soluzioni che la storia, e i diretti interessati, hanno da tempo bocciato. Riportiamo anche l'articolo di Barry Rubin sulla barriera di sicurezza e di difesa in Israele, dal titolo: "Alcune ragioni per non credere a quel che di brutto si dice del muro (Israele ha bisogno di una barriera)"
Questa l'introduzione all'articolo:
Pubblichiamo un articolo tratto dal prossimo numero di Limes, rivista di geopolitica diretta da Lucio Caracciolo, che uscirà il 7 novembre e che si intitola: "La vittoria insabbiata". Israele ha bisogno di un muro divisorio per impedire che i suoi cittadini vengano uccisi dai terroristi. Durante gli ultimi tre anni ha subìto perdite equivalenti a quelle degli attentati dell’11 settembre. Ma, stranamente, non dispone di un solido sistema di difesa lungo la frontiera con la Cisgiordania. E chi si oppone alla sua costruzione sostiene di fatto il terrorismo e nega il più elementare diritto dello Stato ebraico a proteggere i suoi cittadini. […] Il progetto attuale, più circoscritto, relativo al muro interesserà solo una piccola parte della Cisgiordania e un numero limitato di palestinesi. Ma al pari di tutte le questioni riguardanti Israele e il conflitto con i palestinesi, anche questa è avvolta in un curioso alone di mistificazioni, percezioni errate e palesi menzogne […] Ma partiamo dal principio. A quanto pare, i palestinesi vogliono un loro Stato, separato da Israele e lungo i suoi confini. Qualsiasi iniziativa che tenda a dividere i due territori è un passo in quella direzione e nei loro interessi. Ma i loro capi hanno lanciato una campagna contro il muro e in realtà anche contro l’idea di una separazione permanente proposta dall’ex primo ministro israeliano Ehud Barak. E ciò per due ragioni. La prima è che la loro strategia principale si basa sulla vulnerabilità della popolazione israeliana di fronte al terrorismo. La seconda è che l’obiettivo ultimo di Yasser Arafat è la conquista di Israele anziché la creazione di uno Stato palestinese indipendente. Quest’ultimo, egli è convinto, può essere accettato solo se non ostacola il prolungamento della lotta per ottenere l’intero territorio. Gran parte del mondo condivide il giudizio negativo sul muro, che viene dipinto in modo caricaturale come uno strumento di apartheid e persino di genocidio o come un tentativo di annessione di ampie zone della Cisgiordania. Questo è l’atteggiamento di chi pretende che l’unico problema nel Medio Oriente sia costituito dal tentativo d’Israele di difendersi, ignorando gli innumerevoli attacchi compiuti grazie alla possibilità di attraversare una frontiera praticamente aperta. Attentatori suicidi aggirano sparsi posti di controllo nascondendo esplosivi lungo il percorso senza quasi alcun rischio od ostacolo. Qualsiasi altro paese al mondo si trovasse di fronte a una situazione simile erigerebbe una barriera e nessuno gli contesterebbe questo diritto.
Dietro tutti i doppi discorsi Le critiche a Israele riguardo al muro ignorano il fatto semplice ed evidente che il suo rifiuto, all’interno del paese, proviene dalla destra, proprio perché secondo quest’ultima esso non rappresenta l’"appropriazione" del 3 per cento della Cisgiordania ma l’abbandono del 97 di quel territorio. Dietro tutti i doppi discorsi, c’è l’idea cinica che si possano ottenere maggiori consensi se chiunque risiede entro i confini di Israele si trova esposto a rischi uguali a quelli dei coloni che hanno scelto di vivere in mezzo ai Territori occupati. Ma anche dal punto vista della destra, l’opposizione al muro è un grave errore. Rafforzando le difese del paese, questa barriera infatti libera forze e risorse che l’esercito potrà concentrare per proteggere chi vive al di là di essa. E riducendo le perdite israeliane, accrescerà la sua volontà politica e la sua capacità economica di affrontare il conflitto cui è stato costretto. Sebbene il muro simboleggi la propensione di Israele a restituire, in linea di principio, la maggior parte della Cisgiordania, è chiaramente una misura temporanea contro una minaccia immediata, come dimostrano situazioni precedenti, quali ad esempio lo smantellamento di costosi sistemi difensivi – dapprima nel Sinai e poi in Cisgiordania – allorquando ciò è apparso opportuno in vista di accordi di pace o intese diplomatiche. Il muro, inoltre, non è stato costruito zelantemente per ragioni politiche, bensì con riluttanza a scopo di autodifesa. […] Nessuno vorrebbe sprecare soldi per erigere una simile barriera se non esistesse un pericolo quotidiano che rende necessaria questa scelta. Se gli attentati dei palestinesi cessassero, o anche se almeno i loro capi si sforzassero davvero di prevenirli, il progetto sarebbe immediatamente abbandonato. Al di là dei contrasti politici, molti sostengono, assurdamente, che non si tratterebbe di una difesa efficace. Ma chi non rischia la vita o non conosce bene questi problemi non dovrebbe essere ascoltato. Non stiamo parlando di un recinto di filo spinato […] ma di una solida costruzione, lungo la linea difensiva strategicamente più importante, dotata dei più moderni sensori e dispositivi elettronici di sorveglianza, che non permetterà più infiltrazioni nottetempo. Se terroristi o agenti in avanscoperta si avvicinano, i soldati di vedetta possono subito accorrere; e se qualcuno riesce a passare, scatterà un allarme e inizierà l’inseguimento. Questo sistema si è rivelato efficace lungo il perimetro della Striscia di Gaza e la frontiera col Libano. Si avvale di una tecnologia che altri paesi, come l’India, sono pronti a importare per difendere i confini. Il numero di attentati terroristici a buon fine all’interno di Israele […] si ridurrà a zero? Probabilmente no. Ma significa "semplicemente" che la stragrande maggioranza sarà sventata evitando centinaia di morti e migliaia di feriti. Nonostante le lagnanze dei dirigenti palestinesi, sarà una cosa buona anche per il loro popolo. Quanto più ridotto è il numero di attentati in Israele, tanto minore è la necessità di azioni difensive e di rappresaglia. Meno vittime israeliane significherà pertanto meno perdite anche per i palestinesi. Non solo, ma dimostrando che la strategia terroristica di Arafat ha fallito, ciò potrebbe incoraggiare questi ultimi a porre fine alla guerra in corso e a impegnarsi in seri negoziati di pace. […] Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Foglio. Cliccando sul link sottostante si aprirà una e-mail già pronta per essere compilata e spedita.