Un antidoto contro la disinformazione dei mass media europei: informare correttamente
Testata: Il Giornale Data: 05 novembre 2003 Pagina: 1 Autore: Carlo Pelanda Titolo: «Tecniche di demonizzazione»
Riportiamo l'articolo di Carlo Palenda sulla disinformazione europea pubblicato su Il Giornale mercoledì 5 novembre 2003. «» Prima una battuta: è un grande sollievo, date le circostanze, sapere che solo il 59% degli europei ha una qualche ostilità nei confronti di Israele. Forse Woody Allen direbbe: «Ehi, la notizia è che il 41% degli europei non legge i giornali né guarda la televisione». Infatti è sorprendente quante persone non siano cadute preda della propaganda anti-israeliana diretta, indiretta ed implicita che è dominante sui media continentali. Ma, tornando seri, desidero ringraziare Eurobarometro che ha commissionato il sondaggio. Sul piano metodologico è apparso scorretto, anzi fazioso, ma il risultato è illuminante. Se la domanda fosse stata «sei antisemita?» nessuno avrebbe risposto sì per paura di svelare un sentimento sanzionato come indegno. Il chiedere se Israele è pericolosa per la pace ha estratto dei pregiudizi che ritengo veramente sentiti. E ci permette di analizzare un fenomeno che altrimenti non avremmo avuto modo di scoprire perché oscurato dalle espressioni conformiste. Analisi non facile. Il numero di chi ritiene Israele pericolosa è superiore a quello di chi è influenzato dalla propaganda di sinistra. Pertanto quest’ultima non può essere il solo fattore di spiegazione. Cosa altro lo è? Forse dovremmo cercarlo nelle paure di tutti e non solo nell’ideologia stralunata di alcuni. Qualcosa che ha a che fare con Israele e gli ebrei mette a disagio la «buona società» europea. Prima ipotesi, Israele è memoria viva di una domanda a cui si può rispondere solo mentendo o dichiarandosi vigliacchi: tu, bravo cittadino, se l’autorità del momento ti ordina di discriminare o sterminare senza motivo obbedisci oppure ti ribelli al prezzo di un danno o perfino della morte? Se uno te lo chiede ti mette in imbarazzo, grave. Se non te lo chiede non ci pensi e ti puoi sentire moralmente solido con altre scelte meno faticose. Ma, appunto, la sola presenza nella storia di Israele «chiede». E lo fa a noi europei continentali, e non ad altri, perché durante l’Olocausto molti cittadini normali ne furono complici. Può questa memoria viva perpetuarsi come spina nel presente della buona società europea? Probabilmente non in forma così esplicita, ma non è escludibile che la presenza dell’ebreo sia fonte di disagio. E questo può trasformarsi in pregiudizio negativo: la voglia di rimuovere ed allontanare la fonte del fastidio. Seconda ipotesi, la buona società europea sente veramente la paura di un conflitto con l’Islam, è male informata e quindi ritiene che se Israele «molla» lo scenario possa diventare più tranquillo. In ambedue le ipotesi, che comunque potrebbero avere qualche sovrapposizione, di fatto la nuova questione ebraica in Europa si profila come impedimento a trovare identità e a fare scelte «facili» sia morali sia politiche. Non che se potrebbe produrlo, ma un qualcosa, se possibile, di peggiore: una società debole che si irrita con chi le sbatte in faccia il problema. Continui chi è più bravo di me in psicologia sociale questa analisi o confutandola o ampliandola, ma mi sono personalmente convinto che il problema siamo noi e non Israele. Siamo, come comunità, moralmente impigriti e ci siamo inventati una nuova cittadinanza europea senza storia e senza guai. L’ebreo ci riporta la storia sul piatto, la strenua resistenza di Israele contro chi vuole sterminarla una terza volta agita le acque attorno a noi. Così Israele diviene simbolo di quella realtà di storia disperata e in movimento che noi ci siamo illusi di espellere dall’Europa. Appunto, il problema siamo noi. Ma non vorrei che una riflessione troppo generale ci facesse perdere di vista la concretezza. Quel 59% è anche figlio di teorie sbagliate e di disinformazione. Qui il dito va puntato contro la sinistra che ha sposato la causa palestinese senza approfondirne i termini, istigata dai sovietici quando Israele entrò sotto l’ombrello statunitense. Poi la cosa continuò in forma di associazione tra antiamericanismo e Israele. Acuita dalla variante francese quando Parigi sposò per suo interesse nazionale gli interessi islamici. Si complicò maledettamente quando i Paesi europei, timorosi del terrorismo e del ricatto petrolifero, pensarono di evitare ambedue facendo accordi sottobanco con i Paesi arabi. Il cui prezzo fu l’isolamento di Israele. Mettete insieme il fenomeno psicologico detto sopra, la scelta opportunistica europea e la demonizzazione della sinistra, impastate, e vi trovate uno stereotipo ben radicato in molte menti. Rinnovato da giornalisti che quando c’è un attentato in Israele mostrano immagini «tecniche», mentre quando Gerusalemme agisce in difesa preventiva la prima cosa citata nei telegiornali è la quantità di bambini palestinesi uccisi per errore. Dei bambini ebrei non si parla mai. Cosa che chiama un’altra battuta: o non esistono bambini ebrei oppure questi sono invulnerabili alle bombe. A tanto siamo arrivati. Non so in quanto tempo riusciremo a costruire, e se, una società europea moralmente più forte e responsabile. Ma sono convinto che sia possibile correggere con una informazione più veritiera lo stereotipo che trasforma il Paese più disperato e solo del mondo in quello percepito come quello più pericoloso. Sembra poca cosa in rapporto all’enormità dei problemi qui evocati, ma quel 59% mostra che dobbiamo cominciare da qui la riparazione di casa nostra. Invitiamo i lettori di Informazione Corretta ad inviare la propria opinione alla redazione de Il Giornale. 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