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La Stampa Rassegna Stampa
01.11.2003 Un'opinione non filo-governativa
quella di A.B.Yehoshua

Testata: La Stampa
Data: 01 novembre 2003
Pagina: 1
Autore: Abraham B.Yehoshua
Titolo: «Per Israele un faro all'orizzonte»
A.B.Yehoshua appartiene a quella parte politica che per prima ha lanciato l'idea della barriera di difesa, il partito laburista e sinistra politica in genere. Ma così come viene realizzata trova a sinistra una forte opposizione. Yehoshua è poi d'accordo con la proposta (non governativa) mista israelo-palestinese altrimenti detta "Accordo di Ginevra". In questo articolo apparso sulla Stampa del 1-11-2003 ne spiega i motivi.
LA notizia che in Giordania è stato firmato un accordo dettagliato, corredato da mappe, tra israeliani e palestinesi, mi ha procurato grande emozione. Per la prima volta verrà presentato a Ginevra un documento che non espone solo principi, idee, vaghe aspirazioni o speranze che ognuno può interpretare a piacimento, stravolgendone spesso il significato. La strada del dialogo con esponenti dell’Olp, intrapresa da israeliani coraggiosi subito dopo la guerra del Kippur, è stata lunga, difficile e lastricata da accordi, compreso naturalmente quello di Oslo, che altro non erano che dichiarazioni d’intenti e non documenti conclusivi, quale, per esempio, l’accordo di pace con l’Egitto. Nella storia del conflitto israelo-palestinese non è ancora stato prodotto alcun documento che fosse tanto particolareggiato e minuzioso quanto quello appena firmato, in cui vengono affrontati tutti gli aspetti di un trattato di pace definitivo tra i due popoli, a partire dal riconoscimento dell’identità ebraica dello Stato di Israele da parte dei palestinesi fino al diritto al ritorno dei profughi ma soprattutto, e questa è la cosa più importante, corredato da una mappa che tenendo conto dell’attuale realtà territoriale traccia i confini entro i quali ciascun popolo eserciterà la propria sovranità.
L’accordo firmato non vincola né il governo israeliano né l’Autorità palestinese e non ha alcuna validità legale o politica. Rappresenta solo un modello per il futuro, nonostante i suoi firmatari siano figure centrali, e non marginali, delle rispettive società civili: ministri in carica ed ex ministri dell’Autorità palestinese, comandanti delle forze di Tanzim o di Al Fatah e, da parte israeliana, un ex capo di stato maggiore dell’esercito, ex alti ufficiali, membri della Knesset, ex alti funzionari statali e intellettuali. E questo non è che l’inizio.
La firma del documento da parte di tutti i partecipanti al negoziato, che ha fatto schiumare di rabbia alcuni dei suoi oppositori, è giustificata a mio avviso sia da un punto di vista etico che politico. La storia infatti ci insegna che patti di questo tipo, per quanto dettagliati, possono essere interpretati in maniera diversa. Per rafforzare quindi l’impegno dei suoi sostenitori, passati e futuri, soprattutto in previsione delle forti pressioni a cui saranno sottoposti da parte degli oppositori, era necessario che l’accordo fosse sottoscritto da tutti. Questa strada ci è stata mostrata di recente da Seri Nusseiba e da Ami Ayalon, promotori di un documento di intesa tra le parti e di una raccolta di firme a suo sostegno tra la popolazione israeliana e quella palestinese. In un certo senso il «trattato di Ginevra» è un complemento e una versione particolareggiata di questa iniziativa denominata «Una firma per la pace» che in pochi mesi ha raccolto decine di migliaia di sottoscrizioni.
L’accordo rappresenta anche la conclusione naturale della guerra dei Sei giorni, come sancito dalla risoluzione 242 del Consiglio di sicurezza dell’Onu sottoscritta subito dopo la fine del conflitto sia dalle nazioni occidentali che da quelle del blocco comunista e sostenuta da gran parte della comunità internazionale e da non pochi Stati arabi. Tale risoluzione appare nell’accordo di pace con l’Egitto, in quello con la Giordania, nell’armistizio con la Siria e persino negli accordi di Oslo. Se palestinesi e israeliani avessero stipulato un trattato come quello firmato in Giordania trentasette anni fa, non sarebbe stato difficile metterlo in pratica giacché non avrebbe implicato lo smantellamento di insediamenti israeliani sorti nel frattempo, scambi di terreni e naturalmente il versamento di molto sangue. Ma per anni i palestinesi si sono rifiutati di negoziare con Israele e di riconoscerne l’esistenza e gli israeliani, dal canto loro, hanno attuato una politica di annessione strisciante dei territori. L’intreccio mostruoso tra i sistemi circolatori e i tessuti sociali delle due popolazioni ha portato morte e distruzione che avrebbero potuto essere evitate.
Ma qual è il valore concreto di questo accordo? Benché la reazione spontanea dell’opinione pubblica moderata israeliana sia stata più positiva di quanto ci si attendesse e a un primo sondaggio il quaranta per cento degli interpellati si sia dichiarato favorevole alla sua attuazione, non mi illudo che ciò avvenga a breve termine. Non esiste oggi in Israele una forza politica che si dichiari disponibile a concessioni tanto generose. Dopo lo scoppio dell’ultima Intifada ampi settori della popolazione israeliana hanno perso fiducia nel buon senso dei palestinesi e nella capacità dell’Autorità palestinese di porre freno alla violenza e al terrorismo. Anche se questo documento dovesse essere approvato con un referendum, l’evacuazione di centomila coloni sarebbe difficilissima da attuare e non vedo all’orizzonte nessun governo di pace che possa condurre a termine un’operazione tanto improba senza l’appoggio massiccio dei partiti del centro e della destra moderata. La fiducia tra palestinesi e israeliani si è incrinata e va ripristinata lentamente e pazientemente affinché si possa giungere alla pace.
Il valore di questo trattato, dunque, è simbolico. Una sorta di faro che indica una meta lontanissima ma raggiungibile. Il vero accordo, quello che verrà siglato tra i governi e godrà di ampie garanzie internazionali, certamente differirà in non pochi punti da quello attuale, che tuttavia servirà da modello. Nonostante la sua immediata inattuabilità, infatti, questo piano fornirà le linee guida per ogni iniziativa futura, sia essa frutto di un accordo tra le parti intrapreso sotto patrocinio internazionale o di decisioni unilaterali di Israele - quale la creazione di un confine in determinate zone, l’evacuazione di una parte degli insediamenti o il cambiamento delle regole nello scontro con i palestinesi in seguito a tale evacuazione: da inefficace lotta a terroristi e guerriglieri appartenenti a gruppi islamici radicali a conflitto militare aperto, se ce ne sarà bisogno, contro l'intera popolazione palestinese, l’unica in grado di porre fine al terrorismo e alle ostilità. E forse la popolazione palestinese deciderà di agire in questo senso quando si sentirà politicamente e moralmente motivata dall’avvenuta evacuazione degli insediamenti, dalla fine dell’occupazione, e dalla speranza che questo nuovo piano risveglia.
Il «trattato di Ginevra» non è dunque solo l’ingenuo progetto di visionari animati da buone intenzioni. E’ stato firmato da militari esperti che hanno condotto battaglie difficili e cruente su entrambi i fronti. Ma proprio chi conosce l’uso della forza sa quanto questa sia inefficace se non è sostenuta da un obiettivo politico accettabile che la giustifichi moralmente agli occhi delle parti contendenti e del mondo intero.
Cosa si può fare allora nel frattempo? Io credo che solo un ritiro unilaterale e parziale e la costruzione di un confine chiaro e difendibile - senza la spartizione di Gerusalemme e lo smantellamento dei maggiori insediamenti - possano servire da catalizzatore, infondere nuova fiducia e ridurre la violenza. Anche questi passi, però, che non hanno la presunzione di porre fine al conflitto, devono essere diretti verso il faro che si intravede all’orizzonte.
Occorre anche raccogliere più firme possibili a sostegno dell’accordo concluso, benché molti firmatari probabilmente non lo vedranno realizzato nell’arco della loro vita. La convinzione che ci ha paralizzato per anni che non avessimo nessun interlocutore per un dialogo e niente di cui discutere è stata ora sostituita dalla certezza che c’è un interlocutore ed è possibile raggiungere un accordo soddisfacente secondo il principio che ogni popolo ha diritto alla piena sovranità entro i confini della propria identità.
Chi si preoccupa del caos e della violenza crescente in Medio Oriente, deve apporre la propria firma a questo documento. Capisco che i governi non possano sottoscrivere un accordo concluso in seguito a un’iniziativa privata ma i membri del parlamento di molte nazioni sono invitati a farlo, rafforzandone così il valore agli occhi dell’opinione pubblica israeliana e palestinese. In altre parole: se le due parti sono riuscite a concludere una pace nello spirito di questo documento noi, da parte nostra, daremo il nostro patrocinio e il nostro pieno appoggio.
Più di una volta ho espresso i miei dubbi circa la possibilità che gli Stati Uniti possano condurre palestinesi e israeliani a un accordo anche parziale, e questo a causa delle complesse implicazioni di tipo emotivo e religioso nei rapporti che esistono tra l’America e Israele. Mi rivolgo quindi agli europei. Date voi una mano a questo piano. Se prometterete alle due parti che la ricompensa per la sua approvazione sarà l’entrata di Israele e del futuro Stato palestinese nella comunità europea, darete un contributo enorme al rafforzamento del piccolo faro acceso due settimane fa nei pressi del Mar Morto, nel punto più basso della terra.






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